The Punch, il pugno che ha cambiato tutto



Come un clamoroso gesto di violenza ha segnato indelebilmente le vite di due giocatori, Rudy Tomjanovich e Kermit Washington, oltre a rappresentare un punto di non ritorno nella storia della NBA.

Around the Game - 24/03/2018

Rudy Tomjanovich rientra nello spogliatoio degli ospiti sulle sue gambe, e già questo sembra essere un miracolo.

Un asciugamano, ormai color rosso vivo, copre il suo volto, ridotto a un involucro di pelle al cui interno è difficile trovare un osso ancora integro. Si stende su un lettino per i massaggi, al suo fianco il preparatore dei Rockets, Dick Vandervoort, e il medico dei Lakers, Clarence Shields cercano di trattenere le emozioni, ma l’ala dei texani è davvero ridotta male. 

“Dick muoviti! Mettimi delle garze in faccia e fammi tornare in campo a giocare!”

Rudy non ha ancora capito la gravità della situazione.

Le successive ore saranno decisive non per il proseguimento della sua carriera: saranno ore in bilico tra la vita e la morte.

A pochi metri in linea d’aria, nello spogliatoio dei padroni di casa, Kermit Washington, espulso dalla partita, cammina incessantemente avanti e indietro, cercando di soffocare l’adrenalina che ha preso possesso del suo corpo. Un altro membro dello staff medico dei Lakers lo convince a sedersi per farsi medicare la sua mano destra, alla quale applica diversi punti di sutura.

Di lì a pochi istanti, entrambi i giocatori sono nel lungo corridoio che porta fuori dal Forum. Washington torna a casa, Tomjanovich deve raggiungere l’ambulanza che lo porterà al Centinela Hospital. I due si avvicinano pericolosamente.

“Kermit, perché?! Perché mi ha colpito in quel modo?”
“È colpa del tuo compagno, è colpa sua!”
“Figlio di puttana! Perché mi hai colpito!?”

La sicurezza li tiene lontani, evitando ulteriori problemi. Nel frattempo, pochi metri sopra le loro teste, la partita va avanti nell’indifferenza generale. Perché quel che è successo non uscirà più dai ricordi di tutti i presenti.

“The Punch” cambiò completamente la vita dei due attori coinvolti nella vicenda, oltre ad essere un punto di non ritorno per la NBA, che da allora ha implementato una politica di tolleranza zero nei confronti delle risse sul campo da gioco.

“Quell’episodio ci ha insegnato che non possiamo permettere ad atleti così grossi e così forti di venire alle mani, per nessuna ragione. 
Le nuove regole sono state molto criticate, ma preferisco squalificare un’intera panchina per essere entrata in campo piuttosto che permettere che avvengano incidenti del genere”.
(David Stern)

È il 9 dicembre del 1977, al Forum di Inglewood i Lakers ospitano gli Houston Rockets.

Il palazzo è pieno per metà, del resto per entrambe le franchigie sarà una stagione tutt’altro che esaltante, con i texani fuori dai playoff e gli uomini guidati da Jerry West eliminati al primo turno dai Seattle Supersonics.

È una gara combattuta, con le squadre che vanno al riposo sul 55-pari. Rudy Tomjanovich, come al solito, sta guidando i suoi, con un 9/14 al tiro e un’innata eleganza, la stessa che lo ha già reso un All-Star quattro volte.

Il gioco riprende e dopo poco più di un minuto il centro dei Rockets, Kevin Kunnert, strappa un rimbalzo a Kareem Abdul-Jabbar e l’ala Kermit Washington.

Kunnert apre subito per il play John Lucas e il contropiede dei Rockets parte velocemente.

Kunnert, Kareem e Washington sono ancora nella metà campo dei Rockets: Washington nel tentativo di prendere vantaggio per il contropiede, si aggrappa ai pantaloncini dell’avversario, per rallentarne la corsa. Kunnert, innervosito, si divincola allargando i gomiti e finendo per colpire Washington.

