Over the Rainbow: l’Elogio alla Follia di Pogačarc-en-ciel

Mondiali di Zurigo 2024
«You wanted to know how I did it.
That’s how I did it, Anton.
I never saved anything for the swim back.»
– Vincent Freeman aka Jerome Eugene Morrow (Ethan Hawke), Gattaca
«Forse ho tentato un attacco stupido,
ma per fortuna c’era là Jan (Tratnik)».
– Tadej Pogačar
di Christian Giordano in esclusiva per Sky Sport Insider
Lunedì 30 settembre 2024
«Pogačar guette l’arc-en-ciel», aveva richiamato in taglio alto prima pagina L’Équipe, domenica 29 settembre, giorno della gara, per il pezzo d’apertura del suo spesso geniale e sempre originale inviato speciale Alexandre Roos, la sua principale firma ciclistica.
D’istinto, prima ancora d’aver trangugiato il primo di tanti, forse troppi caffè avevamo rivolto lo sguardo al mutevole cielo zurighese, sorridendo, come a caccia di improbabili eppure scontate conferme. Niente iride ma neppure i temuti nuvoloni neri a solcarne l’orizzonte. Aria frizzantina sì (9,1° C e 82% di umidità, e ottimistiche previsioni di 15 di temperatura massima), ma a differenza del diluvio riversatosi il sabato sulla gara donne élite, almeno non pioveva.
Buon per i 195 partenti (forfait del canadese Guillaume Bolvin) alle 10:34 per i 4,5 km di trasferimento e 10:40 per lo start ufficiale dei 273,9 km di gara: 121 corridori World Tour, 32 Professional, 28 Continental e altri 15 di team minori.
Quanto a quel «guette», in francese, si poteva giocare su più livelli: il fenomeno sloveno, grande favorito, “cerca”, “guarda” ma soprattutto “vede” l’arcobaleno. Roos sarà buon – e troppo facile – profeta.
Somewhere over the rainbow
Way up high
There’s a land that I heard of
Once in a lullaby
Del resto, era scritto. Ora pure su carta, ma prima ancora nelle stelle.
Forse a caccia d’ispirazione per il pezzo di presentazione, com’era solito fare l’erudito Emanuele Dotto (nomen omen), storico inviato di Radio Rai, Roos alla vigilia non s’era fatto scappare l’occasione di una visita d’arte. E caso vuole l’abbia trovata a pochi passi dal via, dando le spalle alla partenza di Winterthur, nel Canton Zurigo. Là dove, nella collezione di Oskar Reinhart presso la Villa Am Römerholz è conservato “L’Adorazione dei Magi”, dipinto a olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1563. «Un capolavoro che, nel vortice di fiocchi di neve, fonde sacro e profano, il terreno e il metafisico». Più prosaicamente, i nostri tre Re Magi su pedivelle (da 165 millimetri quelle dell’erede al trono) erano gli ultimi due sovrani iridati e uno prossimo alla prima investitura, nonché l’unico a caccia della Tripla Corona.
Prima di lui solo il belga Eddy il Cannibale, e un irlandese più francese e italiano degli autoctoni, Stephen il (presunto) Traditore, la versione sappadina di Edoardo VIII e non per niente presente al traguardo. Per, nella più che probabile eventualità affermativa, l’inevitabile selfie di rito. Come Roos, sarà anche lui buon – e troppo facile – profeta.
Somewhere over the rainbow
Skies are blue
And the dreams that you dare to dream
Really do come true
Come lui nessuno mai
Non s’era mai visto, nella storia ultracentenaria del ciclismo, tanto strapotere stagionale. Neppure per quegli illustri, e unici, suoi predecessori (uomini). Con la splendida eccezione della olandese Annemiek van Vleuten, tanto per ribadire che l’universo è donna, nessuno, nemmeno la Cannibale sua connazionale Marianne Vos, era mai riuscito ad abbinare alla Tripla Corona (Giro-Tour-Mondiale) lo scettro di almeno una monumento. Van Vleuten nel suo magico 2022, splendida quarantenne, oltre alla Liegi (come Tadej), si prese pure la Vuelta: maglie rosa, gialla e rossa nella stessa stagione. Nell’altra metà del cielo, un guardaroba mai visto. Figuriamoci indossato.
Eddy Merckx a Montréal 1974 aveva 29 anni e un palmarès senza eguali. Alla quarta stagione nella Molteni, era al culmine della maturazione ma a primavera, per la prima volta in carriera, nelle grandi classiche era rimasto a secco.
