Cosa è successo al Celio - La verità sul caso Skappler


STEFANO BENNI
Il Manifesto
Mercoledì 10 Settembre 2025
Pagina 16

Come carabiniere di guardia al Celio, posso raccontare tutta la verità. Il colonnello Skappler si trovava rigidamente e implacabilmente vigilato nella sua stanza di ospedale. Nessuno poteva venirlo a trovare, ad eccezione della moglie, di suo padre e di suo nonno, due tedesconi baffuti che si facevano chiamare Sigfrido e Odino Skappler. Solo ogni tanto tale Delle Chiaie, elettricista, veniva a controllargli la lampada sul comodino perché al colonnello piace la luce soffusa.

Inoltre potevano entrare, naturalmente, le suore. Un giorno, nella stanza, ne contammo 124. Alcune di esse avevano barba e baffi. Informammo della cosa il ministro Lattanzio che disse di non interessarci, poiché il fatto era di competenza del Vaticano. La consegna era «vigilanza speciale armata». Armati di mitra, dovevamo stare all’entrata della camera di Skappler e sparare a vista su chiunque cercasse di avvicinarsi, a meno che non avesse il camice bianco da medico. Un giorno nella stanza contai centoventinove medici. Ci dissero che c’era un consulto.

Dalla vigilanza speciale armata si passò alla vigilanza semplice armata. Dovevamo, ogni ora, sparare un colpo per aria, urlare «alto là chi va là», aprire di colpo la porta e urlare a Skappler «bada che ti vedo!», per terrorizzarlo. Inoltre ogni ora dovevamo aprire la valigia di Annelise Skappler e fucilare tutte le camicie coi capelli lunghi e tutti i calzini che non rispondessero all’altolà. Un giorno, nella valigia, trovai due persone in divisa dell’esercito del Reich. Riferii la cosa a Lattanzio che mi disse di non interessarmi poiché la cosa era di competenza del governo tedesco.

Dalla vigilanza semplice armata passammo alla vigilanza «alla bolognese». Allontanavamo bonariamente i visitatori dicendo «Questo è il reparto lungodegenti più libero del mondo» e sparavamo nelle mandibole a chi non si fermava subito. Inoltre, ogni tanto, dovevamo guardare attraverso la porta se Skappler c’era ancora. Purtroppo la porta era senza spioncino, e quindi dovevamo limitarci a chiedere «colonnello, è ancora nel letto?». Al che lui rispondeva «ja»; oppure «colonnello non starà saltando dalla finestra?» e lui rispondeva «nein». Un giorno aprimmo la porta e lo vedemmo mentre con due grandi ali di carta e un’elica legata alla schiena stava in piedi sul davanzale. La moglie Annelise disse che il colonnello, nostalgico della sua giovinezza in aviazione, si era voluto vestire da Stuka. Informai della cosa il ministro Lattanzio che disse di non interessarmi poiché il fatto era di competenza dell’aeronautica. Chiedemmo allora uno spioncino. Ci venne assegnato un capitano del Sid alto un metro e quarantasette che fece domande personali a tutti e se ne andò dicendo che Skappler non sarebbe mai potuto scappare via aria perché pesava quarantotto chili e non poteva cabrare.

Il giorno dopo l’elettricista Delle Chiaie venne con alcuni amici geometri a prendere le misure per un nuovo lampadario. Disegnò la piantina dell’ospedale e mi chiese «su che lato dorme lei la notte?». Insospettito, lo riferii al ministro Lattanzio che mi disse di rispondere «non dormo mai». Due giorni dopo la vigilanza venne trasformata in vigilanza semplice. Io e il carabiniere Pavone stavamo fuori dalla camera e ogni due ore urlavamo «colonnello Skappler!» e lui rispondeva «presente». Però ogni tanto Annelise poteva rispondere lei «dorme» oppure «è in bagno». La vigilanza semplice, sempre per ordini superiori, venne trasformata in vigilanza, poi in gilanza, poi in anza. Anzà si sparò, (secondo la commissione d’inchiesta, sconvolto dalla morte di Elvis Presley) e non restò neanche quella. Noi giocavamo tutto il giorno a carte e Annelise entrava e usciva portando valigie a rotelle, carriole e una volta anche una Volkswagen. A cosa le serve? Chiedemmo. «Mio marito vuole fumare» rispose «e uso l’accendino del cruscotto».

