Con Robert Redford muore l’America capace di sognare e far sognare


L’ULTIMO INTERPRETE DI UN MONDO CHE NON C’È PIÙ

ANTONIO MONDA
Il Foglio - Mercoledì 17 settembre 2025
Pagina 2

E’ stato l’ultimo interprete di un’America che non c’è più, e il suo ruolo è andato ben oltre quello della superstar, perché Charles Robert Redford è stato un attore carismatico e irresistibile, un ottimo regista, un produttore illuminato, il fondatore di un’istituzione dalla quale è nato il Sundance Festival, e ovviamente un uomo bellissimo, dotato di un sorriso aperto e privo di malizia. Era questa la sua forza, seduceva il pubblico attraverso virtù che appaiono di altri tempi come la purezza, l’onestà e la lealtà: il miliardario che paga una fortuna per andare a letto con Demi Moore in “Proposta indecente” funziona proprio perché è against type

Era nato a Santa Monica in California, da un padre di sangue irlandese e scozzese e una madre di origine inglese, e da giovane volle arruolarsi in marina, dimostrando intanto di eccellere nel tennis dove compagno di allenamento di Pancho Gonzales

Si è quindi dedicato con abnegazione alla recitazione, debuttando in un film televisivo di Alfred Hitchcock. Pochi ricordano che è stato un ottimo attore teatrale che conquistò Broadway in “A piedi nudi nel parco”. Fu Gene Sacks a offrirgli il ruolo da (co)protagonista della versione cinematografica, grazie alla quale divenne una star. In quel film venne la luce e un’altra caratteristica del suo talento: quella di duettare senza alcun timore reverenziale con i più grandi divi hollywoodiani, anzi, esaltandone la recitazione. E’ stato così con Jane Fonda, con cui ha girato quattro film (in realtà cinque: il cameo di Redford nel primo non fu accreditato, ndr), Marlon Brando ne “La caccia”, Dustin Hoffman in “Tutti gli uomini del presidente”, Barbra Streisand in “Come eravamo”, Meryl Streep ne “La mia Africa” e più di ogni altro Paul Newman, con il quale formò un sodalizio indimenticabile ne “La stangata” e in Butch Cassidy e Sundance Kid: l’istituto che ha fondato prende il nome dal personaggio che interpretò in quel film. 

Un sodalizio non meno importante è quello con Sydney Pollack, con il quale ha girato sette film, uno dei quali è lo straordinario “Jeremiah Johnson”, barbaramente tradotto in italiano “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”. Non è da sottovalutare “I tre giorni del Condor”, dove venne scritturato da Dino De Laurentiis per interpretare un funzionario della CIA che scampa a un massacro ordito all’interno della stessa istituzione: l’uomo che combatte da solo all’interno di un sistema corrotto non è troppo diverso da quello in “Tutti gli uomini del presidente”. 

Quel suo personaggio ha avuto varie declinazioni, ma anche nelle versioni più cittadine Redford è riuscito a comunicare il senso di conquista che porta con sè l’idea della frontiera, unito alla purezza degli spazi aperti e sconfinati del suo Paese: viveva in un ranch nello Utah, lontano da Hollywood e da New York. C’è stato un momento in cui la sua stella brillava in maniera così potente che venne preso in considerazione persino per “Il Padrino”, dove la Paramount spingeva perché rivestisse i panni di Michael Corleone, o “Il laureato”. 

E’ stato il miglior Jay Gatsby dello schermo, e, come ha dimostrato in particolare con Paul Newman, un attore dai notevoli tempi comici.

Il suo debutto alla regia sorprese i fan e l’industria, ma sin da “Gente Comune”, con il quale vinse l’Oscar, dimostrò una competenza e una solidità fuori del comune. Il suo capolavoro registico è “Quiz Show”, nel quale ha raccontato una truffa televisiva che immortala il cinismo degli interessi di un mondo regolato unicamente dal profitto e dall’immagine. 

Estremamente riservato nella vita privata, funestata dalla tragica scomparsa di due figli, è stato attivo nella difesa dell’ambiente, e in politica ha manifestato apertamente le proprie convinzioni, senza essere mai fazioso: consiglio a tutti di rivedere “Il candidato”. Il suo impegno politico lo iscrive nella grande tradizione liberal srarunitense, quella, per intenderci, che vide Humphrey Bogart e Laureen Bacall sfilare per la liberazione dei "Dieci di Hollywood" nell’epoca del maccartismo, periodo rievocato in “Come eravamo”: era in prima fila insieme con Marlon Brando e Paul Newman alla manifestazione nella quale Martin Luther King pronunciò il discorso de "I have a dream"

Con lui scompare quell’America che riteneva imprescindibili gli ideali di giustizia, accoglienza e tolleranza, una promessa, per usare le parole di King, "deeply rooted in the American dream". Forse non è un caso che sia scomparso in questi giorni di polarizzazione, violenza e odio, e chi lo piange, piange la scomparsa di un intero mondo, o, come scrisse il poeta della “favola bella che ieri ci illuse, che oggi ci illude”.

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