ISRAELE-ITALIA E RITORNO
Ieri in Ungheria, il 14 ottobre a Udine: sfide mondiali al tempo del genocidio. Una doppia morale tiene in gioco la nazionale di Tel Aviv. E il calcio israeliano è sempre più "all’italiana"
MATTIA ZÀCCARO GARAU
Il Manifesto
Martedì 9 settembre 2025
Pagina 16
Forte della storica amicizia tra i due «fratelli spirituali» Viktor Orbán e Benjamin Netanyahu, la nazionale israeliana gioca tutte le sue partite casalinghe negli stadi ungheresi. Il Primo ministro d’Israele potrebbe anche presenziare a ogni sfida al Nagyerdei Stadion, vista la disponibilità a ospitarlo in Ungheria, come fatto negli ultimi mesi per rinsaldare gli accordi bilaterali tra i due governi - in barba al mandato di arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale (che, infatti, Budapest ha deciso di abbandonare).
Ma ieri, comunque, Bibi allo stadio non c’era quando, sul neutro di Debrecen è andata in scena l’andata tra Israele e Italia valevole per le qualificazioni europee ai prossimi Mondiali negli Stati Uniti (e in Messico e Canada, ndr). Come non ci sarà il 14 ottobre a Udine quando, malgrado richieste di annullamento e imbarazzi vari, andrà in scena il ritorno.
TUTTAVIA LA FEBBRE, affatto calcistica date le prospettive comunque desolanti di una nazionale italiana ancora in via di guarigione, è destinata a salire ancora. A nulla sono valse le parole del sindaco della città friulana, Alberto Felice De Toni, che ha chiesto ufficialmente il rinvio della gara o del presidente dell’Assoallenatori (italiani), Renzo Ulivieri, che ha addirittura suggerito il boicottaggio di Israele e la sospensione delle sue nazionali dalle competizioni sportive. E l’impressione è che a nulla serviranno i nuovi appelli che di certo si susseguiranno nelle prossime settimane.
La pietra tombale sull’argomento l’aveva già posta il ministro per lo Sport e i Giovani, Andrea Abodi. Qualche settimana fa, sollecitato sul fatto che si potesse serenamente giocare contro la nazionale israeliana al contrario di quella russa, squalificata da oltre tre anni, aveva svelato coram populo il motivo della doppia morale: «La Russia è un paese aggressore, Israele è stato aggredito. Tutto è partito, al di là dei giudizi e di come sta diventando, dal 7 ottobre 2023».
Argomento chiuso, anche se il ragionamento era corredato da un vaniloquio che smentiva quanto appena detto: «Io credo che la ricostruzione dei rapporti e di una prospettiva nasca dal riconoscimento dei fatti, che non possono partire dopo ma devono tener conto anche dei presupposti». I presupposti, appunto, come le occupazioni israeliane in Palestina o l’allargamento della NATO a est.
OGGI DAVANTI ALL’INFERNO palestinese, può sembrare di poco conto la questione calcistica. Ma il pallone, che per il marxista Eric Hobsbawm è culto proletario di massa, esemplare prodotto storico della società industriale - è modello plastico di fenomeni sociali complessi, a volte anche anticipatore normativo di istanze della società civile. I primi esempi, se non di boicottaggio almeno di scrupoli di coscienza rispetto al genocidio palestinese cominciano a emergere. La federazione norvegese, per esempio, sulla scia delle proteste popolari ha deciso di devolvere l’incasso della partita Norvegia-Israele dell’11 ottobre - stesso girone di qualificazione dell’Italia - a un’associazione umanitaria che opera a Gaza. Si era parlato della stessa iniziativa anche da parte della Federcalcio italiana per la partita di tre giorni dopo, ma la proposta sembra già tramontata. Si tratta, comunque, di operazioni di singole federazioni, non condivise a livello mondiale. A proposito della doppia morale tra Israele e Russia, il presidente della FIFA,Gianni Infantino, temporeggia da quasi due anni sull’espulsione di Israele dal calcio mondiale richiesta dal Comitato Olimpico Palestinese. Al contrario fu molto veloce nel 2022: la cacciata con ignominia delle nazionali russa e bielorussa e di tutti i loro club dai consessi internazionali avvenne solo quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Questo anche se Infantino, politicamente, è da sempre molto vicino a Mosca: amico di Putin, che gli ha consegnato personalmente la medaglia dell’Ordine dell’amicizia al Cremlino, negligente a dir poco nei confronti dei sospetti di doping russo prima del Mondiale di calcio del 2018 proprio in Russia, e pronto a condannare chiunque pronunci su un campo di calcio uno Slava Ukraini benché lui si sia abbandonato in pubblico a uno Svala Rossii. Ma perché questa disparità di trattamento?