Aveva vinto il Trofeo Laigueglia, e tre tappe alla Parigi-Nizza, poi chiusa al terzo posto dietro il duo della Gan-Mercier: l’olandese Joop Zoetemelk, che non solo lo aveva preceduto ma si era imposto nelle tradizionali cronoscalate del Mont Faron e del Col d’Èze, e il francese Alain Santy.
Il Cannibale belga si era poi rifatto vincendo, in tre mesi, il suo quinto Giro (il terzo in fila, come prima solo Alfredo Binda 1927-29), per 12” sul ventenne neopro’ GB Baronchelli, che da quel battesimo del fuoco non si riavrà mai del tutto; il suo unico Giro di Svizzera; il suo quinto e ultimo Tour; e infine il mondiale canadese con 2” sull’eterno secondo Raymond Poulidor e 37” sull’altro francese (ex spagnolo naturalizzato) Mariano Martínez, il nonno della promessa transalpina Lenny quest’anno vincitore proprio al Laigueglia. Giù dal podio, a 39”, l’azzurro Giacinto Santambrogio.
Di monumenti però, per l’immenso Eddy, neanche l’ombra. Nell’unico sfiorato, la Liegi, lo aveva bruciato allo sprint il connazionale Roger De Vlaeminck, più noto come “monsieur Roubaix” per il record all-time condiviso con Tom Boonen di quattro successi all’Inferno del Nord. Per Eddy, un’onta da lavare con l’iride, l’unica classica sfuggita a RDV.
Roche a Villach 1987, di anni doveva ancora compierne 28 (è nato il 28 novembre 1959) e veniva da un’annata tanto straordinaria quanto (per lui) irripetibile. E difatti mai più bissata, per millemila ragioni, non ultime ginocchia e schiena, ma non solo. E non è questa la sede per sviscerarne le altre.
Limitiamoci a ricordare che il Roche II, tornato alla Carrera dopo le poco felici avventure in terra basca (Fagor-MBK) e belga (Histo-Sigma, Tonton Tapis-GB), era stato una pallida controfigura del vecchio sé ammirato, incidenti a parte, nel suo primo interregno alla corte di Davide Boifava, meglio noto in carovana come “il Cardinale”. E se avete subito pensato al porporato Armand-Jean du Plessis di Richelieu, ma in una sua più affettata reincarnazione bresciana, avete buon intuito e ottima memoria.
Dopo il secondo posto all’esordio stagionale, il 14 febbraio alla Vuelta Camp de Morvedre e il quinto dell’indomani al Trofeo Luis Puig, Roche aveva cominciato a vincere il 20 del mese, primo nella quarta e ultima tappa a Torrent e in classifica generale alla Vuelta Valenciana. Alla amata Parigi-Nizza – pur vincendo la semitappa finale, la consueta cronoscalata del Col d’Èze – aveva chiuso “solo” quarto, anche per via dell’“agguato” orditogli contro dal connazionale Sean Kelly, che scatenò i suoi della KAS-Miko più altri alleati non appena accortosi della foratura dell’amico/rivale. Il quale però non fece chissà quali drammi. Tra irlandesi, ci s’intende. Quelli, poi, erano tempi in cui altro che Promenade des Aingles, la “Corsa del Sole” era diventata un’appendice mediterranea dell’Isola di Smeraldo: Roche, da due mesi neopro’, l’aveva vinta ventunenne nel 1981, a tutt’oggi il più giovane nel dopoguerra e di sempre dopo il René Vietto del 1935. Per Kelly, poi, era il giardino di casa: sette in fila tra il 1982 e 1988. Un filotto oggi inimmaginabile.
Roche proseguirà vincendo il Romandia. E tempo sei mesi, archiviate non senza intoppi (il suo “tradimento” di Sappada al Giro, la maschera di ossigeno a La Plagne al Tour) le due maggiori corse a tappe, gli renderà, il 6 settembre in Austria, un’amarissima pariglia.
Partito con una preparazione simil-vacanziera, passata a monetizzare fra criterium e kermesse, e con teorici compiti di appoggio al capitano Kelly, marcatissimo dalle corazzate come il campione uscente Moreno Argentin, il dublinese infilò tutti in contropiede scattando ai -500 metri. A tradimento, à la Roche. Primo davanti all’azzurro e allo spagnolo Juan Fernández Martín. La più improbabile delle Triple Corone, la sua. Ma anche per lui nessuna classica monumento.