Fino a qui nulla di strano, cose che capitano in ogni partita di pallacanestro, a ogni livello.

Ma una seconda gomitata raggiunge l’ala dei Lakers, che a questo punto è certa dell’intenzionalità del gesto, reagendo di conseguenza. I due vengono alle mani, Abdul-Jabbar interviene per allontanare Kunnert ma riesce solo a bloccargli le braccia e scoprirlo a un diretto destro di Washington, che gli provoca una ferita sotto l’occhio destro. A questo punto la partita è ferma, tutti si sono accorti che c’è una rissa in atto, proprio nel cerchio di centrocampo.


Dalla metà campo offensiva accorrono con velocità altri due Rockets in soccorso del compagno, la guardia Calvin Murphy e il capitano Rudy Tomjanovich.

Non esistono due persone più diverse e proprio per questo, come spesso capita, i due agli opposti sono molto amici.

“Ho capito che le cose si stavano per mettere male e volevo intervenire per calmare gli animi. Quando ho visto con la coda dell’occhio Calvin correre verso il centrocampo, ho accelerato: dovevo arrivare prima di lui, lo conosco come le mie tasche e so per certo che non avrebbe fatto da paciere…”
(Rudy Tomjanovich)

Murphy ha un animo fumantino, oltre a un passato da pugile in gioventù: Rudy T vuole evitare che possa scatenarsi un parapiglia fuori scala. Tomjanovich, figlio d’immigrati croati, è cresciuto a Hamtramck, sobborgo di Detroit abitato dalla working class, ha imparato a giocare a basket sulle difficili strade della Motor City, eppure è sempre stato riconosciuto per la sua calma, la capacità di mantenere la situazione sotto controllo e di far ragionare i propri compagni.

Per questo, mentre si avvicina a Kermit Washington e Kevin Kunnert, è certo di poter risolvere la tenzone senza che nessuno si faccia troppo male.

Washington vede con la coda dell’occhio una figura avvicinarsi alle proprie spalle.

“Sono cresciuto per strada e ho imparato che se nel bel mezzo di una rissa qualcuno sta arrivando alle tue spalle, prima devi colpirlo, poi chiedergli spiegazioni…”

Anche per lui crescere non è stata una passeggiata.

La madre, con problemi psicologici, ebbe una tremenda crisi depressiva quando Kermit aveva solo tre anni. Per i successivi cinque visse con la bisnonna 85enne che non aveva le forze per badare a lui; in seguito si trasferì col padre e la di lui nuova compagna, che non ebbe mai a cuore il destino di Rudy. Crescendo fu colpito da diversi lutti, tra cui il suicidio di un fratello e le morti premature di madre e nonna.

“Da ragazzo ho sofferto molto, 
mi hanno sempre detto che non mi comportavo bene e che ero un buono a nulla. 
Ho sempre voluto dimostrare il contrario, 
provare di valere qualcosa”.

È grazie al lavoro e allo spirito di sacrificio che Washington riesce a costruirsi una carriera poggiata sulla forza intimidatrice sotto le plance, che sopperisce agli evidenti limiti offensivi.

Nell’estate del ’77 Kermit ha subito un intervento al ginocchio dal quale recupera a tempo-record: si dedica molto al sollevamento pesi e fu uno dei primi professionisti della lega a capire l’importanza del lavoro coi manubri.

Ha un fisico scultoreo, 204 cm per 109 kg scolpiti nel marmo; è uno di quei giocatori, tipico dell’NBA anni ’70, arruolato per difendere la star della squadra (nel suo caso Jabbar), una sorta di “sceriffo” che gli avversari non vogliono far arrabbiare per nessuna ragione.

Si è già reso protagonista di qualche rissa e spesso i compagni dovevano chiedergli di andarci piano in allenamento, ma fuori dal campo tutti lo identificano come un “gigante gentile”, educato e affabile.

