LOST SOULS - Billy “The Kid” Harris



di Christian Giordano ©
LOST SOULS: Storie e miti del basket di strada

Michael Jordan di giorno, Bishop Don Magic Juan di notte. 
Due anime, due vite tutt’altro che parallele. Nel mezzo, le tante verità. «Sarei potuto essere il primo Jordan – dice di sé Billy Harris – Avevo tutto, e contro di me MJ non sarebbe riuscito a tirare». Bum. Suona un po’ grossa per uno che «non sapeva marcare il proprio cappellino» (copyright di Emory Luck, assistente allenatore che lo ebbe a Northern Illinois). Almeno quanto la storiella che lo voleva capace di schiacciare già alle elementari. Sul resto, si può transare. «Il miglior street player di Chicago. Sul playground sapeva fare tutto – giura Eddie Johnson, 8 anni e 19 stagioni NBA (a cavallo tra i decenni 80-90) in più dell’ex rivale al Jackson Park – Purtroppo, non ce l’ha mai fatta nei pro. In campo era il re e anche i suoi quattro fratelli erano fortissimi. Adattava il modo di giocare al fondo del terreno, ai compagni e agli avversari per vincere. Tirava, palleggiava, passava, andava a rimbalzo e difendeva oltre la sua stazza». Solo sul cemento, però, perché per «il più selvaggio dei giocatori di strada» (giudizio di un coach rimasto anonimo) il basket era un continuo uno contro tutti. «Non recepiva discorsi sul gioco di squadra o sulla difesa – ricorda Jim Foreman, che lo allenò a NIU – La sua idea di basket era superare la metà campo e segnare. Come tiratore non aveva eguali, ma in difesa lasciava alquanto a desiderare». Ieri come oggi, un po’ poco per non andare nella NBA. Sotto doveva esserci dell’altro. «Non era meno forte di altri che ce l’hanno fatta – chiosa Foreman – ma è stato vittima delle circostanze». Tra queste, se stesso.

Billy non ancora “The Kid” – come il pistolero del west Henry McCarthy, alias Henry Antrim o William Harrison Bonney, accoppato a 21anni, nel 1881, dallo sceriffo reso celebre da “Pat Garrett and Billy The Kid”, crepuscolare western diretto nel 1973 da Sam Peckinpah e musicato dal Bob Dylan di “Knockin’ on Heaven’s Door” – nasce a Chicago il 12 novembre 1951. Cresce nel poco accogliente South Side, prima a “The Gap”, un nome un programma, poi nelle Robert Taylor Homes, housing project dei quartiere di Bronzeville (negli anni 40 simbolo della cultura nera come e più di Harlem), ubicato accanto al Dan Ryan Expressway e completato nel 1962. All’epoca, era il progetto di casermoni popolari più grande al mondo, 28 edifici di 16 piani ciascuno che si stendevano per due miglia. All’ultimo rilievo, gennaio 2006, tutti abbattuti tranne uno. Facilmente intuibili i motivi che hanno portato la Chicago Housing Authority a riqualificare l’area e prevedere, per la fine dell’anno, lo sgombero dei residenti rimasti. Le RTH, come Cabrini-Green, hanno vissuto gli stessi problemi che angustiano i ghetti metropolitani: droga, violenza, criminalità assortite. In una parola, povertà. In due, miseria Nera.

È in quel contesto che la signora Harris, la maggiore di 17 figli, tirato su i fratelli e poi i suoi quattro marmocchi, tutti bravi con la palla a spicchi, da Willie a Phil, cercando di tenerli lontano dalla strada. «Eravamo una famiglia unita e religiosa, ma mio padre non mi parlava mai. Era mamma la nostra forza. Era unica, una signora autodidatta che fino ai 30 anni non usciva di casa. Ogni due settimane, quando arrivava l’assegno del sussidio statale, lo ritirava il giorno dopo. Era troppo orgogliosa per mettersi in fila ad aspettare. Lo detestava». 

Billy è portato per baseball (le RTH sono a un fuoricampo dal Comiskey Park dei White Sox) e football, ma per il basket basta un pallone. In più, in famiglia c’è il modello da imitare: Willie, all-city alla Dunbar High School e futuro All-America al Wilson Junior College. «Avevo 17 anni quando smise di giocare – racconta Harris – “Adesso tocca a te” mi disse “Tu ce la farai”». Ovvio che il fratello maggiore lo segnali a Foreman, che un giorno d’agosto, prima del nuovo anno scolastico, rimane estasiato nell’assistere all’uno contro uno fratricida: «Billy aveva un tiro classico, perfetto, con sospensione e rilascio troppo veloci da marcare, anche con più avversari addosso. Ricordo ancora quando fece 21/22, nessuno mi credeva». 

