Quei mondi letterari capovolti
Addio allo scrittore, poeta e polemista bolognese, autore del memorabile "Bar Sport", morto all'età di 78 anni
GIACOMO GIOSSI
Il Manifesto
Mercoledì 10 settembre 2025
Pagina 16
Di tutte le ricchezze, uscito nel 2013, è il quintultimo romanzo scritto e pubblicato da Stefano Benni. Un testo segnato da non poco disincanto e da un senso di distacco verso l’attualità e le sue miserie politiche che si palesa nella figura dell’intellettuale settantenne - Martin B. - votato all’eremitaggio in una vecchia casa di campagna. Come sempre accade secondo canovaccio, tutti i propositi d’isolamento e di studio messi in campo dal Professore finiranno per aria a causa di un’appassionata e trascinante storia d’amore. La vita di Martin B. verrà così sconvolta portandolo oltre il limite del ridicolo, tra situazioni comiche, goffe e caratterizzate da cadute melodrammatiche degne di un adolescente afflitto da irriducibile dabbenaggine. Sotto la coltre dell’ineffabile e raffinato intellettuale prende così forma un uomo ridicolo immerso nella sua tragedia. Martin B. è forse il personaggio che meglio rappresenta una generazione nata tra gli anni Quaranta e Cinquanta capace di dare corpo a multipli e radicali sogni giovanili e poi imbrigliatasi tra le comodità più o meno istituzionali di una vita più o meno garantita.
TUTTAVIA L’ASPETTO che definisce l’originalità di quel romanzo e in generale di tutta l’opera di Stefano Benni non sta nella volontà di colpire una debolezza o di denunciare un’incapacità, ma nel mostrare (dolcemente) come sotto la coltre del professore borghese, proprio grazie al ridicolo e al comico - pur nella loro sostanziale differenza - si riveli il cuore di un ragazzo ancora capace di sognare e giocare. Un’alta considerazione delle parole e della letteratura che per Stefano Benni aveva prima di tutto una funzione di tutela e responsabilità.
Nato a Bologna nel 1947 Benni collabora da giovanissimo con giornali e riviste, ma quello che fin da subito insegue è una letteratura capace di lasciare una traccia viva nella società e al tempo stesso libera da ogni forma di austerità e severità. Nel 1976 Benni esordisce con i racconti di Bar Sport, nello stesso anno Gianni Celati pubblica La banda dei sospiri e Giuliano Scabia insieme con Vittorio Basaglia e a Franco Rotelli dà corpo a Marco Cavallo, figlio della rivoluzione psichiatrica di Franco Basaglia e de Il Gorilla Quadrumàno che lo stesso Scabia ha portato due anni prima per le strade di Bologna. La letteratura esce dai libri ed entra in una nuova realtà immaginata. Un sogno pulsante che vive della forza di una letteratura che finalmente sembra colpire al cuore. Stefano Benni diviene artefice di nuove possibili realtà, l’utopia è ora a portata di mano. Mischiare le carte è obbligatorio, una necessità utile a risvegliare una cultura che ancora vive all’interno della logica delle due chiese.
BENNI SI OCCUPA DI TEATRO, collabora con attori e comici, porta agli esordi un dissacrante Beppe Grillo, lavora con Fabrizio De André, scrive per riviste satiriche: su tutte «Cuore» e «Tango», ma collabora anche alle pagine dei due più importanti e diffusi settimanali di quegli anni: «Panorama» e «L’Espresso». Il suo è un movimento pienamente jazzistico (con il jazzista Umberto Petrin è autore di Misterioso. Viaggio nel silenzio di Thelonious Monk) che gli permette di giocare su più piani, non si tratta di movimenti solipsistici, ma di un gusto che contiene passione e vitalità. Un impegno politico che non può mai essere slegato da una forma di gioco. Stephen Lupus è il suo alter ego che compare in Stranalandia, il suo secondo romanzo del 1984 illustrato da Pirro Cuniberti (allievo di Giorgio Morandi). Quello di Benni è un mondo immaginario e fantasioso di volta in volta perfettamente regolato e organizzato.
Tutta la sua l’opera non a caso - fatta da diciassette romanzi, una decina di raccolte di racconti, tre raccolte di poesie e ballate e tutte le drammaturgie - assume così la forma di una grande enciclopedia figlia dello sguardo illuminato e illuminista di un grande encyclopédiste bolognese. Infine impossibile non citare ovviamente la Luisona sintomo e simbolo di tutto quanto è desiderabile e del suo stesso tradimento, un po’ felliniana e un po’ beckettiana, resta bellissima eppure inaffidabile a denunciare una volontà e la sua stessa mancanza, ovvero un’affettuosa e sempre perenne possibilità di un futuro migliore.
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LA LUNGA RELAZIONE CON «IL MANIFESTO»
Il nostro «furioso» e la parodia dello stato delle cose presenti
TOMMASO DI FRANCESCO
Il Manifesto
Mercoledì 10 Settembre 2025
Pagina 17
Stefano Benni se n’è andato. Da tempo stava molto male, senza più memoria ci dicono.
