Stefano Benni - La leggerezza come resistenza
Scompare a 78 anni l’autore di “Bar Sport”. Ha segnato un’epoca della nostra letteratura Esprimeva purezza e senso di uguaglianza, un esempio per una generazione di autori
«Dio? È meglio se non esiste:
ci fa una figura migliore»
(Stefano Benni)
LUCA BOTTURA
La Stampa
Mercoledì 10 Settembre 2025
Pagina 25
Con Stefano Benni se ne va… no, aspetta, non avrebbe mai tollerato un attacco del genere. Prendiamola di lato, dal margine della sua produzione, da un dettaglio che spiega bene, spero, cosa fosse e chi fosse: Novecento, di Alessandro Baricco.
Dice: cosa c'entra? C'entra.
Non ho idea del come, ma pochi anni fa qualcuno ebbe l'idea di chiedere a Stefano di interpretarlo, di prestare la sua voce per farne un audiolibro. Uscì nel 2011, ripubblicato nel 2017.
Poco dopo, Benni sarebbe stato aggredito dalla malattia che l'ha prima sfuocato e poi portato via. Quell'interpretazione è, dunque, una specie di testamento: un grande scrittore che si mette al servizio del capolavoro di un altro. E, nel farlo, costruisce una specie di storia alternativa. Senza cambiare una virgola. Il pianista sull'Oceano, mai sceso dal transatlantico che fa la spola dalle Britannie agli USA, diventa una specie di "cinno", di ragazzino che sarebbe stato bene in uno dei "Bar Sport" che ieri ci divertirono, oggi ci divertono. Se Tornatore, nel film che ne trasse, aveva pigiato i pedali dell'emotività, "à la Tornatore", appunto, il Novecento di Benni è ironia, autoironia, sincope. Ricorda un altro pianista, Fred Buscaglione. Tanta roba, come dicono ormai in troppi e a casaccio. Ma soprattutto tanta roba, tutta insieme. Tutta mirabile.
Spesso, in morte di un grande, si parla di quanto e come sia stato sottovalutato. O, quantomeno, celebrato meno del dovuto. Raramente è vero. In questo caso, sì. Soprattutto perché, come notava ieri il sociologo Ivo Germano, Benni è stato un autore fuori dal circolo dei benlettori. È arrivato anche a chi, spesso senza responsabilità, non ha dimestichezza con l'oggetto libro.
Senza mai perdere la tenerezza, l'avvenenza comica, lo spessore, la musicalità del linguaggio. La leggerezza come resistenza.
Prendiamo le sue poesie metropolitane, sorta di contraltare leggero e profondo al '77, ai carrarmati per le strade di Bologna, a Kossigaboiatuttoattaccato. Prendiamo Prima o poi l'amore arriva, e la sua speranza stralunata. O Io ti amo, meraviglia amorosa dalla punchline liberatoria. Il demenziale, Freak Antoni, gli Skiantos, in una comoda confezione senza eroina. Alla cui sintesi si sarebbero, ci saremmo, abbeverati in tantissimi.
Prendiamo Bar Sport, il libro della consacrazione, i bozzetti cittadini di una provincia gioiosa e crudele, il Bologna che «perde sei a zero dopo essere stato lungamente in vantaggio», la Luisona decana delle paste - le brioche - in bacheca, finché un rappresentante di passaggio prova a deglutirla e quasi ci resta secco. Gino e Michele, Michele Serra, la via italiana agli stand-up comedian che non indulgono al cazzoculofigatette, quindi pochi, gli devono assai. Anche senza saperlo. Di quel periodo storico, l'unico coevo che gli si può avvicinare è forse Paolo Villaggio. Anche lui imbottì i Buzzati, persino i Calvino, di satira e autosatira. Anche lui discese dai Sette Piani per coglierne frammenti di osservazione ironica. Anche lui seppe prendere noi, anziché un "potere forte" a caso, a mo' di bersaglio.
