LAURENT LE MAGNIFIQUE (versione integrale)
«Io ho vissuto, senza saperlo allora, la fine dell’età dell’oro.
L’età dell’oro?
È una parola grossa, ma mi sembra una definizione adeguata,
anche se la mia è: il punto finale della dignità umana.»
di SIMONE BASSO
In fuga dagli Sceriffi
Rainbow Sports Books
Volando altissimi, nello stile aulico e snob di un bipede originale come il soggetto analizzato, per descrivere Laurent Fignon potremmo utilizzare il concetto artaudiano di poesia nello spazio.
Il parigino, personaggio fortissimo quindi odiamato come nessuno in quel periodo, attraversò gli Ottanta caratterizzandoli con il suo physique du role inconfondibile, misterioso e affascinante.
La strada solcata, sempre la più inusuale, rimarcò ancor meglio un cammino fatto di vittorie straordinarie e di rovesci tremendi, annichilenti: con Lorenzo Fignoni, di origine romagnola incerta, la normalità fu sempre bandita.
Arrivò al professionismo dopo un apprendistato sereno nei puri, accolto nella Bauhaus del ciclismo, la Renault di Cyrille Guimard. Il pigmalione che allevò almeno tre generazioni di campioni.
In quel periodo, all’ombra di Toro Seduto Hinault, crebbero il nostro, LeMond, Marc Madiot, Pascal Jules, Charly Mottet; in un vivaio di talenti che potrebbe avere corrispondenze, nella storia dello sport, solamente con la UCLA dello Stregone John Wooden.
Il biondino occhialuto, di tutti i puledri, fu quello che sorprese subito di più, tanto che indossò una rosa al debutto (nel Giro 1982) e rischiò di vincere un Gran Premio d’Autunno, perso rocambolescamente per la rottura di un pedale.
Fignon divenne adulto subito, ancora bambino.
Il primo Tour, a ventitré primavere da compiere, fu inaspettato e clamoroso. La matricola vinse un’edizione tremenda: mancava il capitano, il Tasso, e accadde l’incredibile.
Pavé, cronofiume, Pirenei, il Puy de Dome, l’Alpe, Morzine, Avoriaz e infine Digione, un massacro.
Saltarono quasi tutti: nonno Zoetemelk al pisciatoio, Kuiper per un incidente paterno, Kelly sull’Aubisque, Van der Velde in una discesa.
L’eroe sfortunato, Pascal Simon di giallo vestito, cadde e si frantumò la spalla sinistra.
Rimasero due poppanti: il torero di Segovia, Perico Delgado, e il bimbo da Saint-Mandé.
Lo spagnolo si perse sulla Madeleine, affogando a 25 minuti, e decretò la vittoria del transalpino.
1983, ai Campi Elisi si annunciò il futuro: Fignon quel pomeriggio lo trasformò nel presente.
L’anno dopo, la stagione della conferma, visse sullo scisma di Hinault dal gruppo-Guimard.
Per il ciclismo francese, abituato all’antica rivalità Renault-Peugeot, fu l’inizio di una faida appassionante tra la gang del santone Cyrille e quella dell’avventuriero Bernard Tapie. Al centro dello scontro, l’ex delfino fortunello alla Grande Boucle e il vecchio capitano assetato di rivincite.
Prima del ring a forma di Ricciolo venne l’importantissima esperienza al Giro d’Italia 1984, istruttiva del clima ciclistico di quel Bel Paese.
Fignon, presentatosi come il grande favorito e l’avversario del Cecco Moser messicano, non comprese di essere il trofeo di caccia più prestigioso di quella campagna rosa.
Ebbe la colpa di non capire l’antifona (insieme a Visentini) e fece l’impossibile per aggiudicarsi la gara, malgrado tutto, a dispetto dei santi, di una Renault deboluccia e di una piccola fringale salendo verso il Blockhaus.
Subì una quantità tale di angherie da far impallidire lo Jacquot Anquetil di certe edizioni della corsa rosa nei Sessanta: la disparità tecnologica, talmente evidente che qualche dì dopo la corsa rosa gli organizzatori del Giro di Svizzera proibirono lenticolari e manubrio a corna di bue; la carovana intera, convinta di partecipare a un reality, si comportò di conseguenza aiutando il trentino in quasi ogni circostanza; Torriani, dopo aver disegnato un Giro morbido, cancellò pure lo Stelvio e lo sostituì con il Passo del Tonale.
Proprio il giorno della Lecco-Merano aggiustata (...) venne fuori una fuga a tre pericolosa: Fignon, Visentini e Breu furono inseguiti dal Moser in rosa con il conforto di motociclette molto vicine al primatista dell’ora.