Come per Merckx ’74, l’unica sfiorata era stata la Liegi, buttata via nel surplace col belga Claude Criquielion, ormai quasi fermi a studiarsi, mentre alle loro spalle rinveniva a beffarli proprio Argentin, il principe della Ardenne alla sua terza (consecutiva) di quattro Doyenne. L’ultima, nel 1991, ancora davanti al povero “Cric”.
Quanto a The Rivalry fra i due Irish Blokes, il 2 ottobre Kelly si prenderà la “bella” vincendo con 43” sul neo-iridato il Tour of Ireland (Nissan Classic), la mini-corsa a tappe di casa che ebbe vita troppo breve, dal 1988-1992. E chiusa dopo le riedizioni nel triennio 2007-09.
Il famelico Tadej Pogačar, neo-26enne (dal 21 settembre) erede designato alla successione di Remco Evenepoel e Mathieu van der Poel, prima ancora di banchettare alla tavola iridata di Zurigo, s’era già divorato Liegi, Giro e Tour – doppietta mai riuscita a nessuno da Marco Pantani 1998, men che mai con sei tappe equamente divise – più Strade Bianche, stradominata al debutto stagionale, Volta Catalunya e, a dieci giorni dal mondiale, GP di Montréal. Pantagruel, al confronto, seguiva una dieta sana e morigerata. Quanto alle sue fughe a lunga gittata, fareste meglio ad abituarvici.
Ecco un breve bigino stagionale, confrontato con quello di Fausto Coppi del 1949. In tema di dominio da distanze siderali, il suo più verosimile (chilo)metro di paragone.
Pogačar 2024
2/3 -81,4 km – Strade Bianche (215 km)
19/3 -6,5 km – 2ª tappa Volta a Catalunya: Mataró - Vallter 2000 (186,5 km)
20/3 -7,3 km – 3ª tappa Volta a Catalunya: Sant Joan de les Abadesses - Port Ainé (176,7 km)
23/3 -29,2 km – 6ª tappa Volta a Catalunya: Berga - Queralt (154,7 km)
21/4 -34,4 km – Liegi-Bastogne-Liegi (254,5 km)
5/5 -4,3 km – 2ª tappa Giro d’Italia: San Francesco al Campo - Santuario di Oropa (161 km)
19/5 -13,9 km – 15ª tappa Giro d’Italia: Manerba del Garda - Livigno/Mottolino (222 km)
25/5 -34,1 km – 20ª tappa Giro d’Italia: Alpago - Bassano del Grappa (184 km)
2/7 -19,3 km – 4ª tappa Tour de France: Pinerolo - Valloire (139,6 km)
13/7 -4,6 km – 14ª tappa Tour de France: Pau - Saint-Lary-Soulan Pla d’Adet (151,9 km)
14/7 -5,4 km – 15ª tappa Tour de France: Loudenvielle - Plateau de Beille (197,7 km)
19/7 -8,7 km – 19ª tappa Tour de France: Embrun - Isola 2000 (144,6 km)
15/9 -23,3 km – GP Montréal (209,1 km)
29/9 -51,7 km – Mondiale in linea di Zurigo (273,9 km)
Totale: 324,1 km
Coppi 1949
19/3 -32 km – Milano-Sanremo (290,5 km)
8/5 -90 km – Giro di Romagna (296 km)
2/6 -125 km – 11ª tappa Giro d’Italia: Bassano del Grappa - Bolzano (237 km)
9/6 -192 km – 17ª tappa Giro d’Italia: Cuneo-Pinerolo (254 km)
11/9 -122 km – Giro del Veneto (295 km)
23/10 -56 km – Giro di Lombardia (222 km)
Totale: 617 km
Someday I’ll wish upon a star
And wake up where the clouds are far behind me
Where troubles melt like lemon drops
Away above the chimney tops
That’s where you’ll find me
Un giorno di ordinaria follia: la carica dei -101
Alzi la mano però chi si sarebbe mai aspettato, persino da “Pogi”, una simile condotta di gara. Un’opera d’arte in quattro imprevedibili atti. Un erasmiano Elogio alla lucida follia, scattato – è il caso di dirlo – a oltre cento chilometri dal traguardo. Anzi ai -100,8 ad essere precisi.