Ma mentre Fantozzi divenne la prigione dorata del suo creatore, Benni preferì battere altri sentieri. Meno frequentati, meno danarosi. Lasciò il bancone del bar al suo destino, per tornarci brevemente a fine '90. Ma in quel decennio preferì scrivere un'altra epopea, quella che passa dalla Compagnia dei celestini a Elianto, al Bar sotto al mare bellamente eternato dai Broncoviz a teatro.
Fantascienza delle emozioni, e anche delle debolezze, teppismo buonista, ricamo tra il bene e il male «basta che ci sia posto» (cit.). Soprattutto, il bisogno di scrivere per scrivere. Di raccontare, creare. Dire. Fare politica attraverso il paradosso.
Di spargere, tra una risata e l'altra, tra uno stupore e l'altro, due valori di uguaglianza, di protezione dei deboli, di leggerezza come mezzo satirico. Esprimendo, sempre e comunque, quasi senza cercarla, una sorta di purezza. Un po' come lo sguardo di Margherita Dolcevita, il suo romanzo in cui il tramite è una ragazzina alle prese con l'immaturità dei grandi.
Non credete a chi dice che Benni fosse meglio nei racconti. Erano gemme, certo.
Ma i romanzi rappresentavano una specie di chiamata alle armi neuronale: «Seguimi, ti porto altrove». Un altrove complesso, fatto di Comici spaventati guerrieri, protagonisti di un'epica della perdenza. Che, come diceva un altro romanziere di successo, Ernesto Guevara, alla fine non è sconfitta mai. Basta combattere. Persino sapendo come andrà a finire.
Un altro luogo comune sui senatori, anche loro malgrado, che trapassano, riguarda la generosità. Benni è stato generosissimo, sempre. Con Beppe Grillo, cui donò alcune delle prime gag più memorabili - come il teorema su Pietro Longo, segretario PSDI, che come risultato dava "P2" - e la sceneggiatura di Topo Galileo. Con Cuore, il settimanale satirico che anticipò Tangentopoli e ne fu travolto per eccesso di realtà. Da garzone di quella bottega, mi capitava di incontrarlo quando passava per una chiacchiera, una birra, un suggerimento. In amicizia. Amava mettere nei romanzi, nei racconti, anche in quelli amaramente profetici de L'ultima lacrima, nomi di amici e conoscenti. Capitò persino a me.
L'ultima volta che l'ho visto, eravamo agli albori della pandemia. Roberto Morgantini, un sognatore bolognese che ha aperto mense per i poveri a raffica, si chiamano "Cucine popolari", aveva organizzato una cena di solidarietà per la comunità cinese ché noi, italiani brava gente, pensavamo fosse sufficiente schifare i "musi gialli" per difenderci dalla pandemia. La luce già si affievoliva. Mesi prima, a Milano, in Feltrinelli, per colpa di una riunione imminente, mi era toccato di declinare un veloce caffè insieme. Me lo perdono a fatica. Perché non mi è più riuscito di dirgli la parola che pronuncio ora, tardivamente: grazie.
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Il ricordo
Ora insegna agli angeli a lasciar stare la Luisona
ALBERTO INFELISE
La Stampa
Mercoledì 10 Settembre 2025
Pagina 25
Se c'è una cosa che gli angeli non sanno è come si sta a modino dentro a un bar. Perché il bar ha le sue regole e ogni bar ne ha di sue specifiche, tramandate in generazioni e generazioni di genti che non hanno poi molto da fare ma lo fanno un gran bene e non è che uno arriva e attacca da sbruffone «un caffè subito: dove è il bagno?». Oppure uno arriva così, con tutto quel portento, e gonfio della sua arroganza si avvicina alla Luisona che sta lì da quando si faceva ancora la schedina e il Bologna al Dall'Ara era uno fisso: e la addenta. Vinto quel primo momento di stupore per l'affronto a quella vecchia signora, tutti sanno benissimo quali dolori dovrà affrontare il malcapitato vanaglorioso, fino alla restituzione finale della sopraddetta Luisona alla bacheca cui appartiene fin dal 1959. Ieri, appena il Lupo è arrivato in Paradiso (perché è chiaro a tutti, vero, che è già lì in Paradiso che qualsiasi cosa sia è un posto dove il cuore è finalmente sazio), si è andato a sedere a quel tavolo là in fondo, dove si vede sempre chi entra e chi esce, dove si può guardare chi gioca a biliardo e chi sta al bancone, a sentirne le frasi, a sorridere a chi merita, a riflettere su quale sia l'ora più giusta per cominciare con gli amari, ad abbracciare i nuovi arrivati dopo averli strapazzato il giusto. E lui è già lì, a raccontare anche la vita dopo la vita e a rendere anche quella così bella da farla sembrare quasi accettabile. E soprattutto a insegnare agli angeli a lasciar stare la Luisona.
