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Ruanda, rinascita con lo sport Così Kigali continua a correre

Dopo il genocidio del 1994, il Paese si è rilanciato diventando meta di investimenti e turismo

"Corro in bici per un solo motivo: 
far sì che si parli del Ruanda per qualcosa 
che non sia sempre e solo il genocidio"
   - Adrien Nyonshuti - Ex ciclista, 
     portabandiera a Londra 2012

"Nei 7 anni di risorse immesse nel calcio abbiamo raddoppiato 
gli introiti da turismo, da 300 a 600 milioni di dollari"
   - Sheja Vallière responsabile Visit Ruanda

La guerra fra etnie è nella mente di tutti ma il processo di riconciliazione è in corso: la capitale si presenta pulita, accogliente e sicura
Domina la presenza di auto e moto, ma l’entusiasmo per i corridori è palpabile. Che attenzione all’ambiente: vietate le buste di plastica

26 Sep 2025 - La Gazzetta dello Sport 
di Filippo Maria Ricci INVIATO A KIGALI (RUANDA)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

«Quando arriva aprile mi viene mal di testa, anche a distanza di anni». Questa frase è di Adrien Nyonshuti, il più famoso corridore, e probabilmente lo sportivo, del Ruanda. Adrien è del 1987, nell’aprile del 1994 aveva 7 anni. Aveva anche 8 fratelli e viveva in un piccolo centro nella parte orientale del Paese, Rwamagana. Nei 100 giorni del genocidio gliene ammazzarono 6 di fratelli, oltre a una sessantina di altri parenti stretti. Lui scappò nella selva, e si salvò. E 18 anni dopo, nel 2012, è stato il portabandiera del Ruanda alle Olimpiadi londinesi. Oggi, è qui ai Mondiali come tecnico del Benin. Perché dopo aver contribuito all’esplosione del ciclismo in Ruanda si è spostato per fare lo stesso in un’altra piccola nazione africana. 

Il mal di testa di Nyonshuti è la ferita che ogni ruandese si porta dentro da 31 anni. E che non se ne andrà mai. Carnefici o vittime, questa la composizione di una nazione che nell’estate del 1994 aveva perso il 40% della popolazione tra morti e profughi ed era stata qualificata dalla Banca Mondiale come la più povera al mondo. Distrutta, annichilita, spezzata. La prima cosa che fece Paul Kagame, l’uomo forte che sconfisse gli hutu ponendo fine al massacro dei tutsi e che dal 2000 è ufficialmente alla guida del Paese, è stato togliere la distinzione etnica dai passaporti dei suoi cittadini. Erano stati i coloni belgi, arrivati in Ruanda dopo che il Paese era stato tolto alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, a imporre uno scempio che ha seminato le basi dell’odio che portò alla pulizia etnica e al milione di morti della primavera del ’94. 

Tutti insieme 

Riconciliazione è stata la parola-chiave che ha messo in piedi il Ruanda. Del passato non si parla, perché le ferite non si devono riaprire, costi quel che costi. Tutti avanti nella stessa direzione, uno a fianco dell’altro, verso il progresso. Di corsa, senza fermarsi a guardare indietro, ché il passato è pieno di sangue. Pedalando forte come Adrien che su una mountain bike prestata vinse la sua prima corsa nel 2006, attirando l’attenzione di investitori americani che misero le prime pietre di questo Mondiale di Ciclismo costruendo il Team Rwanda con 5 corridori figli del genocidio.

La crescita 

Kigali è accogliente, Kigali è sicura, Kigali è pulitissima. No, i ruandesi non sorridono tanto come gli africani della costa ovest, ma ci mancherebbe. Parlano piano, e si muovono con grazia e gentilezza come se non volessero risvegliare fantasmi che fanno una paura boia. Il Paese piazzato in mezzo al continente non ha mai attratto nessuno e non ha risorse naturali come invece alcuni dei suoi vicini, però è evidente che i soldi sono stati investiti per il bene comune e non per la corruzione di pochi, male inguaribile di tanta parte del continente africano.

Orgoglio nazionale 

Tecnologia, imprenditorialità, connessione, ambientalismo (non si possono introdurre buste di plastica), turismo, investimenti. Questo è il Ruanda che nel 2021 ha convinto l’Unione Ciclistica Internazionale ad affidargli il primo Mondiale africano. Dalla Svizzera hanno chiesto garanzie, e sono stati sorpresi: Kigali in questi giorni vive di e per il ciclismo. No, non ci sono tante bici in giro perché per muoversi bisogna affrontare continui gran premi della montagna e perché con un 1.7 milioni di abitanti le macchine hanno preso il sopravvento e a combatterle sono arrivate le moto, a centinaia. Però la gente si riversa nelle strade anche per le gare minori di ragazzi e ragazze sconosciute, si avverte in continuazione quell’orgoglio diffuso che è stato il primo motore di Nyonshuti: «Voglio cercare di trionfare nel ciclismo per un unico motivo: far sì che si parli del Ruanda per qualcosa che non sia sempre e solo il genocidio». La strada è stata lunga e piena di sussulti, come questo Paese rigoglioso e montagnoso tra i 1000 e i 4000 metri sul livello del mare. Il Ruanda la percorre da 30 anni e il Mondiale è un traguardo storico, come un tappone del Tour de France. Non è il finale perché qui vogliono continuare a correre. Insieme, per seppellire un passato che li ha divisi a colpi di machete. E che in aprile fa venire il mal di testa, anche dopo 30 anni.

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La collaborazione con l’Arsenal la prima pietra del rinnovamento

Il calcio per farsi conoscere e per far sapere al mondo che il Ruanda non è solo il Paese del genocidio. Questa l’idea che ha dato vita a Visit Rwanda, il progetto di espansione che nel 2018 ha messo piede in Europa. «Per decenni abbiamo costruito – racconta Sheja Vallière, anima del progetto –. Poi abbiamo chiuso il primo investimento. Volevamo una squadra della Premier League e abbiamo scelto l’Arsenal». E il futuro? «Va verso due direzioni: gli Stati Uniti, per numero di visitatori in Ruanda, e il ciclismo. L’ambientalismo è uno dei nostri tratti distintivi e stiamo dimostrando che possiamo accogliere cicloturisti da tutto il mondo».

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L’Africa già vince: in gara da 36 Stati del continente

A Kigali partecipano ciclisti e cicliste di 36 Paesi africani, un anno fa a Zurigo erano meno della metà: 15. La quota di ciclisti del continente che ospita questi Mondiali è del 33,64%, più di tutti. Poi c’è l’Europa, 32,71%, quindi le Americhe, 17,76%, l’Asia, 14,02% e l’Oceania, all’1,87%.

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