Assorbito il fugone mattutino innescato da sei temerari, Piotr Pękala (Polonia), Tobias Foss (Norvegia), il padrone di casa Silvan Dillier (secondo nella Roubaix 2018 di Peter Sagan), Rui Oliveira (Portogallo), Simon Geschke (Germania) e Luc Wirtgen (Lussemburgo), davanti sono rimasti in quattro: lo sloveno Jan Tratnik, il cavallone danese Magnus Cort Nielsen (un altro baffo che conquista), l’australiano Jay Vine (altro UAE e primo istigatore dell’azione) e il tedesco Florian Lipowitz. Non hanno chance, ma è lo scontato copione di ogni mondiale.
Da loro si defilerà Tratnik, testa di ponte per Pogačar. Un po’ come Michele Scarponi per Vincenzo Nibali verso Risoul, terzultima tappa del Giro 2026, e vantaggio massimo in pratica già, come Il visconte di Calvino, dimezzato: da 3’56” a meno di due minuti in un batter di (ped)ali.
“Scarpa” allora aspettò lo Squalo, che attaccò sul Colle dell’Agnello, vinse la tappa e il giorno dopo, a Sant’Anna di Vinadio, andò a sfilare la rosa al colibrì colombiano Esteban “Sorriso” Chaves.
Quel giorno scendemmo a valle ormai al buio con l’ultima navetta e la netta sensazione di aver appena assistito a un instant classic, con annessa History in the making. E non solo del ciclismo ma dello sport. Qui, ibidem, ma siamo sul Witikon: 2,6 km al 5,3% di pendenza media e 20,7% di massima. E manca ancora un terzo di gara.
La Slovenia del Ct Uroš Murn ha corso sin qui con l’intelligenza e la calma dei forti, anche se non fortissimi.
La vera corazzata è il Belgio, che pur senza Wout Van Aert (quanti rimpianti, lunghezza e tracciato perfetti per lui) schiera al servizio di re Remco un All-Star Team con Tiesj Benoot (in carriera Strade Bianche e Kuurne), Victor Campenaerts (ex recordman dell’ora, tappa a Giro e Tour), Laurens De Plus, Quinten Hermans (2° alla Liegi 2022), Jasper Stuyven (Sanremo 2021, tappa a Vuelta, Kuurne), Maxim Van Gils e Tim Wellens (quattro Eneco Tour, Giro di Polonia), che però alla UAE Emirates è compagno di Tadej.
Anche la Francia non scherza, ma non ha più il suo faro Julian Alaphilippe, caduto ai -218,4 km insieme con Pello Bilbao, dato in gran forma (nono al Québec, secondo dietro Pogačar a Montréal), e João Almeida (a proposito di compagni di Tadej alla UAE). Alaphilippe si ritira subito – «lussazione alla spalla sinistra», dice il Ct Thomas Voeckler a Guillaume Di Grazia, inviato tv di Eurosport France – e l’immagine di Loulou dolorante a terra, riverso sul fianco destro, fa male quasi quanto a lui. Lo spagnolo e il portoghese erano invece ripartiti, ma poi anche loro abbandoneranno.
Il mondiale è – sempre – una corsa a eliminazione.
Ai -208,3 km il canadese Mike Woods in favore di camera si alimenta con una vaschetta tipo pranzo al sacco.
Ai -194 km c’è un imbottigliamento in salita, e nel gruppo c’è chi deve mettere piede a terra come neanche sul Koppenberg al Fiandre nei più tetri giorni di pioggia fiamminghi.
Ai -188 km esce finalmente un barlume di sole e si entra nel circuito di Zurigo da ripetere sette volte (e mezza).
Ma già ai -171 km la Danimarca perde il suo co-capitano Mattias Skjelmose (mal di schiena, retaggio della caduta al Lussemburgo), e dunque punta tutto su Mads Pedersen, che però non pare quello fatale al nostro Matteo Trentin a Harrogate 2019.
Somewhere over the rainbow
Bluebirds fly
Birds fly over the rainbow
Why then, oh, why can’t I?
Ai -101,9 km ci prova la Danimarca con Kasper Asgreen, alla cui ruota si aggancia subito il neerlandese Wilco Kelderman. Il primo lavora per Pedersen, il secondo per van der Poel.
Tadej, al coperto del fido Domen Novak, suo scudiero pure alla UAE, tutto osserva e controlla.