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Alessandro Baricco
“Abbiamo riso per amore della vita Era un dolcissimo compagno di viaggio”
Lo scrittore: “Quando lo leggevo, gli esseri umani mi facevano tenerezza”
SIMONETTA SCIANDIVASCI
La Stampa
Mercoledì 10 Settembre 2025
Pagina 25
Insieme, Stefano Benni e Alessandro Baricco si sono divertiti tantissimo. Hanno avuto lo stesso talento nel fare di tutto un racconto, e di ogni racconto uno spettacolo, di improvvisare con i classici, di spassarsela con i libri, di inventare un modo unico di recitare: da scrittori. Sono saliti sul palco insieme moltissime volte. Hanno fatto moltissime feste. Sono diventati compagni di viaggio, poi amici.
È iniziato tutto a Parma: Baricco ci era andato, in macchina da Torino, per vedere Benni, che era già Benni, leggere Gadda. Ne era stato travolto.
Dice alla Stampa: «Tornai a casa con la convinzione assoluta che leggere ad alta voce in pubblico poteva funzionare. Era da un po' che mi girava in testa l'idea di fare spettacolo leggendo e spiegando, e avevo delle specie di visioni cieche da cui poi è uscito Totem (lo spettacolo, andato in onda per la RAI dal 1998 al 1999, in cui Baricco raccontava pezzi di capolavori, o capolavori interi, e cercava di spiegare ai ragazzi perché erano così belli: ebbe un successo gigantesco, e lo avrebbe ancora, ndr)».
- Era un attore?
«Un po' aveva studiato recitazione, e quindi metteva insieme una discreta tecnica con l'intelligenza che ha uno scrittore quando legge un altro scrittore. Fu questa formula a conquistarmi. Abbiamo fatto molti spettacoli insieme, l'ho chiamato per fare l'Iliade, è stato indimenticabile quando ho fatto Moby Dick, cercavo sempre di andare a vederlo, e lui veniva spesso a vedere me. Negli anni Novanta quel tipo di performance non esisteva ed è stato lui ad aprire la strada. Credo di non aver mai visto uno più bravo di lui. Quando faceva Achab era indimenticabile. Io non amavo Lolita, ma poi lo sentii parlarne e me ne innamorai anche io: Lolita era il suo libro».
- Sa che a Benni un po' dispiaceva non aver fatto molta tv? Una volta ha detto: «Se mi fanno parlare per un'ora di Nabokov, ci vado».
«Una delle ragioni per cui lo sentivo vicino era il suo riserbo: era speciale, diverso dal mio, ma era riserbo. E non si attagliava alla tv, ma non solo alla tv. Per dire, lui non è mai andato al Premio Strega, e non che ci sia niente di male ad andarci, ma lui non ci andava, e neanche io. Abbiamo sempre preferito il teatro. Nella televisione c'è una misura che un anarchico come lui non avrebbe sopportato. Benni era di non facile gestione: era impossibile sapere cosa avrebbe fatto, non perché fosse indisciplinato, ma perché era un cavallo da corsa, sul palco inventava, era irrefrenabile, imprevedibile».