All’arrivo quella linguaccia biforcuta del Visenta vuotò il sacco (con un furore verbale degno di Henri Chopin..) e si condannò all’espiazione del martire, il pomeriggio dopo, salendo verso Selva di Valgardena.
Laurent invece, a dispetto della fatal Verona, fece meraviglie nel tappone dolomitico di Arabba: quella impresa, contro tutto e tutti, fu il gesto atletico più rilevante compiuto nel Medioevo del Giro d’Italia.
Incattivito dal furto della rosa, scaricò la rabbia prima consolandosi a Plouay con il tricolore, poi scontrandosi con il vecchio maestro.
Fu un Tour storico, dominato da un fuoriclasse che scherzò l’imperatore deposto e gli altri.
La seconda gialla consecutiva arrivò dopo cinque tappe vinte con numeri degni del Merckx d’annata: s’impose a cronometro, per distacco in salita, opponendo una superiorità disarmante agli attacchi illogici del bretone; che a Parigi, secondo in classifica dietro la pantera gialla, si beccò dieci minuti e mezzo.
Sembrò, quell’estate francese, l’inizio di una dittatura e le dimostrazioni siciliane del febbraio 1985 sembrarono confermare la tesi.
Ma, ritornando ai paragoni con il "pazzo di Rodez", venne il momento del Teatro della Crudeltà: sottovalutò un incidente di corsa apparentemente innocuo, ovvero la botta del pedale di un collega (in un imbuto post caduta) alla caviglia sinistra.
La tendinite lo obbligò a un’operazione chirurgica delicata e, dopo una sosta di quattro mesi, ricominciò praticamente da zero.
L’atleta superbo del luglio 1984 non si rivide più, al suo posto un corridore dalla classe cristallina, ma discontinuo e a volte a disagio col maltempo.
Il Tour de France 1987 fu l’emblema di quel Lorenzo bipolare, salito su un frenetico rollercoaster, ma il talento, intatto, si riconobbe anche nei particolari apparentemente più insignificanti.
Luogotenente riluttante di un Mottet bardato di giallo, nella frazione verso Blagnac scrutò il cielo, annusò il vento e ordinò ai compagni di indossare le mantelline da pioggia.
Dopo qualche perplessità, e lo sguardo ironico di alcuni colleghi, si scatenò una bufera d’acqua che consentì ai Système U di filare via, mentre mezzo plotone si fermò per infilare l’impermeabile. Il risultato? Un minuto al traguardo sui rivali incauti e la dimostrazione pratica che i watt contano sì, ma solo fino a un certo punto...
Grande Boucle di emozioni forti e contrastanti per il Professore, che il 19 luglio mentre affrontava il Ventoux a cronometro divenne padre. Un momento dolcissimo, la nascita del primogenito Geremia, si incrociò con la disfatta amara di quel pomeriggio: affondò infatti a dieci minuti dall’astro nascente Jean-François Bernard.
Eppure, nella seconda parte di quel Tour fu uno degli attori più brillanti del cast: ispirò con successo la rivolta contro il nuovo padrone Jeff, sulla sua Alpe mostrò bagliori antichi e a La Plagne (déjà-vu gradevole dell’84) vinse con la forza dell’orgoglio.
A fine anno, la scomparsa tragica del “fratello” Pascal Jules lo rese sempre più scorbutico e lunatico nel rapporto con i media e il mondo esterno.
La resa dei conti della carriera era ormai prossima: riapparì con un codino aristocratico alla Sanremo 1988, quando al traguardo infilzò il neofita Maurizio Fondriest dopo una stoccata sul Poggio.
L’anno seguente – il 1989 – entrò di nuovo in una dimensione magica, non più la motocicletta di Crans Montana ’84 ma uno splendido concentrato di grande ciclismo: coraggioso, scaltro, aggressivo, potente.
Fece il bis alla Sanremo beffando gli squadroni dei velocisti, al Giro si riprese il maltolto e la rosa nella bufera di Corvara.
Fu il faro di un Tour de France drammatico e avvincente, inaugurato dal colpo di scena del ritardo di don Perico Delgado (maglia gialla uscente) al cronoprologo.
La sfida a quattro (Fignon, LeMond, Delgado e Mottet) si ridusse, dopo una scrematura spietata, a un duello tra gli ex enfant prodige della Renault-Gitane, passati entrambi attraverso il fuoco fatuo del destino: l’americano attendista, in difesa, ma più forte nell’esercizio contro le lancette; il francese arrembante, fantastico centravanti di sfondamento, costretto dagli eventi a sfruttare ogni opportunità.