La condizione, forse, peggiore.
Dunque lontano dai suoi ricordi e dai nostri del manifesto. Che pure lo avevamo visto nascere come giornalista polemista, satirico sfrenato e scrittore proprio dentro la redazione. Dentro non era proprio la sua collocazione. Si può dire che la sua era una intensa collaborazione transeunte, ma è poco.
Veniva al giornale con il suo volto gentile, svagato e sorridente, portava il suo contributo, parlava con Pintor, con Rossanda, con Rina Gagliardi e Valentino Parlato, un po’ con le sezioni Cultura e Visioni, ma soprattutto con il suo più caro amico, Maurizio Matteuzzi, lo storico capo degli esteri, un legame diventato sodalizio nato a Bologna e che durava da sempre. La sua con il manifesto quotidiano comunista era una specie di identificazione a pelle; la nostra rabbia era la sua, le nostre denunce lo vedevano protagonista, il nostro alzare la voce, anche se isolati contro il potere, era la sua voce, il suo respiro.
Militante e complice al punto di inventare per noi lo slogan della prima pubblicità, faticosamente trovata come quella attuale, mai comparsa sulle nostre pagine: «Tonno Rio Mare, tonno extraparlamentare». E la nostra scrittura troppo spesso seria e greve per i contenuti affrontati e a noi connaturati, diventava con lui divertita e allegra pure se affrontava gli stessi temi pesanti delle nostre analisi sulla sinistra o sulla guerra. Era un doppio tono, un valore aggiunto, che sulle pagine apriva alla lettura del presente e dava possibilità al futuro.
GIROVAGAVA IN REDAZIONE cercando consenso e ascolto, poi estraeva il foglietto battuto a macchina del suo ultimo corsivo satirico. Nessuno glielo aveva chiesto, magari c’era stato un silenzioso ammiccamento, ma la committenza spregiudicata era sempre nell’aria dell’ufficio del caporedattore al quinto piano di Via Tomacelli. Quello che convinceva di lui era la capacità di mettere in discussione, con il nostro, tutti i linguaggi ufficiali, soprattutto quelli del giornalismo corrente, in ombra rispetto alla ricerca della verità, vale a dire la retorica della didascalia del potere costituito che reitera una forma ripetitiva e sdata senza accorgersene, nell’intercalare vuoto «... certo è vero che, ma anche... tuttavia ...», che lui distorceva fino all’assurdo. Per farlo si appropriava delle parole e della scrittura altrui, parodiandola e dileggiandola con furia. Anche contro la normalità «compagna»: «Tutti nudi/ ad Alicudi/ a mangiare/ pesci crudi».
Per noi era il «Benni furioso» - titolo del suo primo libro pubblicato nel 1978 per il manifesto dalla casa editrice a noi collegata di Franco Alfano -, un furioso che non aveva tregua. Anche nella capacità di intervenire sulla cronaca politica degli anni Settanta. Come quando fuggì, meglio, venne fatto fuggire con la connivenza del governo, il criminale di guerra nazista Kappler dalle galere italiane e diventò subito «il colonnello Skappler» che «si trovava rigidamente e implacabilmente vigilato nella sua stanza di ospedale. Nessuno poteva venirlo a trovare...». Fino all’avvento di Gorbaciov nell’allora Unione Sovietica con la sua macchia rossa sulla fronte che per Benni altro non era che «una voglia di Coca Cola». Era l’implosione del socialismo realizzato.
C’ERA DI PIÙ che non «una risata vi seppellirà» nei suoi testi. C’era e c’è una ricerca colta e critica della funzione omologante dei miti, del racconto di quelli antichi collegati a quelli contemporanei e metropolitani.
Così fu una vera sorpresa per me scoprire della sua passione per Tristan Corbière, il più grande e il più sconosciuto dei poeti maledetti, il più sprezzante della stessa poesia, che ricordavamo insieme in alcuni suoi versi contro la letteratura dominante: «Poeta a dispetto dei suoi versi/ artista senza arte – a rovescio/ filosofo per dritto e per traverso/.../ attore non sapeva la sua parte/.../ I suoi versi falsi furono i soli veri». Perché nella sua scrittura, oltre alla ricerca della parola c’era una sottesa disperazione. Abbiamo seguito Stefano fino a un certo punto, fino alla fantasia solo in parte surreale di leggere, in controluce, nei racconti indimenticabili de Il bar di sotto il mare e di Bar Sport la trama delle vite della nostra redazione.
POI LE SUE VISITE come i suoi contributi sul manifesto si sono diradati - ricordo un suo intervento nel 2002 di sostegno ai No-Tav e infine persi. Ma lui ha continuato a occhi aperti, disincantato, la ricerca di una utopia-distopia che potesse avvertire con la forza dell’immaginario il baratro dentro il quale stavamo entrando. Ora quel volto da bambino impunito, quella maschera divertita dal naso puntuto, aguzzo che cerca complicità ha chiuso gli occhi. Lui che dichiarava concludendo una sua ballata: «...E a morire non riuscirò mai». Addio Stefano.
