Nati il 4 luglio da una storia d'amore tradito
Thomas Jefferson si chiuse in una stanza e in pochi giorni scrisse la bozza.
Il comitato restò colpito dalla chiarezza e dall'efficacia del testo
Il momento della firma della Dichiarazione d'indipendenza americana il 4 luglio 1776
immortalato nel dipinto di John Trumbull del 1819.
Art Images via Getty Images
È il giorno in cui gli USA celebrano la Dichiarazione d'indipendenza Ecco perché il documento con il quale le colonie si separavano dalla Corona nascondeva lo smarrimento americano. Lo stesso di oggi
MAURIZIO VALSANIA
La Repubblica - Venerdì 4 Luglio 2025
Pagina 33
Ogni anno, intorno al 4 luglio si rinnova tra gli americani l'attenzione verso uno dei documenti fondativi più importanti del Paese: la Dichiarazione d'indipendenza. Che siano repubblicani, democratici o indipendenti, molti sostengono che è l'adesione ai valori espressi in quel documento a definirli come americani. Lo ha detto anche Barack Obama nel suo secondo discorso inaugurale: «Ciò che tiene unita questa nazione non è il colore della nostra pelle, né i princìpi della nostra fede, e neppure l'origine dei nostri nomi». A fare gli americani, ha affermato, è piuttosto «la nostra fedeltà a un'idea, espressa in una dichiarazione scritta più di due secoli fa». La Dichiarazione rimane ancora oggi un manifesto. Con i suoi alti princìpi «evidenti di per sé», naturalmente: ossia, che «tutti gli uomini sono creati uguali» e che sono «dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili» come «la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità». Ma la Dichiarazione non è solamente un insieme di aspirazioni ideali. Non è un trattato accademico sulle idee filosofiche che andavano di moda nel Diciottesimo secolo — la libertà e l'uguaglianza — o sul filosofo più "cool" di tutti i tempi, John Locke. La Dichiarazione offre una rappresentazione realistica di una società ferita, impaurita e sull'orlo del disastro.
L'11 giugno 1776 il Continental Congress chiese a cinque dei suoi membri di preparare un testo per notificare al re d'Inghilterra e al suo Parlamento la ferma intenzione dell'America di chiedere il divorzio. Gli incaricati furono Benjamin Franklin, John Adams, Roger Sherman, Robert R. Livingston e Thomas Jefferson, noto già allora per il suo straordinario talento di scrittore.
Jefferson non perse tempo. Si chiuse in una stanza in affitto nei pressi della State House di Philadelphia e nel giro di pochi giorni sottopose ai quattro colleghi una prima bozza. Il comitato restò colpito dalla chiarezza e dall'efficacia del testo. Pochissimi rilievi. La bozza fu accolta con entusiasmo. Il Continental Congress ricevette il documento, lo discusse, lo rivide e nella mattinata del 4 luglio 1776 lo adottò ufficialmente. Quella notte stessa, al tipografo di Philadelphia, John Dunlap, fu affidato lo storico compito di stampare le prime copie della Dichiarazione d'indipendenza. A posteriori sembra la storia eroica e trionfale di uomini pronti a spezzare le catene dell'oppressione in nome del loro sconfinato amore per la libertà.
Nel momento in cui prese la penna in mano, tuttavia, Thomas Jefferson non si vedeva come un eroe, ma pensava piuttosto al dramma che stava per consumarsi: una guerra fratricida tra i coloni e la madrepatria infatti era già iniziata. La ragione del dramma è che gli americani del Diciottesimo secolo non si vedevano ancora come americani, ma erano convinti di essere membri attivi di un Impero Britannico potente e in espansione. Quella che pareva essere l'ennesima crisi causata dalla pretesa del Parlamento di tassare i possedimenti oltremare si era presto trasformata in un dibattito sull'indipendenza delle colonie. Per questo chi legge oggi la Dichiarazione non può fare a meno di sentire in quella pagina un senso di riluttanza, tradimento, paura — tristezza, perfino. Noi coloni credevamo di essere liberi — dice la logica della Dichiarazione — ma adesso ci svegliamo con la triste consapevolezza che il re e il Parlamento ci trattano come i loro schiavi personali. Le parole di Jefferson sembrano esprimere con malinconia quanto sarebbe stato bello per «un unico popolo» non essere messo in condizione di «dissolvere i legami politici che hanno tenuto insieme gli uni con gli altri».
Quanto sarebbe stato desiderabile trovare un modo per riallacciare «i nodi della nostra comune parentela». Sventuratamente, quelle che Jefferson chiama «ripetute ingiurie e usurpazioni» hanno creato nemici da persone che condividevano la stessa discendenza, soffocando «la voce della giustizia e della consanguineità». Come non provare dolore per queste «ingiurie»? Il re è colpevole di «abolire le nostre leggi più preziose»; egli ha «fomentato insurrezioni al nostro interno»; ha inviato «funzionari a vessare il nostro popolo»; ha ostacolato «le leggi per la naturalizzazione degli stranieri»; e ha «reso i giudici dipendenti dalla sua sola volontà». Gli americani non volevano una rivoluzione, conclude la Dichiarazione, ma i coloni devono accettare «la necessità» di una separazione: «Tale è stata la paziente sopportazione di queste colonie, e tale è ora la necessità che le costringe ad alterare i loro precedenti sistemi di governo».
Gli americani oggi possono credere che la Dichiarazione d'indipendenza appartenga a loro, e hanno ragione. La Dichiarazione è un documento americano. Ma in misura forse ancora maggiore, essa appartiene a Thomas Jefferson, che diede corpo in quello scritto alle sue teorie sulla società e sulla natura umana. Per lui gli esseri umani non dovevano vivere come atomi isolati, in competizione costante gli uni contro gli altri. Jefferson era un comunitarista: credeva cioè che la felicità evocata nella Dichiarazione potesse realizzarsi solo quando gli individui si fossero percepiti come parti attive di un tutto più ampio fatto di altri esseri umani.
Come lui stesso avrebbe spiegato molti anni dopo, la Dichiarazione era costruita sul presupposto che «la Natura ha impiantato nel nostro petto un amore per gli altri, un senso del dovere verso di loro, un istinto morale, in breve, che ci spinge irresistibilmente a percepire e a soccorrere le loro sofferenze». Come filosofo morale, Jefferson non era perfetto, è evidente: le sue posizioni sulla razza e sulla schiavitù lo dimostrano. Ma la Dichiarazione si basa sull'assunto che il re d'Inghilterra e il Parlamento sono colpevoli di aver trasformato un popolo unito in una massa di estranei sospettosi l'uno dell'altro.
Nel racconto di Jefferson il re, come spesso avviene nelle tirannidi, ha commesso il tradimento supremo. Ha pugnalato insieme americani e inglesi. Li ha divisi in due parti antagoniste. Per questo, come Jefferson scrisse in un passaggio della Dichiarazione che non è sopravvissuto alle revisioni, «noi americani dobbiamo sforzarci di dimenticare il nostro antico amore per loro». La nazione americana è nata dall'esperienza traumatica di un'amputazione. È la parte restante di una precedente unità che in un modo o nell'altro è riuscita a ritornare intera. Ma dopo 250 anni l'America appare ancora una volta un popolo che ha perso ciò che lo teneva insieme. Quei «legami politici» vengono messi alla prova; i «vincoli della comune parentela» si stanno logorando. Sono parole che descrivono un tempo di grande smarrimento, paura e tristezza.
Secoli dopo, sembra che quel tempo sia tornato a riprendersi l'America.
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