Si passarono le insegne del comando più volte e, dopo la piccola emorragia di secondi a Briançon (tredici, una beffa se si ripensa al finale...), il capitano della Super U attaccò sull’Alpe d’Huez.
Ricostruzione di quel giorno cruciale: gruppetto dei padrini, corsa in ebollizione, caldo feroce e stanchezza palpabile.
L'americano in giallo, ai meno sei dall’arrivo, fece capire a Fred Mengoni (al volante dell’ammiraglia ADR) di essere allo stremo.
Guimard, appena dietro, intuì qualcosa e cercò di passare per avvisare gli altri contendenti: l’italoamericano lo stoppò due volte, alla terza rischiarono l’incidente, poi Fignon colse la tensione del momento e partì rabbioso.
Con il senno di poi, se il Professore fosse scattato un chilometro prima, la storia avrebbe mutato il suo corso.
Greg comunque andò al tappeto, Laurent scandì un passo che intimorì pure un Delgado appannato.
Sul podio indossò una maillot jaune che sembrò definitiva quando, il dì seguente, verso Villard-de-Lans - all’apice dell’ispirazione - piantò la concorrenza con un assolo esaltante.
La coda di cavallo al vento, il rapportone pestato all’esasperazione e gli avversari impauriti.
Peccato che l’epilogo, la cronometro nella sua Parigi, consegnò ai posteri il finale più incredibile di sempre: otto secondi per delimitare il confine impalpabile tra gloria e dannazione sportiva.
Questa volta, dopo le lenticolari moseriane, fu il manubrio da triathlon a beffare Lorenzo – che pedalò pure con un fastidio al soprassella – e, ripensando a quel finale, non si può non evidenziare quanto sia stato decisivo nella trasfigurazione che avverrà nei Novanta.
L’atleta che corse da marzo a ottobre di fronte al programmatore sparagnino che considerò solo due corse l’anno: vinse per un centinaio di metri (molto casualmente) l’esempio che porterà a un mutamento epocale nei costumi agonistici.
In fondo, con la mentalità dell’avversario, il Fignoni non avrebbe mai perso quel Tour: niente classiche primaverili in prima fila, un bel Giro da turista, una sfilata di marchi in qualche occasione e il cannone puntato sulla Festa di Luglio.
The Remains of the Day, per citare Kazuo Ishiguro, fu una discesa lieve, rassicurante.
Il tarlo di quel pomeriggio parigino nella testa, chiuso a riccio nei suoi pensieri.
Il sesto posto al Tour 1991, l’unico vecchio fusto che non fu travolto dai nuovi ganzi (Indurain, Bugno e Chiappucci), l’addio a Guimard e la firma con la Gatorade, come padrino del Gianni iridato.
Ci fu sempre qualcosa di speciale nell’osservarlo vincere la sua ultima frazione alla Grande Boucle (1992), con la grinta di un leone che (ri) catturò (per qualche ora) l’attimo fuggente.
Non riuscì mai a vincere la Parigi-Roubaix, malgrado i numerosi tentativi: a dispetto dei suoi 63 chili e la struttura fisica esile, il Professore si esaltò spesso sul pavé.
Nel 1988 solo una fuga-bidone ne impedì l'affermazione.
Tre anni dopo cadde, forò cinque volte (!) ma lottò indomito e quando entrò nel velodromo ci fu un’ovazione.
Salutò il gruppo al sorgere della leggendaria Epolandia, 1993: al Tour si sfilò sul Restefond, in mezzo agli ultimissimi, osservando la corsa da dietro. Lui che passò la carriera nel gruppo di quelli davanti. Un momento, un gesto, di un corridore diverso: fu veramente l’ultimo dei mohicani in uno sport sempre più estremo e specialistico.
Nous étions jeunes et insouciants, un libro scritto per davvero da lui, rende benissimo l’idea della sua originalità: l’uscita precedette di qualche mese l’annuncio della malattia.
«Sono malato, ho un tumore all’apparato digerente...
Ho fatto una bella vita, combatterò sino alla fine.»
La stessa dignità che mostrò rifiutandosi di esibire l’intimità della sua famiglia agli obiettivi dei fotografi.
Negò a chiunque anche la visione della lettera scritta personalmente dal presidente François Mitterrand, il giorno della conclusione atroce del Tour 1989.
Quel messaggio lo conservò più gelosamente di una maglia gialla qualsiasi: fedele alla regola che i sentimenti veri non si possono mettere in vendita.


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