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IL RAPPORTO CON IL CINEMA
Creatività surreale non ingabbiabile nelle inquadrature
ANTONELLO CATACCHIO
Il Manifesto
Mercoledì 10 settembre 2025
Pagina 17
«Nella vita ci si sveglia sempre, meno una volta». Questa è la frase detta da Felice Andreasi in Musica per vecchi animali, il film diretto nel 1989 da Stefano Benni (a quattro mani con Umberto Angelucci). Si tratta dell’unica regia di Stefano.
Del resto il suo rapporto con il cinema è sempre stato piuttosto complicato e contraddittorio. Lo conferma proprio questo film, ispirato al libro Comici spaventati guerrieri e che pure vanta tra gli interpreti principali Dario Fo e Paolo Rossi, a fianco di Eros Pagni e del suddetto Andreasi. Ma il risultato economico alla fine fu piuttosto deludente. Forse si sarebbe dovuto puntare sul risultato enocomico per ottenere un riscontro più adeguato.
NON AVEVA OTTENUTO miglior fortuna un altro film tratto da una sceneggiatura di Benni, Topo Galileo diretto da Francesco Laudadio nel 1988. Anche in questo caso un cast di tutto rispetto con Beppe Grillo, Jerry Hall (all’epoca Benni collaborava ai testi di Grillo e Hall era la compagna di Mick Jagger), con l’aggiunta di Claudio Bisio, Athina Cenci, Dagmar Lassander e di nuovo Eros Pagni. E se non bastasse ci sono le musiche curate da Fabrizio De André e Mauro Pagani. Sulla carta una bomba, nella realtà meno che un petardo. Altro botteghino da dimenticare. La chiave probabilmente sta tutta nell’impossibilità di rappresentare la vulcanica creatività di Benni così grottesca, surreale, fantastica, ironica e spiritosa da non poter essere ingabbiata in un susseguirsi di inquadrature con quei deliri linguistici e di senso che sulla carta stampata sono irresistibili mentre sullo schermo sembrano non funzionare più. Anche se poi qualcosa, qua e là, rimane. Come dimenticare la battuta «niente rende l’idea del tempo che è passato come il crescere del prezzo del gelato». O ancora «la giraffa ha il cuore lontano dai pensieri, si è innamorata ieri e ancora non lo sa» interpretata da Lucia Poli nel documentario La storia quasi vera di Stefano Benni - Le avventure del lupo che Enza Negroni gli ha dedicato nel 2018 coinvolgendo nel progetto Daniel Pennac, Alessandro Baricco, Angela Finocchiaro e altri amici, tre cui una sagoma di Belushi, John, quello originale, a grandezza naturale.
PER TROVARE UN RISCONTRO meno negativo con il cinema bisogna arrivare a Bar Sport che Massimo Martelli ha diretto nel 2011. Erano passati 35 anni da quando quell’esordio letterario di Benni era stato pubblicato trasformandosi in un terremoto editoriale e un successo clamoroso quanto inaspettato. Forse proprio perché lasciato sedimentare, forse anche perché si tratta di qualcosa di molto più vicino al sentire comune, seppure opportunamente stravolto e svaccato con raffinato piglio, questa volta, pur senza raggiungere vette da capogiro, il film ebbe un discreto riscontro di pubblico, sfiorando i tre milioni di euro di incasso. Complici nell’operazione Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Antonio Catania, Antonio Cornacchione, Teo Teocoli, Claudio Amendola e le due «vecchiette» Angela Finocchiaro e Lunetta Savino. Il tutto nella provincia bolognese con la partecipazione di altri attori della zona pronti a interagire con la mitica pasta Luisona racchiusa da sempre nella vetrinetta, divenuta ormai a sua volta personaggio del bar con tanto di nome proprio. Tutto questo funzionicchia anche al cinema. Così come la grottesca trasferta calcistica o l’insegna perennemente svirgola che il «tennico» non riesce a sistemare come dovrebbe o il soprannome Onassis dato al barista molto attento al denaro.
Purtroppo invece la critica si tenne a distanza dal progetto, anzi qualcuno avrebbe proprio voluto che quelle mitiche vicende raccontate dal libro negli e sugli anni ’70, non approdassero mai su grande schermo. Sicuramente quell’avventura non rimarrà nella storia del cinema, e forse neppure lo merita. Ma almeno nella cronaca cinematografica dovrebbe trovare spazio, così come tutti gli altri contributi (corti compresi) che Stefano Benni ha fornito alla settima arte, anche quelli meno riusciti, perché così sarebbe giusto.
COME SAREBBE GIUSTO poter ritrovare quei materiali. In rete dove si trova veramente di tutto, il cinema di Benni è completamente svaporato, unica eccezione una versione scaricata da Telepiù3 e rintracciabile in YouTube di Musica per vecchi animali. Ma si tratta di una copia talmente devastata e rovinata da consentire solo il recupero di qualche battuta. Tra cui quella di Andreasi sul sonno e il risveglio che apre questo ricordo di Stefano Benni e il cinema.

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