Ai -101,5 è il turno di Quinn Simmons, baffoni degni del verneriano Michele Strogoff se non fosse che lui è di Durango, nel Colorado, dunque concittadino di Sepp Kuss.
Allo statunitense si accoda il francese Romain Grégoire, che perso Alaphilippe deve immolarsi per almeno uno tra il suo omonimo Bardet, l’eterno incompiuto David Gaudu, Valentin Madouas fresco di argento olimpico in linea a Parigi dietro sua maestà Evenepoel o persino Pavel Sivakov, altro UAE che però si muoverà più avanti.
War is in the air, parafrasando in senso agonistico la nota canzone.
E infatti, ai -100,9 si muove nientemeno che Primož Roglič, versione gregario extra-deluxe per capitan Pogi. Vincitore della quarta Vuelta in carriera appena 21 giorni prima, Rogla si mette in testa a tirare appena dietro i due che si sono sganciati. Ma subito dopo si entra in un’altra dimensione, quasi onirica. Il vantaggio dei fuggitivi intanto cala a 1’44”.
Ai -100,8 km – lo riscriviamo in lettere a mo’ di pizzicotto sulla guance, come memento: meno-cento-virgola-otto – si allarga dal centro alla sinistra della carreggiata un’altra maglia verde chiaro: è Pogačar. Va via alla sua maniera, caracollando con le spalle. E mulinando quei 165 mm di pedivelle a 90-100 colpi al minuto e con un furore assassino. Gli vanno dietro, seh, si fa per dire, Simmons e Andrea Bagioli. Mal gliene incolse.
«Sono stato uno stupido! Se ti avvicini troppo al sole, ti bruci» aveva dichiarato Ben O’Connor, che nella seconda tappa al Giro, quella di Oropa, aveva cercato di prendere la ruota dell’alieno sloveno. L’australiano, al miglior anno della carriera, farà tesoro di quella dura lezione e la terrà buona per il finale: storico argento dopo il quarto posto al Giro, il secondo alla Vuelta sulla scia della maxi-fuga vittoriosa a Yunquera nella sesta tappa e l’oro iridiato nella staffetta mista.
Bagioli si squaglia in novanta secondi e non più di tre chilometri. Sarà il penultimo dei rari sussulti azzurri: prima s’era visto solo Mattia Cattaneo, con l’australiano Jay Vine, il russo-francese Sivakov di cui sopra e il norvegese Johannes Staune-Mittet. Poi, un paio di brevi allunghi di Ciccone, dei nostri l’ultimo a spegnersi e il primo all’arrivo: ma 25° a 6’36”. Forse troppo poco per salvare l’ammiraglia di Daniele Bennati. Mai “La Squadra” era stata così poco tale a un Mondiale, con l’eccezione di Belgio 1950: nessuno classificato (neppure Gino Bartali e Alfredo Martini) fra i 15 superstiti arrivati al traguardo di Moorslede.
Il marziano in verde, intanto, è in rotta solitaria a caccia dei battistrada che ora sono ad appena 1’35”. In mezzo però lo attende il “Trattore” Tratnik. Legend in the making.
Raggiuntolo ai -96 km, i due si danno cambi regolari: Jan col dorsale 25, Tadej col 22. Il suo numero di vittorie stagionali, e quasi in real time in via di aggiornamento.
Chiuso già ai -90 km il buco e ricompattato il gruppo, Pogačar si schiaccia quasi a uovo (ma entro i limiti, la posizione non è più consentita dalla UCI pena la squalifica, vedi Davide Formolo alla terza tappa del Lussemburgo) e in discesa detta il ritmo al serpentone di 17 con dentro coppie di sloveni, tedeschi e norvegesi e uno a testa di Australia, Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Italia, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Svizzera e USA. Ne rimarrà soltanto uno. Dai -51,6 km.
If happy little bluebirds fly
Beyond the rainbow
Why, oh why can’t I?
E mentre dietro, in testa al gruppetto dei big inseguitori, Evenepoel platealmente si lamenta con l’ignaro Matteo Jorgenson e il suo connazionale Simmons per (presunti) mancati cambi, sul tratto più duro, nella seconda parte della Bergstrasse – 800 metri al 7,1% e una punta al 17,2% –, Tadej si scrolla di ruota l’ultimo “giapponese”: quel Sivakov, amico e compagno nella UAE che in corsa lo conosce come forse nessuno. Ma per “il” giorno un avversario come gli altri. Stavolta però Pogi non scatta come cinquanta chilometri prima, semplicemente sale con un passo irresistibile per gli umani.
