Tutti insieme allenianamente
Orson Welles disse che aveva ‘il morbo di Chaplin’ e fu profetico: la sagoma nevrotica e occhialuta di Woody Allen come i baffi e la bombetta di Charlot
29 Nov 2025 - la Regione
Di Stefano Piri
Hollywood Ending è un film di Woody Allen tutto sommato trascurabile, girato a cavallo del millennio in apertura di una triade di commedie un po’ fiacche (seguirono Anything Else e Melinda & Melinda) che portarono molti, come sempre sbagliando, a darlo per finito; ma è riscattato da una gag finale fulminante. Val Waxman, il regista alter ego di Allen e da lui stesso interpretato, è riuscito a girare un intero film da cieco prima di venire smascherato. Al termine delle riprese la cecità psicosomatica guarisce, e Waxman può vedere per la prima volta il suo lavoro, naturalmente disastroso e del tutto incoerente. Il film esce comunque, per il ludibrio di critica e pubblico americani. Ma quando tutto sembra perduto, alla porta del regista suona il suo agente, elettrizzato: la critica francese ha visto il film e lo ha trovato un capolavoro. Ora Waxman/Allen potrà realizzare il suo sogno di trasferirsi a Parigi e girare là un film. “Grazie a Dio esistono i francesi!”, sospira a favore di camera.
Una meraviglia almeno
Questo epilogo anzitutto conferma una legge cara a tutti gli alleniani, che li trascina ogni volta al cinema e li induce a conservare un anfratto del proprio cuore perfino per scarabocchi come To Rome with love o il recente Rifkin’s Festival: non tutti i film di Allen sono meravigliosi, ma ogni film di Allen ha almeno una cosa meravigliosa. Poi, raccoglie in sé diversi dei motivi ricorrenti del cinema e della carriera di Allen, tanto che in molti, all’uscita nel 2003, lo presero come una sorta di giocoso film-testamento (e invece Allen, che domani compie novant’anni, poco dopo si sarebbe reinventato con Match Point, e poi reinventato ancora, girando solo in questa “terza età” cinematografica altri 18 lungometraggi, quasi il doppio dell’intero corpus di gente come Tarantino o Kubrick). Il finale di Hollywood Ending è una variazione ottimista sul senso del tragico che ispira l’ex cabarettista fin dai tempi di Prendi i soldi e scappa e Amore e guerra; sull’idea, nichilista per lui che da sempre si professa ateo ma di matrice molto ebraica, della sorte che si fa beffe dei progetti degli uomini e ne rovescia i destini per capriccio. Ed è anche un omaggio in forma di sberleffo all’Europa cinematografica che prima l’aveva ispirato (la sua devozione a Fellini e a Bergman torna di continuo come gag, dalla scena della coda al cinema di Io e Annie a quella di Manhattan in cui Diane Keaton/Mary osa collocare il grande regista svedese nella sua “accademia dei sopravvalutati”) e poi accolto, spesso riscattando i risultati deludenti dei suoi film al box office USA. Allen non è mai stato profeta in patria, o come ebbe a dire lui stesso in un’intervista: “Fin da piccolo il mio sogno era diventare un regista straniero”.
Un tipo divertente
Nato Allan Stewart Königsberg il 30 novembre 1935 nel Bronx, crebbe a Brooklyn (ma non sotto le montagne russe di Coney Island come in Io e Annie) in una famiglia ebraica di origine europea secondo lui povera, secondo alcuni biografi invece piccolo-borghese. Alle superiori stabilì che i mestieri che i suoi compagni di classe volevano fare da grandi – medico, avvocato e roba del genere – gli sembravano mortalmente noiosi. Qualcuno gli fece notare che era sempre stato un tipo divertente, e gli suggerì di mettere per iscritto le sue battute. A sedici anni cominciò a farsi pagare (bene) dai giornaletti umoristici per gag e barzellette, ebbe il suo primo agente e l’anno dopo assunse lo pseudonimo di “Woody Allen”. In origine il suo umorismo non includeva grande interesse per la drammaturgia, per lo sviluppo dei personaggi o tantomeno per la risacca tragica della comicità: tendeva piuttosto al surreale come i suoi idoli dell’epoca, Groucho Marx e Jerry Lewis. Forse per questo i suoi primi approcci alla settima arte furono un tantino ruvidi. Il primo film che scrisse, Ciao Pussycat!, fu un successo al botteghino ma anche un incontro tutt’altro che romantico con una leggenda come Peter Sellers, notoriamente intrattabile e già su un viale del tramonto lastricato di pasticche, acidi e cocaina. Sellers lo prese di mira e Allen, che pure per il geniale interprete di Clouseau e Hollywood Party in pubblico non ha mai speso altro che lusinghe, si ripromise di chiudere col cinema finché non gli fosse stato offerto il controllo assoluto di un film, regia compresa. E del resto non fece poi un’impressione migliore all’arci-nemico di Sellers, Orson Welles, che in una delle ultime biliose interviste ebbe a dire di Allen: “Ha il morbo di Chaplin. Quella particolare combinazione di timidezza e arroganza mi fa accapponare la pelle”.
L’enciclopedia sentimentale
In un certo senso la battutaccia sul “morbo di Chaplin” fu profetica: la sagoma nevrotica e occhialuta di Allen sarebbe divenuta, per il postmoderno della seconda metà del Novecento, ciò che baffi e bombetta di Charlot erano stati per la più tragica e al contempo innocente prima parte del secolo breve. Sono pochissimi gli artisti a cui tocca il privilegio di elevarsi ad aggettivi; oggi chiunque capisce all’istante cosa intendiamo, che si parli di umorismo, di un mondo o di un personaggio, quando diciamo “alleniano”. Un archetipo contemporaneo (anche se Woody a Jung ha sempre preferito Freud) che mette definitivamente radici nell’immaginario tra il ’77 e il ’79 con i suoi due film forse più celebri: Io e Annie e Manhattan. Un’ora e mezza l’uno, un’intera enciclopedia sentimentale, un repertorio di scene e battute memorabili inesauribile. E una sovrapposizione tra interprete e personaggio che Allen ha spesso bonariamente tentato di scrollarsi di dosso: giura di non essere un tipo particolarmente nevrotico o insicuro, piuttosto un grande lavoratore molto determinato – vista anche la sua incredibile prolificità non possiamo che credergli – e insiste di non essere nemmeno granché intellettuale e di non aver letto molti libri – qui invece ci sentiamo di dubitare.
La sua stagione più completa è stata però probabilmente quella della mezza età, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, con capolavori corali come Hannah e le sue sorelle e Mariti e mogli, semplicemente dei classici che hanno il loro posto, accanto a quelle di Tennessee Williams, Eugene O’Neill e Arthur Miller, tra le più grandi drammaturgie americane di sempre. Mariti e mogli fu anche l’ultimo atto artistico e sentimentale del suo sodalizio con Mia Farrow, concluso da accuse atroci che di quando in quando tornano a galla, e nonostante il pieno proscioglimento sembrano non conoscere diritto all’oblio. Solo dopo il Covid-19 del 2020 Allen ha un po’ rallentato il suo ritmo scientifico di un film l’anno, non per stanchezza ma per difficoltà nel trovare finanziamenti. Di quando in quando rilascia interviste amareggiate sullo stato delle cose, che vengono interpretate come addii al cinema. Invece, dopo che i buoni vecchi francesi gli hanno dato la possibilità di tornare a dirigere il divertente Coup de chance, ha appena annunciato che girerà il suo prossimo film in Spagna, l’estate prossima. A 90 anni compiuti, e tanti auguri.
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