Quando Tomjanovich è a poco meno di due metri dal suo compagno Kunnert, Washington è come se si ritrovasse catapultato di nuovo sulle strade dell’omonima città nella quale è cresciuto.

Una figura si avvicina alle sue spalle e il suo istinto di sopravvivenza lo induce a colpirla, senza curarsi delle possibili buone intenzioni altrui. Rudy arriva a tutta velocità e non si aspetta che Washington possa reagire in quel modo.

L’ala dei Lakers sferra un terrificante pugno a tutto braccio che colpisce il giocatore dei Rockets sulla parte sinistra del volto. “Colpire” è un eufemismo: il pugno di Washington, secondo i dottori che trattarono il caso, ebbe un impatto simile a quello che occorre a una vittima di un incidente stradale, scaraventata contro un parabrezza a circa 80 km/h.

“Non dimenticherò mai quel suono, 
un colpo sordo, come quello di un melone 
che viene scaraventato contro l’asfalto”.
(Kareem Abdul Jabbar)

Quel suono riecheggia in tutto il Forum, ghiaccia il sangue nelle vene di tutti gli oltre diecimila presenti: Tomjanovich crolla a terra, privo di sensi.

Immediatamente il sangue comincia a sgorgare copioso dal suo volto, “come fosse stato centrato da un colpo di pistola”, ricorda Jerry West.

Il pensiero che occupa le menti di tifosi, giocatori e giornalisti è uno soltanto: Rudy è morto.

Dopo qualche minuto, invece, Tomjanovich riprende conoscenza.

“Ricordo di aver aperto gli occhi e aver dovuto chiedere cosa fosse successo, temevo che il tabellone segnapunti mi fosse caduto sulla faccia. Dick (Vandervoort, preparatore dei Rockets, ndr) mi disse che ero stato colpito da un pugno e che avevo il naso rotto. Così mi alzai in piedi, con l’asciugamano a coprirmi il volto, per tornare in spogliatoio per le medicazioni. Quando mi diressi verso lo spogliatoio ricordo di aver notato Walter Matthau, l’attore, in piedi a bordo campo e subito dopo Jerry West: entrambi mi guardavano con gli occhi stupiti di chi ha visto un evento soprannaturale. Pensai che dovevo avere davvero un brutto aspetto…”

Rudy T non ha semplicemente il naso rotto, la diagnosi finale è devastante: frattura di naso, mascella, doppia frattura dell’orbita oculare e una frattura cranica.

Arrivato in spogliatoio, Tomjanovich fa notare al medico di sentire uno strano sapore in bocca, molto amaro, ben diverso da quello del sangue. È il sintomo di una perdita di liquido spinale direttamente dal cervello: se tale perdita non dovesse fermarsi in tempi brevi, rischierebbe la vita.

A quel punto il sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di Washington sparisce, sostituito da un terrore disarmante.

I giorni che seguono l’incidente sono tremendi per entrambi. Se Rudy, raggiunto dalla moglie che fatica a riconoscerlo, aspetta buone notizie dai medici, Kermit diventa l’uomo più odiato d’America.

Lettere di minacce, insulti per strada a lui e sua moglie Pat, con un’ostetrica che si rifiutò addirittura di far nascere il loro secondogenito. L’evento ricevette anche un'eco extracestistica in seguito a uno sketch del popolare show Saturday Night Live, che si prendeva gioco di Kermit.

Washington ormai ha terra bruciata intorno.

La lega, analizzate le terribili immagini dell’incidente, decise per una squalifica di 60 giorni senza stipendio, oltre a una multa di diecimila dollari; inoltre, negli anni successivi, Rockets e Tomjanovich ottennero dai Lakers un risarcimento milionario.

Una punizione severa per l’epoca, senza precedenti, ma che molti consideravano comunque troppo tenera, come Houston, che auspicava per Washington una squalifica lunga tanto quanto l’assenza dal campo del loro capitano.