Fine dei giochi. Anche se nel finale mostrerà qualche cenno di affaticamento, col vantaggio di un minuto sceso al minimo dei 35”, Tadej non dà mai davvero l’impressione di poter essere ripreso. Pogačar guette l’arc-en-ciel.
Con lui sul podio l’australiano Ben O’Connor, a 34” bravo e furbo ad anticipare una volata mai in discussione, e regolata a 58” dal campione uscente van der Poel sul lettone Toms Skujiņš, fra i protagonisti per tutto il giorno, Evenepoel, che ha sfiorato una doppia doppietta iridata e olimpica senza precedenti, e il padrone di casa Marc Hirschi, l’altro favorito della vigilia e che il prossimo anno lascerà la UAE di Tadej per la svizzera Tudor. Un distacco che, se Pogi non avesse smesso di pedalare (e spegnere il computerino prima ancora di tagliare il traguardo) e già iniziato a esultare, sarebbe stato persino più clamoroso.
Fugone per la vittoria
Per trovare fughe iridate anche solo paragonabili, bisogna risalire alla notte dei tempi, e a un ciclismo che fu.
I 90 km in solitaria di Vittorio Adorni, che a Imola 1968 iniziò la sua cavalcata ai -235 km dei 277,31 totali, chiudendo una maratona di 7h 27’ 39” con 9’50” sul belga Herman Van Springel e 10’18” sul gruppetto con altri quattro azzurri: Michele Dancelli, “Cuore matto” Bitossi, il “Camoscio d’Abruzzo” Vito Taccone e Felice Gimondi.
I 70 km del fiammingo Georges Ronsse sui 191,7 km di Budapest 1928 con 19’43” sui tedeschi Herbert Nebe e Bruno Wolke.
Gli ultimi 50 km di Ercole Baldini a Reims 1958, il suo anno di grazia, partito addirittura ai -250 km.
O, infine, i 30 di Fausto Coppi, per antonomasia «l’uomo solo al comando» di marioferrettiana memoria. A Lugano 1953, l’Airone volò via sulla Crespera come apoteosi dell’azione nata ai -85 km.

Vinco, e sono felice
Quando lo sloveno trova giornate così, e sono già 83 in carriera a soli 26 anni, gli altri prima di tutto mentalmente possono correre solo per un piazzamento. A Zurigo ha attuato – e portato in porto – una lucida follia che, per sua stessa ammissione, nemmeno Merckx avrebbe mai azzardato. «Ha fatto qualcosa d’incredibile. Non ho parole per descriverlo. Bisogna essere pazzi per farlo», ha dichiarato il Cannibale a Le Parisien.
In zona mista, Evenepoel ha parlato di come non solo lui ma pure van der Poel e gli altri big fossero rimasti spiazzati per quella che, a cento chilometri dall’arrivo, sembrava una «suicide move». E forse lo era, persino per il diretto interessato.
«Non riesco a credere a cosa è appena successo», ha detto Tadej all’arrivo. «Mi sono messo tanta pressione. Ma io e la mia squadra volevamo davvero questa maglia».
Come ogni lucida follia c’era però dietro del calcolo.
«Forse il mio è stato un attacco stupido, ma per fortuna Jan (Tratnik) era davanti. Non mi sono mai arreso. È una giornata incredibile. Non riesco a crederci. Non era questo il piano. Volevamo controllare la gara, ma la corsa è esplosa in fretta. C’era stata una fuga pericolosa. Non so cosa stessi pensando in quel momento. Ho semplicemente seguito il flusso (della gara) e per fortuna ce l'ho fatta. È stata dura. Quest’anno è andato tutto liscio e dopo una stagione perfetta questo era il grande obiettivo. Ringrazio la mia squadra, perché senza i miei compagni tutto ciò non sarebbe stato possibile».
Alla partenza, col solito disarmante sorriso e un inglese grammaticalmente magari non proprio oxfordiano ortodosso ma efficace, aveva ammesso di aver fatto la ricognizione del circuito metro per metro. E che avere al fianco Roglič sarebbe stato un problema in meno di cui preoccuparsi: «For sure, I have one less guy to worry about».
Pianificata la stagione col nuovo preparatore Javier Sola, subentrato dopo quattro anni a Iñigo San Millán, e attuati un diverso regime alimentare e un programma agonistico con meno giorni di gara (solo la Liegi come campagna del nord) e più mirato alla doppietta Giro-Tour, dopo il terzo posto di Glasgow 2023 l’assalto al mondiale era diventata la terza grande priorità. Coltivata e centrata con certosina applicazione.
