Capo Howth, l’altura dove Joyce incontrò il corpo di Finnegan
Storia di un promontorio irlandese e assai letterario, cui lo scrittore ha donato una nuova mitologia

ENRICO TERRINONI
Il Manifesto - Giovedì 21 agosto 2025
Pagina 12

A poco meno di quindici chilometri a sud della capitale irlandese incontriamo le cosiddette Dublin mountains. Non sono montagne come ce le aspetteremmo noi. Il picco più alto, Kippure, non arriva a ottocento metri. Supera così tecnicamente i requisiti per definirsi montagna, ma va detto che in base ai parametri in uso esisterebbe una qualche ambiguità a riguardo. Diciamola tutta: è la conformazione delle «montagne di Dublino» a tradirne la vera natura di colline cresciute. Viste da lontano assomigliano più a dolci pendii inframezzati da valli soavi. Tuttavia, a ben vedere, è l’Irlanda stessa a non essere terra di montagne. La vetta più alta, Corrán Tuathail, misura poco più di 1000 metri. Si trova nella contea di Kerry, sulla costa sudoccidentale, dove incontriamo anche tanti pendii e scogliere che però, delle montagne vere e proprie, conservano stranamente tutto il fascino. 

ANDANDO PIÙ A NORD, poi, si arriva ad esempio a Slieve League, nella contea di Donegal, che con i suoi 601 metri scavallerebbe per una sola unità di misura lo status di collina. Strapiomba pericolosamente e «dalla base si sporge sul mare», per dirla con l’Amleto di Shakespeare (che però parlava di Elsinore). Slieve League passa così per essere una delle scogliere più alte d’Europa. Tornando però ai monti veri e propri, malgrado la timidezza in termini di altitudine dei rilievi irlandesi, non mancano nell’isola quelle che potremmo definire montagne magiche. Ad esempio, nelle zone del Connemara, contea il cui panorama punteggiato di torbiere, monti collinari (chiamiamoli così) e laghi nascosti, racconta degli spiritelli buoni e cattivi, quei fairies, o Sídhe, che troppo spesso sono in italiano erroneamente tradotti con la parola «fate». Ma torniamo alla capitale, perché è lì che svetta (si fa per dire) il promontorio più magico, o meglio, quello reso magico da un autore che incarna l’Irlanda proprio come Shakespeare incarna l’Inghilterra. Parliamo di Joyce, e parliamo del Ben of Howth, Beann Éadair in irlandese (Ben sta per picco, o vetta). Localizziamolo. Se dal centro della città si prosegue sul lungofiume in direzione mare, arrivati a ridosso delle prime onde e guardando lontano a sinistra, lo si vedrà. È un promontorio, più che un monte, e segna la fine, a nord, della bellissima baia di Dublino. Se invece si dirige lo sguardo in direzione opposta, inoltrandosi un po’ nelle acque, si potrà vedrà il suo omologo meridionale, Bray Head. 

FU QUESTA ALTURA con tutta probabilità è essere la prima su cui si fissò la fantasia di Joyce, visto che da piccolo viveva proprio nel villaggio di Bray (la sua casa, setting della famosa cena di Natale con annessa litigata politica del Dedalus, è ancora in piedi, e dal soggiorno si vede proprio quel promontorio). Tuttavia, a incantare maggiormente Joyce non fu Bray ma Howth, anche se i due estremi, come sempre in lui, si toccano, si fondono: nel Finnegans Wake abbiamo la parola «Brayhowth». Nell’Ulisse, è a Howth che Leopold Bloom e Molly si scambiano i primi baci (e forse qualcosina in più...). Poi, nel finale del libro, Howth ritorna nel meraviglioso monologo sgrammaticato di Molly e lo fa con tutto il suo fascino: «Il sole splende per te a detto lui il giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel vestito di tweed grigio e il suo cappello di paglia il giorno che mi sono fatta fare la proposta sì».