IL CALCIO RUSSO è espressione dell’autocrazia russa: aziende ferroviarie, multinazionali del gas e banche statali sono alla guida delle squadre più importanti del campionato e gli investimenti che hanno portato il calcio post-sovietico ad affacciarsi ai palcoscenici europei nei primi anni del nuovo millennio - sono stati diretti da Putin in persona.
Per questo motivo, la punizione internazionale arrivata tramite il calcio ha avuto un senso profondo e più rilevante di quanto si possa immaginare.
Oggi il calcio israeliano, invece, coi suoi presidenti decisamente più canonici rispetto a quelli russi, è una (brutta) copia del calcio inglese, francese, tedesco e soprattutto italiano: intrecci familiari con la politica, palazzinari vari, venditori di auto e potenziali criminali. Tutto molto ortodosso e, di conseguenza, decisamente innocuo. Per esempio: Alona Barkat, proprietaria dell’Hapoel Beer Sheva, secondo l’anno scorso, è cognata del ministro dell’Economia israeliano, Nir Barkat, ex sindaco di Gerusalemme dal 2008 al 2018, investitore, col fratello, in multinazionali che si occupano di sicurezza informatica e trading con sede legale alle Isole Vergini; Mitchell Goldhar, milionario canadese, a capo di un fondo d’investimento che costruisce centri commerciali, è proprietario del Maccabi Tel-Aviv, campione in carica; Ya'akov Shahar, presidente sempre di un Maccabi, quello di Haifa, presiede una delle più grandi compagnie di importazione di macchine e camion israeliane; Moshe Hogeg del Beitar Gerusalemme, attivo soprattutto nel campo delle criptovalute e frodatore seriale (incriminato per un caso da oltre 290 milioni di dollari) è fuori su cauzione da 22 milioni, in attesa di giudizio a seguito di accuse di traffico di esseri umani, induzione alla prostituzione, somministrazione di droga a minori e così via. E queste erano solo le prime quattro in classifica dello scorso campionato.
Insomma: niente di nuovo per il calcio, decisamente abituato al modo in cui politici, imprenditori e delinquenti usano lo sport-washing per migliorare la loro reputazione.
SE PUNIRE IL CALCIO RUSSO è servito a punire lo statalismo russo, non punire quello israeliano ha significato validare un modo di fare calcio del tutto simile a quello occidentale. Al punto che il presidente della Lazio e senatore di Forza Italia, Claudio Lotito, ha siglato a maggio scorso un accordo con Goldhar e Shaha, presidenti dei Maccabi di Tel- Aviv e Haifa, per promuovere una non meglio precisata collaborazione calcistica e «una campagna di sensibilizzazione contro l’odio e la discriminazione razziale». Peccato che i tifosi del Maccabi Tel-Aviv, tramite i loro profili ufficiali, pubblichino foto dei loro membri impegnati nelle operazioni a Gaza, confermando la loro matrice esplicitamente anti-araba.
Con tutti gli impianti sportivi di Gaza distrutti dall’IDF e le oltre ottocento vittime tra atleti, allenatori, dirigenti, arbitri, tra cui anche stelle del calcio palestinese, ci vuole coraggio per proseguire sulla strada degli accordi con Israele e per ritenere legittime le partite di calcio con Israele. Lo stesso "coraggio" del ministro Abodi e del senatore Lotito.

Commenti
Posta un commento