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Visualizzazione dei post da agosto 14, 2017

HOOPS PORTRAITS - Paul Arizin, se questo è un uomo (da NBA)

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https://www.amazon.it/Hoops-Portraits-Ritratti-basket-americano/dp/1731583168/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr= di CHRISTIAN GIORDANO Supponete di trovarvi dinanzi ad un’ala NBA di appena 1.92 che ansima cercando di trattenere il fiato mentre corre su e giù per il campo come se fosse sempre alle prese con il fiatone. Probabilmente ci mettereste un po’ a prenderlo sul serio come minaccia offensivo, ma guai se quel giocatore era Paul Arizin dei Philadelphia Warriors. Arizin, uno dei più grandi realizzatori degli anni ’50, aveva una fistola (malformazione alla cavità polmonare) che in campo lo faceva respirare a fatica e tossire, ma che non inficiò mai il suo tiro. “Pitching Paul” chiuse la sua decennale carriera NBA a oltre 22 punti di media, vincendo per due volte la classifica marcatori. Fu il quinto uomo nella storia della Lega a segnare 10000 punti, traguardo raggiunto più velocemente di tutti.  Arizin guidò i Warriors al titolo NBA nel 1956 e disp

HOOPS PORTRAITS - Walt "The Bell" Bellamy, per chi suona il Campana?

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di CHRISTIAN GIORDANO I big men che viaggiano a 20 punti e 13 rimbalzi di media sono una rarità, nella NBA di oggi. E uno con quelle cifre per un arco di tredici anni, sarebbe considerato fra i grandi di tutti i tempi. Eppure Walt Bellamy, le cui statistiche quelle sono, non è stato un All-NBA. Ma la cronica sottovalutazione di Bellamy era in gran parte figlia della sua stessa epoca di giocatore. Bellamy irruppe nella Lega nel 1961, quando ad avere perennemente sotto chiave il ruolo di centro all'All-Star Game erano un paio di tipini di nome Bill Russell e Wilt Chamberlain. E il povero Bellamy era ancora in circolazione quando su quelle scene si presentò un certo Kareem Abdul-Jabbar. Allora ditelo. L'unico riconoscimento che Bellamy fece in tempo a cogliere, fu Rookie of the Year 1962. Prima scelta al draft 1961, Bellamy, 2,09 per 112 kg, pareva già destinato a una franchigia di espansione, i Chicago Packers. Ma la matricola uscita da Indiana University aveva ricevut

Slater Martin, piccola stella senza cielo

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di CHRISTIAN GIORDANO Molto prima di Calvin Murphy, Spud Webb, Tyrone "Muggsy" Bogues e, sic, Nate Robinson, era stato Slater Martin a dimostrare che nella NBA c’è posto anche per i piccoletti. Purché belli tosti.  Alla Jefferson High School di Houston, nel Texas, Martin era appena 1,69 quando condusse il liceo a due titoli statali consecutivi, 1942 e 1943. Al college, autodefinitosi “cannoniere” di 1,77, Martin lasciò i Longhorns della University of Texas dopo esserne diventato il top scorer all-time e col record della Southwest Conference di 49 punti segnati in una partita. Più che le sue medie realizzative, però, ad attirare i pro' era come difendeva. Martin marcava il miglior realizzatore avversario, e pazienza se quello lo sovrastava di quindici centimetri. Nel 1949 la corazzata Minneapolis Lakers lo arruolò per difendere contro i migliori frombolieri della lega, e poi per ricevere sugli scarichi della superstar, il centro George Mikan, e degli altr

MAESTRI DI BASKET - Bill Sharman, una vita da All-Star

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di CHRISTIAN GIORDANO  Provate ad immaginarvi uno che nel basket pro’ sia stato capace di vincere undici anelli: quattro come giocatore, tre da allenatore e quattro in veste di team executive.   Fatto? Bene, adesso immaginate che quei titoli li abbia vinti con quattro squadre diverse di tre leghe diverse.  Suona inverosimile? Può darsi, ma questi sono i traguardi tagliati da Bill Sharman. E il bello è che i suoi risultati valgono ben più delle sue “semplici” vittorie in campionato. Da giocatore, negli anni ’50, era stato una guardia di 1,87 incapace di schiacciare, ma anche un micidiale jump shooter per sette volte All-NBA, di cui quattro consecutive come Primo quintetto.  Ed è stato pure il miglior tiratore di liberi della sua epoca, come testimoniano i suoi sette titoli di categoria, tuttora record NBA, e la sua percentuale in carriera (88.3%), la terza di sempre. Ma, dote ancora più importante, è stato un grande clutch player . Per il coach dei Celtics Red Auerbach era l’uomo sul