“The Punch” ebbe come unica nota positiva la definitiva presa di posizione della NBA in materia di risse. Negli anni ’70, infatti, alterchi e colluttazioni erano all’ordine del giorno su tutti i campi e le punizioni per i colpevoli erano pressoché inesistenti, circoscritte al massimo a un fallo tecnico o a un’espulsione.

La strada che porta ai giorni nostri, in cui anche i flagrant sono passibili di squalifiche, è figlia di quell'evento – in estate venne introdotto il terzo arbitro e l’automatica espulsione per membri della panchina che entravano nel terreno di gioco – ed è facile capire quale sia stata l’intenzione delle alte sfere nel cambiare la giurisdizione.

“Permettere falli duri in una gara aumenta la possibilità che sorgano conflitti, risse e infortuni gravi. Capisco i nostalgici, che vorrebbero una Lega più dura, più old school, ma quanti giocatori, allora, subirono danni che si sono poi rivelati molto seri a lungo termine?”
(Matt Moore, giornalista)


Già, perché non fosse stato per le terribili ferite di Rudy T, le azioni di Washington non sarebbero state viste in modo così negativo.

Purtroppo fu necessaria questa disgrazia, che ebbe serie conseguenze per entrambi, per trasformare la NBA.

Dopo una settimana di angoscia, Tomjanovich venne dichiarato fuori pericolo: la perdita di liquido spinale si arrestò e poté cominciare il lungo recupero.

Affrontò cinque operazioni di ricostruzione facciale ma dopo quasi un anno di stop tornò a giocare. I danni riportati, però, minarono il suo stato di salute e dopo soli tre anni chiuse la carriera, con un calo in tutte le aree statistiche.

Kermit Washington, poco più di due settimane dopo The Punch, venne spedito ai Boston Celtics, con la dirigenza Lakers che organizzò la trade in gran segreto, desiderosa di disfarsi di un “problema” che poteva causare ulteriori danni d’immagine.

“La dirigenza non avvisò né me né lui, tanto che Kermit scoprì dello scambio dal commentatore Chick Hearn. Lo trovai vergognoso: sia dal punto di vista tecnico, visto che avevamo un gran bisogno di lui, sia dal punto di vista umano, perché meritava un trattamento migliore”.
(Jerry West)

La carriera di Washington proseguì per altri 10 anni tra Boston, San Diego, Portland e Golden State, con anche una convocazione alla Partita delle stelle nel 1980. Di certo la sua reputazione subì un duro colpo e terminata la carriera da giocatore, quando Kermit tentò di costruirsene una da coach, trovò chiuse molte porte.

“Capisco la percezione che la gente ha di me. Mi dispiace perché sono sempre stato un professionista esemplare, non ho mai fatto tardi a un allenamento, mai litigato con un allenatore o un compagno. Ma quell’incidente mi ha segnato per sempre. Mi dispiace per Rudy, ovviamente, ma credo di non meritare un trattamento del genere”.

In tutta onestà, l’unica vera vittima del terribile episodio era e resterà sempre Rudy T, perché per quanto Washington possa aver sofferto per un certo ostracismo, nulla è paragonabile a quello che Tomjanovich ha dovuto passare.

Per lui, dopo il ritiro, furono anni difficili in cui lottò contro alcolismo e depressione, per poi riprendere la propria vita in mano e costruirsi una solida carriera da allenatore, resa leggendaria dal clamoroso back-to-back ‘94/‘95 sulla panchina dei suoi Rockets e dall'oro olimpico con Team USA a Sydney 2000. Ma ciò che è ancor più straordinario è il perdono che Rudy è riuscito a trovare nel suo cuore.

“Quando ero in ospedale, infuriato per com’erano andate le cose, qualcuno mi disse una frase che non ho mai dimenticato, e cioè che odiare Kermit sarebbe stato come bere del veleno e sperare che morisse qualcun altro. L’ho perdonato, e la cosa strana è che neanche lo conosco, non ci siamo mai seduti a parlare, ma quell’evento ci ha unito, in un certo senso lui farà sempre parte di me”.

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