E se non vi siete commossi nel vederlo all’arrivo farsi largo tra fotografi e cameramen, come Rocky sceso dal ring verso la sua Adriana, per andare ad abbracciare la fidanzata Urška Žigart (24ª nelle élite il sabato), temiamo siate irrecuperabili.
Parafrasando la teologa Dorothee Sölle, date a Tadej non un pallone ma una bici e una maglietta coi colori dell’iride e avrete la felicità spiegata a un bambino. L’arcobaleno non poteva trovare un cielo migliore.
L’Italia avrà il privilegio di essere la prima a vedergliela indossare in gara, e per ben tre volte a ottobre: il 5 al Giro dell’Emilia col San Luca così caro a Roglič, l’8 alla Tre Valli Varesine e il 12 al Lombardia, che lo sloveno punta a vincere per la quarta volta in fila. Come Coppi dal 1946 al 1949, recordman assoluto con cinque successi davanti ai quattro (1925-27 e 1931) di Alfredo Binda.
Van der Poel invece punterà a rimettersela quella maglia, ma nel gravel, il 6 ottobre al mondiale di Leuven. L’altro sua grande obiettivo che ne chiuderà la stagione. «Sono abbastanza soddisfatto», ha detto spalancando il sorriso giù dal podio zurighese. «Penso di aver fatto un buon lavoro su questo percorso. Alla fine, volevo andarmene da qui con una medaglia».
E sul folle attacco di Tadej, ha commentato così: « All'inizio ci siamo solo guardati. Io non ho mai sperimentato così tanto. Non credo fosse nei suoi piani partire così lontano. Sembrava più un’ispirazione del momento. E quando i belgi hanno iniziato a tirare al completo, ho pensato che stesse sprecando le sue chance di titolo. Ma non è andata così. È stata una delle azioni più impressionanti che io abbia mai visto. Pensavo stesse firmando la sua condanna, in genere succede così se si corre da soli, ma con Tadej semplicemente non è così».
Pogačar è ora, anche ufficialmente, «il migliore della sua generazione?», chiede a VDP qualche temerario.
«Penso di sì», la risposta con altro, stavolta sorprendente sorriso, del neerlandese van der Poel, certo non abituato, a differenza dell’amato nonno “Poupou” Poulidor, al finire secondo. Figurarsi terzo.
Ordine di arrivo:
Winterthur - Zurigo (273,9 km)
1 Tadej Pogačar Slovenia 6h 27’ 30” alla media di 42,410 km/h
2 Ben O'Connor Australia + 34
3 Mathieu van der Poel Olanda + 58
4 Toms Skujiņš Lettonia + 58
5 Remco Evenepoel Belgio + 58
6 Marc Hirschi Svizzera + 58
7 Ben Healy Irlanda + 01:00
8 Enric Mas Spagna + 01:01
9 Quinn Simmons USA + 02:18
10 Romain Bardet Francia + 02:18
Elisa di Lotte (Kopecky) e di governo
Come quasi sempre, la gara élite femminile non ha lesinato spettacolo ed emozioni. Stavolta però specie nel finale. In 4h 05’ 26” e 154,1 km di corsa resa ancor più dura da freddo e pioggia incessante, spesso battente, se la giocano in volata in sei: la belga Lotte Kopecky, campionessa mondiale uscente ed europea in carica;
l’olandese Demi Vollering, bramosa di vincere dopo un’annata di amarissimi secondi posti, su tutti il Tour, per 4” dalla polacca Katarzyna Niewiadoma, e il mondiale a crono per 16” dall’australiana Grace Brown, biolimpionica a Parigi in linea e contro il tempo come Evenepoel, dopo Frecce (Brabante e Vallone) e Romandia;
la statunitense Chloé Dygert, due volte iridata (2019, 2023) e fresca di argento sempre a cronometro;
la tedesca Liane Lippert, anche lei argento a Zurigo ma nella staffetta mista dietro l’Australia e davanti all’Italia di Filippo Ganna e Edoardo Affini (argento e bronzo nell’individuale), Cattaneo, Elisa Longo-Borghini e Gaia Realini;
l’australiana Ruby Roseman-Gannon, velocista un po’ a sorpresa rimasta con le big su un percorso così duro, e anche lei oro nella mixed-relay con Brown, Brodie Chapman, Michael Matthews, Ben O’Connor e Jay Vine;
e infine, ma certo non per ultima, capitan Longo Borghini, ripresa dopo il suo attacco ai -5,5 km e lucidissima a rimanere in coda per poi lanciare lo sprint da dietro, battezzando la ruota di Kopecky.