Il 15 agosto notte io entrai nella stanza e non vidi né Skappler né la moglie. C’era però un piatto di semolino con sul bordo due paia di scarpette di gomma e un biglietto «stiamo facendo il bagno». Informai della cosa il ministro Lattanzio che mi ordinò «aspetti che riemergano». Intanto il carabiniere Pavone mi disse che Annelise Skappler era uscita poco prima con una custodia di contrabbasso.

Con lei c’erano sei uomini in costume tirolese che reggevano una cabina di funivia.

Alle nove e trenta, spazientito, cominciai a frugare nel semolino con la baionetta, ma non trovai traccia degli Skappler. Arrivò una suora dicendo che secondo lei Skappler era skappato. Riferii la cosa al Ministro Lattanzio che disse di non perdere la testa e di cercare bene nei comodini e sotto al letto.

Trovammo solo un orsacchiotto con la scritta «Kappler» sulla schiena. «Può andare?» telefonai al ministro. «Ha la barba?» chiese lui. «No» dissi; allora non è lui, cercate ancora». Cercammo a lungo. Cinque ore dopo un maggiore del Sid entrò nella camera, prese gli occhiali neri di Skappler, disse «scusate, il colonnello è un po’ sbadato», richiuse la porta e sparì. Contemporaneamente giunsero due notizie.

Una che il colonnello era stato visto su una macchina viola e gialla con la scritta «evviva il Terzo Reich» che era posteggiata da un mese sotto l’ospedale. L’altra che il colonnello aveva telefonato all’ospedale da Soltau dicendo che stava a mangiare fuori. A questo punto il ministro Lattanzio paventò l’ipotesi della fuga. Quattro pezzi grossi dei carabinieri vennero trasferiti.

Al colonnello viene tributata accoglienza trionfale e le SS fanno la guardia davanti alla porta. Il nazismo non è morto, si dice. Beati noi che abbiamo Rauti, Delle Chiaie e altri bonaccioni. Servizi segreti? Io non li ho visti. Secondo me dietro a tutto c’è la Gondrand.

***

«Quello che non voglio»

Io non voglio morir cantante 
Se al buon sonno del padrone 
Servirà la mia canzone 
A gola storta voglio cantare 
Ringhio di porco e romanze nere 
Voglio svegliarvi col fiato ansante 
Io non voglio morir cantante 
Io non voglio morire poeta 
Di ogni passione sceglier la dieta 
Gioie, amorini e dolori piccini 
Da imbalsamare dentro il rimario 
Della giuria al valor letterario 
Coda di sangue ha la mia cometa 
Io non voglio morir poeta 
Io non voglio morir artista 
Accucciato come un vecchio cane 
Sotto il trono del re di danari 
Tra leccaculi e cortigiane 
Che alle mie rughe voglion rubare 
Fiori di gelo, dolore e fame 
Li accecchi il fuoco della mia vista 
Io non voglio morire artista 
Io non voglio morire attore 
Dentro allo schermo di un paradiso 
Crocefisso a un finto sorriso 
Di morti in ghingheri e ribelli servili 
Re dello schermo, generale dei vili 
Ti sto davanti e voi belle signore 
Guardate la scena dove gli mangio il cuore/ 

Perché non voglio morire attore 
E io non voglio morire libero 
Se i begli alberi del mio giardino 
Annaffia il sangue del mio vicino 
Meglio la peste che l’ipocrita danza 
Di vostra santa beneficenza 
Chiudete la cella lasciatemi stare 
Di libertà vostra non voglio morire 
Io non voglio far altro che vivere 
Tra una corda e l’altra saltando 
Dentro la cassa di una viola da gamba 
Voglio ascoltare le voci di fuori 
Ringhio di porco voce di dama 
Tamburo indio amore che chiama 
E voci spezzate di cento popoli 
Che dalla mia terra non voglio scacciare/ 

Io voglio vivere, non ho altro da fare 
Io non voglio che mi ricordiate 
Nel trionfo, ma nella mia sera 
Nelle cose che dissi tremando 
In ciò che suonai con paura 
Povere genti che ai menestrelli credete 
Dimenticarvi di me non potrete 
E io di voi scordarmi non posso 
Dentro un tramonto feroce e rosso 
Dentro un cielo di sangue e vino 
Ascoltate come sembra il primo 
L’ultimo accordo che io imparai 
Io non voglio, non voglio morire 
E a morire non riuscirò mai.

(una poesia di Stefano Benni musicata da Fausto Mesolella nell'album «CantoStefano», pubblicato nel 2015).

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