Lo sguardo di Salgado, il fotografo dei dimenticati
L’occhio che amava la natura
«La fotografia è la mia vita»
Brasiliano, 81 anni, attivo nella difesa degli ecosistemi, è morto a Parigi per le conseguenze di una malaria del 2010
24 May 2025 - Corriere della Sera
Di Stefano Bucci e Gianluigi Colin
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«La fotografia è il mio stile di vita, è il mio linguaggio». Così si raccontava Sebastião Salgado, scomparso ieri. Aveva 81 anni. Nei suoi scatti i dimenticati. Il fotografo-umanista (uno dei più grandi in assoluto, del XX e del XXI secolo, infinite volte candidato al World Press Photo, di fatto l’Oscar della fotografia) avrebbe dovuto essere in realtà un economista, un esperto di statistica. Così almeno avrebbe voluto la sua famiglia (madre casalinga, padre prima trasportatore di caffè, poi panettiere, poi proprietario terriero). Ma Sebastião (il nome era lo stesso del padre) Salgado, scomparso ieri a 81 anni a Parigi (era nato l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais in Brasile) aveva scelto quasi da subito di essere qualcos’altro: un reporter delle realtà più scottanti, delle vite più dimenticate, della natura più vilipesa. Il tutto in un bianco e nero che andava dritto al cuore dell’osservatore.
Attraverso l’obbiettivo della sua macchina fotografica, Sebastião ha lottato instancabilmente e per tutta la vita per un mondo più giusto, umano ed ecologico. A costo in qualche modo della propria vita: come fotografo che viaggiava costantemente per il mondo, nel 2010 in Indonesia aveva contratto (mentre lavorava al progetto Genesis) una forma acuta di malaria, le conseguenze della quale, quindici anni più tardi, lo hanno portato alla morte. Un impegno ricordato da presidente del «suo» Brasile Luiz Inácio Lula da Silva che si è detto «profondamente addolorato per la scomparsa» e che con un post su «X» ha ricordato come «il suo dissenso nei confronti di un mondo così disuguale e il suo ostinato talento nel ritrarre la realtà degli oppressi sono sempre stati un monito per la coscienza dell’umanità intera».
Oltre l’immagine, ma solo con i suoi occhi e la sua macchina fotografica, Salgado sembrava ogni volta voler lanciare un appello alla solidarietà, alla consapevolezza, al rispetto degli ultimi, all’accettazione delle differenze (di tutte le differenze). Un invito costante a cercare l’essenza, e magari anche una possibile soluzione. Salgado aveva concretizzato questa ricerca realizzando numerosi progetti fotografici diventati mostre che hanno attraversato tutto il mondo (ogni volta con il medesimo successo) e che spesso sono stati pubblicati su riviste internazionali e raccolti in libri come Other Americas (1986), Sahel: l’homme en détresse (1986), Sahel: el fin del camino (1988), La Mano dell’uomo (1993), Terra (1997), In cammino e Ritratti (2000), e Africa (2007).
Tutto era cominciato nel 1978 a Parigi (dove poi aveva scelto di vivere), quando Salgado aveva (appunto) abbandonato gli studi di economia e statistica per la fotografia durante un viaggio in Africa che avrebbe cambiato per sempre la sua vita, collaborando poi con le agenzie Sygma, Gamma e Magnum Photos (nel 1994, insieme alla moglie Lélia Wanick Salgado, avrebbe fondato Amazonas Images, un’agenzia dedicata esclusivamente al suo lavoro). Una carriera contrassegnata da un successo costante, continuo, che si rinnovava in continuazione come (purtroppo) si rinnovavano in continuazione disuguaglianze, prevaricazioni, povertà.
Da allora Salgado ha raccontato con rara potenza visiva la condizione umana in oltre 120 Paesi, spostandosi tra i lavoratori delle miniere, i migranti, i sopravvissuti ai conflitti e i popoli indigeni. Per questo Salgado ha ricevuto prestigiosi premi fotografici per le sue realizzazioni e ha ottenuto riconoscimenti significativi, come la nomina a Goodwill Ambassador dell’unicef e l’onorificenza di membro dell’accademia di Arti e Scienze degli Stati Uniti.
Sempre con la moglie Lélia, Salgado ha collaborato fin dai primi anni Novanta al recupero della fascia atlantica forestale del Brasile. Nel 1998, grazie a questo lavoro, hanno trasformato quella zona in una riserva naturale e hanno fondato l’instituto Terra, un’organizzazione dedita alla riforestazione, alla conservazione e all’educazione ambientale. «Alcuni mi considerano un fotogiornalista», aveva scritto. «Non è vero. Altri, invece, un militante. Nemmeno questo è vero. La sola cosa vera è che la fotografia è la mia vita. Tutte le mie foto corrispondono a momenti che ho vissuto intensamente». E a universi ogni volta diversi, ogni volta scomodi, dimenticati (con le loro umanità) nelle foreste tropicali del Congo, dell’indonesia, della Nuova Guinea, nei ghiacciai dell’antartide, nelle montagne della Siberia, nei deserti dell’america e dell’africa, tra i pinguini e i leoni marini, tra i Pigmei, i Boscimani e varietà incontaminate di popolazioni indigene come gli Yanomami e i Cayapó dell’amazzonia brasiliana.
Sarà proprio Salgado nel 1986 a testimoniare i soprusi e le violenze perpetrate dai militari ai danni dei lavoratori nella grande miniera aurifera di Serra Pelada in Brasile. Sarà ancora nel 1991 a raccontare con un bianco e nero sconvolgente gli incendi dei pozzi petroliferi che hanno devastato il Kuwait. Dopo aver dedicato la sua carriera a raccontare profondi cambiamenti sociali, ambientali ed economici, dando (dall’Africa all'America Latina) agli ultimi del pianeta, Salgado aveva recentemente concentrato centinaia di scatti sugli ecosistemi più suggestivi e a rischio: le nevi perenni.
Da qui, nelle sedi di Rovereto e di Trento del Mart, era nata Ghiacciai, una mostra diffusa con molte immagini inedite, che approfondisce la poetica di Salgado e il tema urgente del cambiamento climatico. La mostra (curata da Lélia Wanick Salgado, progetto espositivo prodotto di Contrasto e Studio Salgado, coordinamento di Gabriele Lorenzoni e Luca Scoz) propone fino al 21 settembre oltre 50 grandi foto di ghiacciai globali, mentre il Muse di Trento, nello Spazio del «Grande Vuoto» progettato dall’architetto Renzo Piano, presenta un’installazione site-specific. Le immagini, tutte scattate nel Parco Kluane in Canada, formano un unico grande nucleo, rappresentando un appello visivo all’attenzione verso questa emergenza planetaria. Ennesima testimonianza della grandezza del più grande dei fotografi umanisti.
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