- Diceva che a farlo ridere erano Stanlio, Ollio e le cose inattese.
«Aveva una bellissima vocazione per l'umorismo, nella vita e nella scrittura, dove era un grande. Stare con lui era sempre una faccenda in cui si rideva, non c'era scampo. Una volta gli mandai un mio libro, mi chiamò, che era una cosa che faceva molto raramente, e mi disse: "Ho letto questo libro, è molto bello, ma lo hai scritto tu?"».
- Era felice?
«Come tutti quelli che fanno ridere, anche lui si appoggiava su un letto di tristezza. Io, almeno, l'ho sempre percepita: era una malinconia, una specie di disillusione, che però non ha mai colpito la sua voglia di vivere, che era grande. Ed è per questo che mi trovavo bene a fare spettacolo con lui: condividevamo una fame per la vita costante e inestinguibile. Stargli vicino mi dava sempre una carica di energia. Ma se dovessi elencare le persone felici che ho incontrato, ecco, tra loro non metterei Stefano Benni».
Sa che quando lavorava al Manifesto, Rossana Rossanda lo chiamava "il pazzo che ride delle cose serie"?
«Il libro di Benni a cui sono più affezionato è La compagnia dei Celestini. Ne scrissi anche su L'Indice, quando lo lessi, perché mi sembrò il libro di una svolta dalla letteratura umoristica, nella quale eccelleva e che però era finita per diventare una etichetta che lo metteva a disagio, e lo riduceva. Se penso a Benni scrittore, oltre alle pagine irresistibili di Bar Sport, penso a quel libro, e alla forza che aveva e che non trovavo altrove nella letteratura italiana di quel tempo, di raccontare con brillantezza, certo, ma intenerendosi per l'umano. Quando lo leggevi, gli esseri umani ti commuovevano. Mentre ridevi per le battute, di fondo sentivi la sua compassione per il mestiere di vivere, durissimo, il compito dal quale siamo presi tutti, e che alcuni fanno con allegria, perché alcuni di noi ce l'hanno, e lui l'ha scritta».
- Lo aiutava essere di Bologna?
«Io penso di sì. In Italia conta molto dove sei nato: si riflette sulla lingua, il modo, la postura, dà un accento molto importante a tutto quello che esprimi. Non so se in America sia così. Bologna è un posto ideale per imparare la simpatia per gli altri: lì hanno una certa vocazione a guardarsi, a sedersi e parlare, a essere morbidi e non lasciarsi travolgere da un ritmo indiavolato. Non voglio farne un mito, ma in quella città c'è una dolcezza rara da trovare altrove. Stefano era un uomo molto dolce».
- Esiste la distinzione tra uomo e scrittore?
«Nel suo caso c'era linearità tra le due cose. Però non è una legge che vale per tutti».
- E nel suo caso, Baricco?
«E chi lo sa, lo devono dire gli altri».
- Durante il governo Renzi, a Benni venne assegnato un premio: lo rifiutò per protestare contro i tagli alla cultura. Litigavate per Renzi?
«Sicuramente sì ma tanto in quel periodo litigavo su Renzi praticamente con tutti i miei amici. Me ne dicevano di tutti i colori. E lui sicuramente, ridendo, lo ha fatto: non ricordo niente di spiacevole. E tanto con lui era impossibile incazzarsi».
- Eravate proprio amici?
«L'amicizia è una cosa complicata, ed è una parola che uso con cautela. Stefano è stato un compagno di strada, sia quando eravamo lontani che quando eravamo vicini. Ci siamo stimati reciprocamente e quando abbiamo fatto spettacoli insieme, abbiamo proprio ballato insieme, e lo sapevamo, e lo sentivamo, e in quei momenti era come salire sulle montagne. Quando arrivavamo in cima, eravamo fratelli. Poi sicuramente lui ha avuto amici più grandi di me e io ho amici più grandi di lui, ma insieme abbiamo provato emozioni che ci hanno uniti in modo unico».