HOOPS PORTRAITS - Gene Conley, battute di spirito

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https://www.amazon.it/Hoops-Portraits-Ritratti-basket-americano/dp/1731583168/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr= di CHRISTIAN GIORDANO Gli ex pitcher Ron Reed e Dave DeBusschere hanno giocato a livello professionistico per qualche anno sia a basket sia a baseball.  Bo Jackson ha trascorso un paio d’anni giocando nello stesso periodo a baseball e a football.  Ma dai tempi di Jim Thorpe il solo uomo a sfondare per davvero in due sport professionistici è stato Gene Conley, che in undici anni disputò diciassette stagioni di big league: undici nel baseball e sei nella NBA. E Conley è anche l’unico ad aver vinto il campionato in entrambi gli sport. Centro di 2.02 i cui punti di forza erano il saper andare a rimbalzo e far partire il contropiede, Conley era il rimpiazzo di Bill Russell nei Boston Celtics tre volte campioni NBA dal 1959 al 1961. Giocando anche come ala di riserva, Conley in quegli anni arrivò a scendere in campo fino a quindici minuti a partita, e po

«That's Two For McAdoo!»

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di CHRISTIAN GIORDANO © Uno dei soli otto giocatori NBA capaci di vincere la classifica marcatori almeno tre volte, Bob McAdoo ha contribuito a cambiare il ruolo del big man nel basket pro'. È stato uno dei primi centri rapidi, poco fisici, fin dai primi anni ’70. Incubo dei difensori di qualunque taglia, con il suo range quasi illimitato puniva il centro avversario attirandolo lontano dal canestro e se invece gli appiccicavano un piccoletto , dall'alto del suo 2,04 gli tirava in testa a visuale libera. Insomma, una sentenza. Quando, nel 1972, arrivò a Buffalo dalla University of North Carolina, si adattò controvoglia a giocare ala perché i Braves lo ritenevano troppo leggero per giocare pivot nella NBA. Ma pur giocando fuori posizione, fu Rookie of the Year a 18 punti a partita. L’anno seguente, i Braves cedettero il centro Elmore Smith e spostarono McAdoo nel mezzo. Bob rispose col titolo di capocannoniere a 30.6 di media e, pur tirando quasi la metà delle vol

HOOPS PORTRAITS - Ann Meyers, l’altra metà del (gancio) cielo

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https://www.amazon.it/Hoops-Portraits-Ritratti-basket-americano/dp/1731583168/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr= di CHRISTIAN GIORDANO Ann Meyers è cresciuta a San Diego con altri dieci fratelli e ben presto dovette abituarsi a competere contro i ragazzi, compreso il fratello maggiore Dave che giocò anche nella NBA. Al liceo, Ann era già abbastanza brava da diventare la prima donna di sempre a ricevere da UCLA una borsa di studio integrale per il basket. E la Meyers fece in modo di ripagare lautamente i Bruins guidandone la squadra quasi in ogni categoria e diventando la prima donna per quattro volte All-American nella storia del basket femminile. Da junior, nel 1978, guidò UCLA al titolo nazionale. In finale, nella vittoria per 90-74 su Maryland, Ann ebbe 20 punti, 10 rimbalzi, 8 recuperi e 9 assist, un’impressionante dimostrazione di gioco a tutto campo. Nota per la grinta e l’aggressività che esibiva in entrambe le estremità del campo, della Meyers venivano

Ernie "No D" Di Gregorio, il bel gioco dura poco

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di CHRISTIAN GIORDANO Non è mai accaduto che un giocatore irrompesse nella NBA in modo tanto straordinario quanto repentino come successo a un mago del ball-handling di appena 1.82 che risponde al nome di Ernie DiGregorio. “Ernie D”, prodotto locale uscito da Providence College, aveva già deciso all’età di cinque anni di voler giocare a basket per mestiere. Attraverso ore e ore di allenamento sui playground del vicinato, i suoi sogni sarebbero diventati realtà. Una realtà troppo, troppo effimera. Nonostante le centinaia lettere di college ricevute Ernie non ha mai neanche considerato l’eventualità di muoversi da casa. Il suo sogno era quello di frequentare lo stesso ateneo dei suoi idoli, le stelle di Providence Johnny Egan e Jimmy Walker. I Friars di coach Dave Gavitt erano quindi per lui una scelta obbligata e in tre anni di varsity DiGregorio, che pure viaggiò a 20.5 punti di media, si costruì una più che rispettabile fama per i sensazionali passaggi e soprattutto per l