È però col Finnegans che Howth prende vita, o meglio, si risveglia dal suo stato dormiente, e come un gigante torna a incombere su tutta la città. È infatti proprio il promontorio uno dei personaggi mitici che compongono la grammatica segreta del libro, un romanzo fantasmagorico in cui ognuno è qualcun altro, com’è stato detto. Il Finnegans, che è di Joyce l’ultima opera, e che sta all’Ulisse come la notte sta al giorno, è un libro del tutto atipico. I personaggi sono spesso sigle e luoghi. Abbiamo ad esempio Alp (Anna Livia Plurabelle, il fiume) e Hce (Here Comes Everybody, suo marito). I figli maschi (Shem e Shaun) sono le rive di Anna Livia (il tutto è ben spiegato nella prima parola del libro, «riverrun», in cui abbiamo proprio le rive e anch'essa, river Anne, poiché il fiume di Dublino ha per nome Anna Liffey). Poi abbiamo la figlia Issy, Isolde, o Isotta, che corrisponde geograficamente al parco, a Phoenix Park, il parco della fenice, mitico alato che rinasce dalle sue ceneri (di qui il gioco su Finnegans: fine + again

MA CHE C’ENTRA con tutto questo l’altura di Howth? Iniziamo col dire che il Finnegans è, in un certo senso, modellato sull’opera di uno dei maestri di Joyce, il grande poeta inglese rivoluzionario e radicale William Blake. Parlo di Jerusalem, ovvero L’emanazione del gigante Albione. Albione è rappresentativo della Gran Bretagna ma pure dell’Umanità. È l’Uomo Eterno che, nella cosmologia di Blake, caduto nel sonno profondo, dall’Eternità o Eden si separa, facendo sì che le sue quattro forze, le quattro Zoa (Ragione, Passione, Sensazione e Istinti), inizino a combattersi. Così, la sua caduta (ombra di quella di Adamo) coincide anche con la formazione dell’universo.

Joyce era assai addentro alle visioni di Blake e lo cita continuamente. Ma forse, l’eredità maggiore del poeta inglese sta proprio nell’uso che Joyce fa, nella sua nuova mitologia, del promontorio di Howth.

TUTTO NASCE dalla saggezza popolare, perché Joyce, checché ne dicano i detrattori o chi non vuole affrontarlo per pigrizia o per paura, è uno scrittore popolare, un figlio del popolo. L’idea del libro sorge infatti da una ballata, una canzone tradizionale che si sente spesso per i pub di Dublino. S’intitola Finnegan’s Wake (con l’apostrofo, mentre il titolo del libro di Joyce è senza). Parla di un uomo creduto morto di nome Tim Finnegan, sul cui corpo, durante un alterco nato in occasione della sua veglia funebre (wake vuol dire veglia ma anche scia...), cade una goccia di whiskey; al che il poverino creduto salma si riprende e si stupisce del rito funebre inscenato a sua insaputa.

Il testo della ballata a questo punto della storia recita: «Tim Finnegan rising from the bed...», il che non può che riecheggiare la sorte del Cristo risorto dai morti («rising from the dead»), ma anche un gigante che Joyce identifica con Howth: Finn mac Cumahill (o McCool). Per Joyce, il suo corpo è disteso sulla piana di Dublino.

Secondo il nuovo mito joyciano, la caduta del gigante aveva generato una morte apparente, e il corpo era adagiato accanto al letto di Anna Liffey – Anna Livia, il fiume-moglie. Del gigante, che è forse una versione celtica dei bestioni di Vico, la testa aveva formato Howth Head (Capo Howth) a nord della baia, mentre i piedi riposavano a Phoenix Park.

Il parco è la location principale di questo nostro libro-sogno o libro-incubo (o «labirincubo», stando alla traduzione della parola «nightmaze» che Joyce inventa: nightmare + maze).

NELL’OPERA definitiva di Joyce – che, per la sua creatività linguistica genialmente fanciullesca, andrebbe letta già dalle elementari – l’altura di Howth è non soltanto il gigante non morto, ma anche la nostra vera speranza di rinascita. Non a caso, in un passo lo leggiamo trasfigurato in «Cape of Good Howth»: in questa espressione troviamo ovviamente il riferimento al Capo di Buona Speranza (Cape of Good Hope) ma anche la traduzione italiana di Ben, che diviene «Good».

È così che funziona la magia del libro di Joyce. Inventando (dal latino invenire), si rinviene. E quel che si rinviene è una voce d’incanto che mai sa fermarsi, perché sempre rinasce. E allora, a suggello di quest’incantesimo oscuro, leggiamo un’ultima evocazione su Capo Howth, che tanto ci dice di questo libro segreto, ma che, a differenza delle altre frasi, non vogliamo qui minimamente spiegare, lasciandone l’onere a lettrici e lettori volenterosi: «Old Whitehowth he is speaking again».

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