Alle medie Billy ha buoni vuoti e così la madre lo indirizza alla Lindblom HS, liceo teoricamente fuori portata, per tanti motivi, per un nero del South Side. Harris supera il severo test di ammissione salvo scoprire che i freshmen, come al college, non potevano disputare gare ufficiali per non compromettere gli studi. Scatta il piano-B, si va alla Dunbar, l’ex scuola di Willie. Ultimi due anni da urlo e borsa di studio per il college già in tasca: da junior, 36 punti di media, scesi a 32 nell’anno da senior ma con inserimento nel quintetto ideale dell’Illinois assieme a Jim Brewer e Lloyd Batts. Fantastico l’high, toccato nel gennaio 1969 nella sconfitta contro la DuSable: 57 punti, 41 dei quali nel secondo tempo, con 27/39 dal campo. 

Lo vorrebbe Ted Owens, coach di Kansas. Ma il ragazzo segue il consiglio di Foreman: vai a NIU, è a DeKalb, un’ora d’auto verso ovest, là danno borse di studio alle minoranze etniche, sarai la speranza che anche qui, per i neri, le cose possono cambiare. In meglio. Quella scelta, parole di Owens oggi condivise da Harris, sarà per Billy l’Errore della vita. 

Ai tempi, però, la mossa pare giusta. Gli Huskies di coach Tom Jorgensen, con Harris, guardia di 1,90 x 80 kg, Cleveland Ivy della Carver HS e l’ala James (Jim) Bradley da Roosevelt HS (liceo della pericolosissima Gary, nell’Indiana, ma considerata East Chicago), chiudono la stagione 1971-72 a 21-4. Bilancio utile per il quinto posto nel ranking ma non per uno spazietto nel Torneo NCAA, ai tempi riservato a 24 squadre, meglio se di grande tradizione. Ecco la differenza con Kansas. Meglio ancora, per Billy, l’anno da senior: 24.1 punti per gara, con i 38 rifilati, al Madison Square Garden di New York, a Long Beach State. Oggi, numeri da prima scelta NBA. Allora, buoni per il settimo giro del ’73, chiamato per 115° dai Chicago Bulls. Un colpo basso per chi aveva dominato gente del primo round, comprese le pick 1 e 2, gli ex rivali dello Stato ai tempi del liceo, Doug Collins di Benton e Brewer della Proviso East di Maywood. 

«Ho vissuto senza essere pagato per fare ciò per cui ero nato, giocare a basket. Ero una leggenda». Questa è solo una delle tante frasi che all’epoca gli vengono attribuite, ma una le batte tutte: «Between the ages of 16 and 30, I would ’ve fucked them up!». Parole che, noto il suo ascendente sulle donne (e la sua futura attività da pappa), hanno portato tanti biografi a traduzioni del tipo «Quelle tra i 16 e i 30 anni me le facevo tutte». Versioni che però convergono su un più cestistico «li fottevo tutti», considerando la seconda parte dell’esternazione, riportata dal giornalista chicagoano Robert “Scoop” Jackson: «Michael [Jordan], Doc [Julius Erving], Larry [Bird], Oscar [Robertson], Magic [Earvin Johnson], any of ’em. You gotta shoot this muthafucka in the hole to win. Let me tell you… I never lost». La controprova non c’è, quindi “lasciatevelo dire”: non è detto che quei “figli di”, messi in un buco a tirare contro The Kid, avrebbero perso. Anzi. Che però meritasse una chance migliore è sicuro.

Ai Bulls il gm è Pat Williams che in preseason litiga con coach Dick Motta. Il primo coglie al volo l’offerta dei Philadelphia 76ers. Il secondo si vendica epurando le scelte dell’altro, compreso Harris, uno degli ultimi tagliati e arrivato più per sfruttarne la popolarità che per convinzione, dato che a Motta, a differenza di Williams, genio e sregolatezza sono sempre piaciuti meno. Aggravante che il neo-gm Motta poteva risparmiarsi, il nota ufficiale della franchigia che bollava The Kid come «difficile». 