HOOPS PORTRAITS - Connie Hawkins, Falco a metà

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https://www.amazon.it/Hoops-Portraits-Ritratti-basket-americano/dp/1731583168/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr= di CHRISTIAN GIORDANO Nato nel 1942 nel ghetto newyorchese di Bedford-Stuyvesant, a Brooklyn, con Connie Hawkins il Destino aveva giocato a carte truccate. In famiglia erano in sei figli e a neanche dieci anni si ritrovava senza padre e con la madre quasi cieca. Il rispetto di sé il ragazzo se lo guadagnò sui campi dei playground, dove ancora non si  spento il suo ricordo di leggenda. E al momento di andare al liceo era considerato il miglior giocatore di high school di tutta la City.  Hawkins guidò la Boys High School a due campionati cittadini e nel 1960 fu l'MVP dell'All-Star Game delle scuole superiori, gara che comprendeva senior (quarto e ultimo anno) di tutto il Paese. Nonostante il pessimo curriculum scolastico gli piovvero addosso offerte di borse di studio da oltre 250 college e lui scelse la University of Iowa. Ma poco dopo fu r

HOOPS PORTRAITS - I ferri del mestiere di Halbrook

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https://www.amazon.it/Hoops-Portraits-Ritratti-basket-americano/dp/1731583168/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr= di CHRISTIAN GIORDANO Wade “Swede” Halbrook, 2.19 per 107 kg, approdò tardi nella NBA, a ventisette anni, ma il suo segno lo lasciò eccome.  Ingaggiato dai Syracuse Nationals nel 1960 e propagandato – su insegne e cartelloni pubblicitari – come “il più alto giocatore di basket del mondo”, Halbrook, una sorta di Rik Smits ante litteram, all’epoca era davvero il più alto giocatore di sempre nella storia della lega, ma il suo soprannome, lo Svedese, era, in effetti, del tutto improprio date le sue origini tedesco-olandesi. Halbrook fu uno dei personaggi più insoliti della NBA. Anticonformista, timido e introverso, aveva come hobby quello di lavorare a maglia (!), innocuo diversivo che, a suo dire, lo aiutava a rilassarsi. Tra lo sconcerto di compagni di squadra e dirigenti dei Nats, portava con sé in trasferta ferri e gomitoli, ma alla fine, per tutta

Johnny Green, The Jumpin’ Machine

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di CHRISTIAN GIORDANO Jumpin’ Machine : perché su quelle molle che aveva per gambe ci ha costruito una carriera. E che carriera: 14 stagioni e mille partite in NBA tra Kansas City Kings e Cincinnati Royals.  Originario di Dayton, Ohio, dov’è nato l’8 dicembre 1933, a basket aveva giocato zero alla Paul Laurence Dunbar high school. E prima di andare al college a vent’anni, durante la guerra di Corea (perché guerra vera è stata) si era arruolato nei Marines. Prima, aveva lavorato in una pista di bowling, poi per una ditta di costruzioni e infine come addetto in una discarica. Dettaglio non trascurabile: ancora non arrivava al metro e ottantadue, ma saltava. Oh, se saltava.  Durante la leva crebbe fino a 1,94 e nel 1954 entrò nella squadra di basket della base militare USA di Atsugi, in Giappone. «Una sera stavo facendo qualche tiro a canestro e incrociai Tom Foster, l’allenatore di basket della base. Mi chiese se mi sarebbe piaciuto far parte della squadra. «Io? Magari»,

HOOPS PORTRAITS - “Hot” Rod Hundley, una vita da clown

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https://www.amazon.it/Hoops-Portraits-Ritratti-basket-americano/dp/1731583168/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr= di CHRISTIAN GIORDANO Dipinto da alcuni come una sorta di giullare del parquet e da altri come il Globetrotter bianco, a “Hot” Rod Hundley ogni definizione pare andar stretta: è stato sì uno dei più brillanti showmen ad aver mai rallegrato un campo di basket, ma la sua carriera sarà sempre considerata come quella di un potenziale gran talento mai del tutto espresso. Strombazzata stellina di high school a Charleston, nel West Virginia, Hundley era destinato a North Carolina State quando, nel 1953, la NCAA annunciò (e applicò) delle sanzioni disciplinari contro l’ateneo. Hundley optò allora per la University of West Virginia e mise in atto il suo difficile progetto di piazzare i Mountaineers sotto i riflettori della ribalta nazionale. Esile ala di 1.92 con un biondissimo (e americanissimo) taglio a spazzola, da sophomore Hundley, infilando con pe