Ne è uscito un volatone regale con la belga davanti a Dygert e l’azzurra, la nostra polizza a copertura globale: classiche, grandi giri, nazionale.
Miglioratissima negli sprint specie se lanciati, anni fa per lei un finale così sarebbe stato proibitivo. Merito in primis suo per il gran lavoro, dei consigli del collega-consorte Jacopo Mosca e di Paolo Slongo, guru della preparazione a lungo al fianco di Vincenzo Nibali. Persona e professionista squisiti che, oltre ai segreti del mestiere, conosce la preziosa e rara arte di saper farsi ascoltare. Vinto per la prima volta l’agognato Giro d’Italia, per 21” proprio su Kopecky, Longo Borghini dopo la caduta che le aveva fatto saltare il Tour era stata male prima del Romandia. Slongo l’aveva rassicurata, starai bene prima del mondiale, ma lei non ne era sicura e in vista di Zurigo s’era testata da sola. «Nell’ultima settimana, prima di arrivare qui, gli ho disobbedito – ha ammesso giù dal podio a Ciro Scognamiglio della Gazzetta dello Sport – Sono andata a cercare le mie solite salite per stabilire i tempi migliori. Paolo è stato capace di riprendermi e io a quel punto gli ho detto “Okay, va bene, forse hai ragione tu”».
Permetteteci due parole in più per questa eterna ragazza che non tradisce mai.
Antipersonaggio di umiltà e semplicità, nella migliore accezione, a volte persino disarmanti, è tanto sottovalutata in Italia quanto considerata fra le super big all’estero. Si esprime con grande proprietà di linguaggio, va poco e malvolentieri in tv, non rilascia dichiarazioni roboanti, ma nei grandi appuntamenti c’è sempre. Non cerca mai scuse. E quando si delude, come in linea a Parigi (nona), fa comunque top ten.
Prima donna italiana a vincere il Fiandre e la Roubaix, come Kopecky ha vinto due volte il primo e una la seconda, in azzurro vanta tredici podi: un argento e cinque bronzi mondiali, due bronzi olimpici, oro, argento e tre bronzi europei. Dei monumenti, le manca solo la Liegi, sfiorata (seconda) negli ultimi due anni. Ha vinto Giro, Strade Bianche, due Binda, Brabante, Plouay, 4 tricolori in linea e 7 a cronometro, compresi gli ultimi quattro. Che cos’altro deve conquistare per essere ritenuta e valorizzata, pure mediaticamente, tra le più grandi azzurre di sempre?
Prece per Muriel
Le lacrime trattenute a stento di Linda Zanetti, riconoscibilissima senza gli occhiali da gara, in testa al gruppo con le compagne della nazionale svizzera al via della gara élite sono l’istantanea dolorosa di questa edizione.
Spazziamo via ogni ipocrisia e fintissima retorica da «show must go on». Come hanno fatto per primi i suoi familiari: il mondiale non aveva senso interromperlo o anche solo rinviarlo. Il ciclismo è – e sempre sarà – uno sport rischioso e pericoloso. Sono giusti e doverosi tributi e commemorazioni come il dorsale 108 di Wouter Weylandt ritirato al Giro e campagne di sensibilizzazione. Ma la prima cosa necessaria sono gli investimenti: per protezioni, mezzi e personale di soccorso e tutto quanto possa prevenire le emergenze e nel caso intervenire con immediatezza ed efficacia. Il resto è sciacallaggio. Per rendere obbligatorio nelle gare il casco, già obbligatorio in Belgio da tempo immemore, c’è voluto il sacrificio estremo del kazako Andrei Kivilëv. Era il 5 maggio 2003. Vent’anni e innumerevoli casi dopo, a un anno da Gino Mäder, siamo ancora a chiederci perché. Ora, il primo caso di decesso avvenuto durante un mondiale.
Se c’è qualcosa che dobbiamo alla 18enne Furrer, è mantenere vivo il fuoco della passione e illuminarci con la luce dei suoi occhi. Danke für alles liebe Muriel.





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