Billy si lascia andare, fa il pappa e lo spacciatore. «Lo ammetto, spacciavo. Ma non ho fatto del male a nessuno (?), tranne che a me stesso. La droga l’ho più regalata che venduta. Ho sempre avuto una coscienza, ma il talento a volte è una maledizione». Col basket ci riprova nella ABA 1974-75. Una mediocre stagione nei San Diego Conquistadors, che falliranno l’anno dopo (come Sails), fra mille infortuni e atteggiamenti da bulletto di quartiere. In 76 gare (in campo per 16.1’ a incontro), 8 punti di media col 39.8% da due, il 21.9% da tre e il 67.7% ai liberi, più 1.6 rimbalzi, 1.5 assist, 0.7 recuperi e una palla a persa a partita e un totale di 6 stoppate. Il suo gioco tutto chutzpah (in lingua yiddish, un mix di estro e sfrontatezza), movenze, tiri double-clutch (uno dei pochi in cui eccelle anche il lungagnone Shawn Bradley, ndr), finger roll e voli «a 30 cm sopra il ferro», come dimostra l’ultimo tentativo da pro, nelle Filippine, sparisce appena lascia l’asfalto. Dove nelle summer league strapazza i pro, rifilando agli ex compagni ai Bulls Norm Van Lier e Jerry Sloan, l’epitome del difensore, «dai 40 [punti] in su». Per Billy, la prova provata che nei pro abbondano i mediocri, «incapaci di giocare alla morte con un coltello puntato alla schiena». 

Oggi l’ex il Ragazzo non gioca più, anche se progetta di farlo negli over 50. Non lesina aneddoti sul fascino di sciupafemmine «sovraccarico di carisma», finalmente chetato dall’amore per la fidanzata Marianne e i sei figli, Devon, Deanese, Amanda, Alexis, Kendo e Anthony. L’ultimogenito, avuto da Tina Murray, ha ereditato dal padre il fisico (1.87 x 87) ma non il trashtalking e forse nemmeno gli stessi geni cestistici. Uscito dalla Whitney Young HS, è al terzo anno di Arti e Scienze e gioca guardia al terzo anno con gli Hurricanes di Miami nella ACC. Cotanto padre, «la persona che più ha influito sulla mia vita». secondo Anthony, preferisce non andare a vederlo giocare «perché sono troppo famoso e farebbero paragoni». Magari con quanto visto nell’estate ’75 al Martin Luther King Boys’ Club, quando Harris batté quasi da solo la squadra con Lloyd Walton, il povero Bill Robinzine (suicida a 29 anni nell’82), Bo Ellis e due stelline locali, Louis Gray e LeeArthur Scott. «Robinzine va a marcarlo all’altezza della lunetta – ricorda Lloyd in un libro di Taylor Bell, “Sweet Charlie, Dike, Cazzie, and Bobby Joe” –, Billy segna in palleggio-arresto-jumper dopo doppio passaggio dietro la schiena. Tutto in lui faceva spettacolo, da come parlava a come giocava. Poteva essere una prima scelta NBA, ma allora andava così. E successo a tutti noi, ma la vita continua». Nel South Side, dove «il telefono squillava ininterrottamente, già quando facevo colazione mi offrivano 500 dollari per una ragazza. Io facevo solo da tramite, ma lo spifferarono a mia madre e dovetti smettere».

Dopo un difficile assestamento («per chi viene dal ghetto l’unico sogno è giocare nei pro: a chi non ce la fa, tanto vale sparargli in testa»), aiutato da amici e un suo ex allenatore, si “accontenta” di vendere auto in una concessionaria Metro Toyota, anche se continua a referenziarsi come «leggenda» e «the man». L’ultima volta in campo gli ha dato ragione: il 17 febbraio 2001, a 49 anni e a suo dire fuori forma, ne mise 24 (top scorer con Andre Williams) nella gara fra vecchie glorie organizzata per il centenario di NIU. Compresi i due della vittoria degli alumni Black and White: 65-pari, recupera una palla vagante, jumper immediato e di una pulizia da bucato, canestro sulla sirena. Il più grande, assieme al contemporaneo Fly Williams? Se no, quasi.

Christian Giordano ©

BIO
Billy “The Kid” Harris 
Nato: Chicago, Illinois, 12 novembre 1951 
Ruolo: guardia
Statura e peso: 1,90 x 80 kg
High school: Lindblom HS; Dunbar HS
College: Northern Illinois University Huskies (1970-73)
Draft NBA: 1973, 6° giro, numero 115 (Chicago Bulls)
Pro': Chicago Bulls (NBA)


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