- Un amico ti toglie tutte le inibizioni: con lui sei libero. Benni le toglieva tutte le sue ritrosie torinesi?
«Sì, Stefano mi violentava sempre un po'. A modo suo».
- Com'è che ora tra scrittori sembra che ci si diverta poco?
«Dipende da dove scegli di stare. Io con i miei colleghi, anche quelli stranieri, ho sempre fatto un mucchio di risate. Ricordo una serata intera a ridere con Calasso, in Messico. E con Eco. E con Stefano, sempre. Abbiamo riso sempre. Ho sempre scelto di stare con quelli che, tra di noi, passano sulla terra leggeri».
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Claudio Bisio
L’attore: “Portò in Italia i romanzi di Daniel Pennac e ne divenne amico”
“Sembrava riservato, era godereccio e generoso
ADRIANA MARMIROLI
La Stampa
Mercoledì 10 Settembre 2025
Pagina 24
Sono legati a Bar sport, il film in cui ha recitato tratto dal romanzo omonimo, e a Daniel Pennac molti dei ricordi che Claudio Bisio ha di Stefano Benni: «Il set era a pochi chilometri da Bologna e veniva spesso a trovarci: molto discreto, ma un po' perplesso perché riteneva che fosse difficile per il cinema adattare i suoi romanzi. Ricordo quasi di più le sere che si fermava a cena, a casa di Battiston (che aveva scelto di non stare in hotel come me): Giuseppe amava cucinare e Stefano mangiare. Anche più avanti, quando le nostre strade si sarebbero incrociate a Genova, dove Gallione e il Teatro dell'Archivolto (altra relazione e amicizia che abbiamo in comune) organizzavano reading dalle sue opere e si finiva quasi sempre tutti a cena insieme. È un Benni godereccio che forse in pochi conoscevamo. Aveva un'immagine di persona riservata e sobria, mentre in realtà amava la convivialità».
- Quando giraste "Bar Sport" vi conoscevate già?
«A parte averne letto e molto apprezzato le opere, l'avevo conosciuto tramite amici del giro bolognese della comicità. E poi avevo fatto qualche posa nel film Topo Galileo che aveva scritto e di cui era protagonista Beppe Grillo. Tornando a Bar Sport, quel film fu anche figlio di un suo gesto di amicizia, visto che aveva ceduto quasi per nulla i diritti al regista Massimo Martelli. Stefano non era uno che manifestava in modo plateale il suo affetto, ma uno da gesti reali e concreti».
- Lo ha sentito di recente?
«No, ma Massimo e Paolo Rossi facevano un po' da intermediari e mi avevano detto che stava sempre peggio. È con grande dolore che avevo saputo della malattia e della sua gravità, per cui in realtà la notizia della morte non mi ha colto di sorpresa, anche se mi ha addolorato. Perdere un amico fa sempre male».
- Vi univa anche Daniel Pennac, di cui Benni era molto amico.
«Si dice, e penso sia vero, che sia stato Benni a far conoscere Pennac a Feltrinelli e a farlo pubblicare in Italia. Quando avevo portato in scena a teatro Monsieur Malaussène, aver detto a Pennac della mia amicizia con Stefano, ci aveva legati ancora di più. Una triangolazione amicale».
- Il figlio si è augurato che amici e lettori lo ricordino leggendo ad alta voce passi da uno dei suoi romanzi. Lei cosa sceglierebbe?
«Penso Comici spaventati guerrieri. Ma a proposito di passi letti ad alta voce: a giugno, per i 40 anni di Stranalandia, che Feltrinelli ha ripubblicato, gli hanno dedicato un omaggio in piazza Maggiore a Bologna, una lettura a più voci su queste bellissime impossibili città che si era inventato con Angela Finocchiaro, Paolo Rossi, Michele Serra, Bergonzoni, Pennac e pure io purtroppo solo in video».
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