ROBERT REDFORD - La complessità del mondo nel minimalismo di un divo

La fondazione del Sundance, il sodalizio con Pollack, l’Oscar alla regia Dietro e davanti la macchina da presa
GIULIA D'AGNOLO VALLAN
Il Manifesto
Mercoledì 17 settembre 2025
Pagina 18
«Sono nato con un occhio inflessibile. Guardo una cosa e ne vedo i difetti. Cosa potrebbe essere migliorato. Ho sviluppato una visione dark dell’esistenza osservando il mio Paese. Da bambino mi dicevano che la vita va presa in modo sportivo. Vincere o perdere non conta: l’importante è giocare. Ho capito presto che era una bugia». Così diceva Robert Redford in un’intervista di qualche tempo fa all'Hollywood Reporter.
IN STUPENDO contrasto con la sua bellezza così dorata e incontestabile, perfetta per lo spot di un paesaggio americano incontaminato e pieno di possibilità, è stato proprio quell’occhio inflessibile a rendere Robert Redford - scomparso lunedì, a ottantanove anni - una figura fondamentale del cinema, della cultura e della politica USA del nostro tempo. A farne un «pessimista» dotato dell’ottimismo che gli ha permesso, nell’arco di una carriera di quasi settant’anni e giocata in un non sempre facile equilibrismo di insider/outsider, di porsi sia come coscienza critica sia come spirito-guida. Con i film che ha interpretato, diretto o prodotto (fu lui ad acquistare i diritti del libro di (Bob) Woodward e (Carl) Bernstein sul Watergate, Tutti gli uomini del presidente e a volerne fare un film); con il suo attivismo (parola che apparentemente detestava) ambientale; e fondando, tra i canyon dello Utah che aveva protetto dalla speculazione edilizia, un laboratorio di cinema e di pensiero per sguardi e voci che non trovavano spazio a Hollywood - il documentario, il cinema latino, black, queer, quello delle donne e quello dei Nativi d’America.
BATTEZZATO in omaggio a uno dei suoi personaggi più famosi - nel film Butch Cassidy (1969) - il Sundance Institute, insieme con il festival omonimo (da cui sono «nati», tra gli altri, Richard Linklater, Steven Soderbergh e Quentin Tarantino), rimangono una delle eredità più importanti di questa star enorme e schiva. C’è una malinconica ironia nel fatto che, la prossima edizione del Sundance, prevista per il gennaio 2026, sarà anche l’ultima che si tiene a Park City, il villaggio minerario/stazione sciistica (oggi devastato dal turismo di lusso) dove lui, contro il parere di tutti, lo aveva voluto.
Princìpi-guida della carriera di Redford (nato nel 1936, a Santa Monica), sono state le due grandi passioni della vita quella per la natura, che accredita a un’infanzia trascorsa in una Los Angeles ancora «incontaminata» e a un’adolescenza tra le montagne del Colorado; e quella per l’arte, scoperta in tutto il suo potere raccontava lui - grazie a un viaggio giovanile in Europa, durante il quale trascorse parecchie settimane a Firenze.
Tra quei due poli, Redford ha costruito un percorso connotato fin dall’inizio di scelte personalissime, marcate da un forte desiderio di indipendenza e dalla volontà di fare un cinema che rifletta valori e complessità del mondo che ci circonda.
L’ESORDIO fu sui palcoscenici di New York e nel fermento creativo della Golden Age televisiva anni sessanta, dove il suo stile di recitazione guardingo, minimalista, spesso venato di ironia (stile che lo rese un grande, tragico, Gatsby, nel film di Jack Clayton) si differenziava da quello naturalistico, più esplicitamente caratterizzato, diffuso dall’insegnamento dell’Actors Studio.
Dotato fin da subito di quell’autorialità naturale con cui una star «segna» i film, Redford ha dimostrato presto l’intenzione di farli suoi in modo più concreto, a partire da titoli come Gli spericolati (1969), primo capitolo di quella che lui aveva concepito come una trilogia sul mito americano del successo, e la satira politica The Candidate (1972), entrambi diretti da Michael Richie, o Corvo rosso non avrai il mio scalpo! (1972), il western nevoso scritto da John Milius e diretto da Sydney Pollack che disse di lui: «Redford ha un che di misterioso. Hai l’impressione che se ha dieci dollari in tasca, te ne dà cinque ma tiene nascosto il resto. Credo che molto del suo fascino sia proprio lì».
Articolata nell’arco di sette film (I tre giorni del Condor, Tutti gli uomini del presidente, Come eravamo, Questa ragazza è di tutti, Il cavaliere elettrico, La mia Africa e Havana) la collaborazione con Pollack è una delle più importanti della sua carriera, insieme a quella con George Roy Hill, che seppe sfruttare le sfumature più picaresche del suo talento in Butch Cassidy, Il temerario e nel suo maggior successo di botteghino, La stangata.
Attore istintivo, calibrato, con un forte senso del dettaglio, Redford si è dimostrato, a sua volta, un abile narratore il cui impegno e passione per i personaggi e la storia equivalgono a quelli per le sue cause. Non a caso ha spesso usato il suo successo critico e commerciale per fare film su temi che gli stavano a cuore e per spianare la strada a filmmaker indipendenti come lui, spesso affidandosi alla visione di autori giovani come J.C. Chandor in All Is Lost, un manuale di sopravvivenza pratico/politico, e uno dei suoi film più belli e struggenti dell’ultimo periodo. La sua prima regia, Gente comune (1980), seguita tra gli altri da In mezzo scorre il fiume, Quiz Show, Leoni per agnelli, La regola del silenzio) è anche il suo unico Oscar, se si eccettua quello alla carriera, conferitogli nel 2017. Come Clint Eastwood e Warren Beatty – sex-symbol anche loro e quasi coetanei – Redford è stato infatti premiato dall’Academy solo in qualità di regista, mai come attore.
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