Il bambino senza braccia - In un solo scatto tutti gli orrori di Gaza


Mahmoud, 9 anni, le ha perse in un raid israeliano: la foto della palestinese Samar Elouf è la vincitrice del World Press Photo 
Il piccolo in attesa delle protesi usa i piedi per aprire le porte e giocare sul cellulare.

La Repubblica - Venerdì 18 Aprile 2025
Pagina 21
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LA STORIA - di MICHELE SMARGIASSI 

Mahmoud poteva cavarsela, ma tornò indietro per incitare i suoi familiari a scappare più in fretta dal bombardamento israeliano su Gaza City, uno dei tanti, nel marzo 2024. Un’esplosione improvvisa gli strappò via il braccio destro e gli sbranò a metà quello sinistro. Mahmoud Ajjour, nove anni, è un salvato, dopo tutto. Adesso è a Doha, in un ospedale specializzato in ferite di guerra, dove sono passati altri settemila bambini palestinesi come lui. In quell’ospedale una fotografa palestinese, Samar Abu Elouf, anche lei evacuata in Qatar, gli ha fatto questo ritratto, che il New York Times ha poi pubblicato, e che ieri ha vinto il premio foto dell’anno del World Press Photo, l’Oscar del fotogiornalismo.

Mahmoud ha detto a Samar di avere tante speranze. In attesa delle protesi, usa i piedi per aprire le porte e giocare sul cellulare.

Possiamo dire che ci si aspettava dal WPP che scegliesse una fotografia dal massacro di Gaza. Il WPP ha la tendenza a premiare la peggiore tragedia dell’anno. Ma vuole farlo con il miglior stile fotografico. Per i giurati del premio, «questo ritratto, con la sua forte composizione e l’attenzione alla luce, suscita domande sul futuro del ragazzo ferito, e sulla disumanizzazione di una regione». Ovviamente, le polemiche sulla rappresentabilità dell’orrore esploderanno anche questa volta, e la risposta, come sempre, sarà o dovrebbe essere quella che diede una volta per tutte la studiosa Susie Linfield: «Cosa c’è di sbagliato nel mostrare l’ingiustizia, cosa c’è di giusto nel nasconderla?».

Ma era anche probabile che la fotografia simbolica dello sterminio israeliano della gente di Gaza, fosse la fotografia di un bambino. Dall’ospedale del Qatar fanno sapere che almeno undicimila bambini gravemente feriti sono ancora là, fra le macerie di Gaza, sotto le bombe esplosive e sotto la morte per fame dovuta al blocco degli aiuti umanitari. Per altre decine di migliaia non si può più fare nulla, loro sono già polvere alla polvere. I loro ritratti non li avremo, sono troppi, e sono sempre meno i fotoreporter sul campo, i nostri occhi delegati su un orrore disumano. Con Fatima Hassouneh, fotografa palestinese, uccisa mercoledì, sono oltre duecento i giornalisti ammazzati a Gaza, spesso presi deliberatamente di mira.

Un bambino. Come bambini erano fra le vittime del sanguinario pogrom di Hamas del 7 ottobre. Bambini, “danni collaterali” per gli ipocriti. Bambini come la piccola Kim Phuc dalla schiena devastata dal napalm, fotografata da Nick Ut in Vietnam nel 1972. Come il piccolo Jo dal volto butterato dalle schegge di mina che lentamente lo uccisero, fotografato da Werner Bischof in Olanda nel 1945. Come l’anonimo scheletrico albino ritratto da Don McCullin in Biafra nel 1960.

Come i corpicini straziati dai mitra dei marine su un sentiero di My Lai, in Vietnam, fotografati da Ron Haberle nel 1968. Come il minuscolo Alan Kurdi migrante spiaggiato sulla sabbia di Bodrum, ripreso da Nilüfer Demi nel 2015.

Bambini, bersagli ultimi di ogni ingiustizia. Immagini di bambini come schiaffi in faccia. Nelle guerre muoiono milioni di adulti. Dalla Seconda guerra mondiale in poi, sotto la finta ipocrita pace della deterrenza nucleare, sono oltre venti milioni. Ma quando vogliamo gridare tutto lo schifo per la violenza della guerra, è alle foto dei bambini che facciamo ricorso. Come se la vista delle vittime adulte non bastasse da sola a strapparci dall’anima l’indignazione necessaria. Come se avessimo bisogno di vittime speciali, di vittime al quadrato, vittime assolute, vittime che non ci lasciano alcuna possibilità di dubitare del loro essere vittime.

Ma i bambini sono queste vittime special i. Lo sono in ogni cultura e in ogni epoca. Lo sono per istinto di protezione animale, per definizione, per autoevidenza, non sembra neppure ci sia bisogno di spiegare perché lo sono. La morte di un bambino appartiene all’area del sacer, che è sacro e maledetto assieme. Il bambino, a differenza dell’eroe romantico, non può opporsi alla propria disfatta. In quanto innocente per definizione, privo di volontà di fare il male, il bambino è la vittima assoluta. Dunque, il bambino è l’unica vittima in grado di additare il male assoluto. Il male che non può accampare alcuna giustificazione, né alibi o anche solo una spiegazione. Perché il male “adulto”, invece, viene spesso giustificato. Di fronte alla violenza della storia, soprattutto se in qualche modo ci sconvolge, la nostra coscienza cerca tutti quegli alibi, esimenti e spiegazioni. La vista del corpo straziato di un adulto può essere altrettanto sconvolgente di quella di un bambino, ma l’adulto, anche se vittima, non è mai ritenuto pregiudizialmente innocente.

Il bambino è incapace di responsabilità politica e morale: tornare puri come bambini è la condizione per entrare nel regno dei cieli. Il sacrificio del bambino viola la purezza preadamitica dell’uomo. Il bambino è privo di peccato originale, il suo sacrificio è puro sacrificio. Il bambino è l’innocenza.

Ma le fotografie di bambini massacrati non fermano le guerre. Anche oggi abbiamo una fotografia.

Abbiamo una storia. Abbiamo un premio. È davvero tutto quello che ci serve? Cosa ci manca?

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