Il sesto senso di Frank Ramsey

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di CHRISTIAN GIORDANO Nella NBA di oggi il ruolo di sesto uomo è imprescindibile, che sia un realizzatore "di striscia", una point guard capace di spezzare il ritmo partita o di un rimbalzista per conquistare o riprendere il controllo dei tabelloni. Per rendere onore a questi specialisti la lega ha istituito il Sixth Man Award, e il primo a vincerlo, nella stagione 1982-83, fu Bobby Jones dei Philadelphia Sixers che quell'anno vinsero il titolo.  Ricordate la strofetta di quel tifoso immortalato in varie VHS ufficiali? «Little Mo, Big Mo, the Doctor, Andrew Toney, and Iavaroni, no baloney! Sixers all the way». Ecco, il primo a uscire dalla panchina di coach Billy Cunningham, l'ex Kangaroo Kid che a Philly il titolo lo vinse da giocatore nel 1967, era appunto Bobby Jones. Il mago dei tagli dentro. Fino all'avvento di Frank Ramsey, però, un simile ruolo non c'ìera mai stato.  Ramsey era appena 1,90 ma al college aveva giocato centro a Kentucky, c

HOOPS PORTRAITS - Take it Easy, Ed

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di CHRISTIAN GIORDANO Alto 2,02 ma così esile da non superare gli 85 chili, Edward Charles Macauley tutto aveva tranne che la prestanza fisica da lungo NBA. Ma come uno dei più forti della lega tra gli anni '40 e '50, fu "Easy Ed" a dimostrare che sotto i tabelloni dei pro' c'era posto anche per un pelle e ossa privo di forza bruta, a patto che sapesse muoversi, tirare e trattare la palla come lui. Cosa rara ai tempi, e pure oggi, per un big man .  Originario di St. Louis, nel Missouri, e classe 1928, Macauley aveva frequentato la St. Louis University, e ne aveva stravolto il programma cestistico. Prima del suo arrivo, i Billikens (nick dall’omonimo bambolotto portafortuna immaginato in sogno e brevettato nel 1908 da un'illustratrice di Kansas City, Florence Pretz: un elfo cicciotto con cresta, orecchie a punta e sorriso malizioso) richiamavano al campus, dove a tutt’oggi campeggia la statua di Billiken, non più di quattrocento anime. Prima che

John "Bud" Palmer, il pioniere del jumper in corsa

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di CHRISTIAN GIORDANO Figlio di "Lefty" Flynn (Flynn il mancino), eroe di un western muto ed ex stella del football a Yale, John "Bud" Palmer era destinato a una vita straordinaria. Californiano di Hollywood, classe 1921, e istruito alla boarding school Le Rosey in Svizzera e poi alla Phillips Exeter Academy, fu uno dei primi atleti a diventare un radiotelecronista sportivo di successo. All-American di lacrosse, calcio e basket a Princeton nei primi anni '40, fu sul parquet che trovò imperitura fama come pioniere del jumper in corsa. Il semi-mitologico Angelo Luisetti di Stanford aveva già reso popolare il jump shot, ma "Hank" lo eseguiva da fermo. Palmer invece pensava che il tiro in sospensione potesse essere più pericoloso se fatto partire prima dell'arresto del tiratore. Il suo coach a Princeton, Cappy Capon, lo riteneva troppo rischioso. Quando però si accorse che Palmer la boccia la metteva eccome, coach Capon, che stupido non era, si

Jumpin' Joe Fulks, il padre del jump shot

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di CHRISTIAN GIORDANO A parte rarissime eccezioni (vedi Giannis Antetokounmpo) oggi è quasi impossibile per una franchigia NBA scoprire un grande talento ancora sconosciuto o quasi. Ma nei lontani anni Quaranta, quando scouting e reporting scientifici non erano nemmeno concepibili, poteva succedere, e così andò nel caso di Joe Fulks. Il padre del jump shot. Nato nel 1921 a Kutawa, nel Kentucky, aveva giocato per il locale, minuscolo Murray State Teachers College. Poi, durante la Seconda guerra mondiale, si era arruolato nei Marines per un periodo di ferma di quattro anni. Durante il servizio militare Joe giocò parecchio a basket e poté misurarsi contro numerosi All-American universitari, esperienza che lo convinse di poter ben figurare anche nei pro'. Dello stesso avviso era Petey Rosenberg, ex cestista professionista che lo aveva visto giocare a Pearl Harbor. Rosenberg lo raccomandò (in senso buono) a Eddie Gottlieb, il suo vecchio boss ai Philadelphia Warriors, c