Slater Martin, piccola stella senza cielo


di CHRISTIAN GIORDANO

Molto prima di Calvin Murphy, Spud Webb, Tyrone "Muggsy" Bogues e, sic, Nate Robinson, era stato Slater Martin a dimostrare che nella NBA c’è posto anche per i piccoletti. Purché belli tosti. 

Alla Jefferson High School di Houston, nel Texas, Martin era appena 1,69 quando condusse il liceo a due titoli statali consecutivi, 1942 e 1943.

Al college, autodefinitosi “cannoniere” di 1,77, Martin lasciò i Longhorns della University of Texas dopo esserne diventato il top scorer all-time e col record della Southwest Conference di 49 punti segnati in una partita. Più che le sue medie realizzative, però, ad attirare i pro' era come difendeva. Martin marcava il miglior realizzatore avversario, e pazienza se quello lo sovrastava di quindici centimetri.

Nel 1949 la corazzata Minneapolis Lakers lo arruolò per difendere contro i migliori frombolieri della lega, e poi per ricevere sugli scarichi della superstar, il centro George Mikan, e degli altri lunghi. In quanto a far canestro, poteva scordarselo: da rookie Martin viaggiò a 4 punti di media per gara. I Lakers però vinsero il titolo NBA, il primo dei suoi quattro in sette anni con loro.

Ai tempi “Dugie”, come lo chimavano in spogliatoio, era uno dei primi giocatori NBA a portare le lenti a contatto. Se avesse portato gli occhiali, come invece ha sempre fatto Mikan, magari glieli avrebbero rotti i suoi frustratissimi avversari diretti. Stando ai racconti di Bob Cousy, la marcatura che Martin gli riservava era – per velocità, resistenza e intensità spalmate in 48' – la più dura che avesse mai affrontato.

Mai andato oltre i 14 punti di media, Slater era stato per sette anni in fila un All-Star e per cinque un Secondo quintetto NBA, ma nel frattempo aveva lasciato i Lakers. A fine stagione '56 s'era impuntato per avere più soldi ma Minneapolis, alla disperata ricerca di un lungo per il post-Mikan, lo cedette ai Knicks in cambio di Walter Dukes. Questi, seguendo un patto già concordato, in cambio dell’ala Willie Naulls lo girarono però ai i St. Louis Hawks, diretti rivali dei Lakers nella Western Division.

Per Slater poco cambiava, solo che ora avrebbe dovuto smazzar palla all’altra stella dell’epoca, Bob Pettit. Con quei due a fare il bello e il cattivo tempo e pure il variabile, il proprietario degli Hawks, Ben Kerner, era convinto di vincere tutto. Ma quando, nel gennaio '57, la squadra si ritrovò con un record perdente, perse la pazienza e rimpiazzò coach Red Holzman, futuro bicampione NBA coi Knicks '70 e '73, con Martin, "promosso" all'istante allenatore-giocatore.

Sarebbe stata una grande idea, salvo il fatto che Slater non volesse saperne di allenare. Preferiva concentrarsi sul gioco e dopo appena otto partite minacciò di andarsene se Kerner non si fosse presentato con un (altro) allenatore. Fu poi lo stesso Martin ad appoggiare una soluzione interna proponendo lo scalda-panchina Alex Hannum, che - quando Martin era in campo - gli aveva sbrigato gran parte del lavoro. Kerner accettò, e a sua insaputa aprì la strada a un futuro grande coach.

Hannum sapeva il fatto suo e condusse gli Hawks alle Finali contro Boston, perse a Gara 7 e dopo due supplementari. In quell’occasione Martin restò in campo per tutti i 58' di gioco. L’anno successivo, gli Hawks si presero la rivincita battendo in finale i Celtics e Slater Martin conquistò il suo quinto titolo NBA.

Due anni dopo, nel 1960, chiudendo a 9.8 punti di media, si ritirò. Difesa e voglia di vincere non compaiono negli annali e non sono misurabili, ma chiunque abbia giocato con o contro di lui sa che Slater Martin è stato uno dei piccoli, più feroci lottatori nella storia del basket. 

Quello che in pochi sanno, invece, è che dieci anni dopo quel breve intermezzo da allenatore, Slater in panchina ci riproverà: agli Houston Mavericks della ABA, la lega concorrente della NBA che come Commissioner aveva scelto Mikan. 

La franchigia era del businessman T.C. Morrow e del socio di minoranza Bud Adams, proprietario degli Houston Oilers della American Football League. A Slater, che era di Houston, fu affidato il duplice incarico di general manager e head coach. 

Quando scoprì che Morrow non aveva versato i 30 mila dollari richiesti per iscrivere la squadra, fu Slater - attraverso altri canali - a trovare i soldi. E a pescare nella Eastern Basketball Association (oggi Continental Basketball Association) per racimolare giocatori. Chiusa la mediocre stagione 1967-68 da 29-49 e il quarto posto nella Western Division buono solo per uscire (3-0) in semifinale-playoff contro i Dallas Chaparrals, i Mavericks speravano di convincere le stelline universitarie locali degli Houston Cougars, Elvin Hayes e Don Chaney, che però fiutarono l'andazzo e optarono per la NBA. 

Morrow allora salutò la lega e Mikan, preoccupato per la franchigia di Houston, mandò ai Mavericks diversi giocatori sperando così di attirare tifosi. Martin non prese benissimo l'interferenza fuori canestro dell'ex compagno ai Lakers e dopo un mese di campionato si dimise. Per qualche partita lo sostituì, come allenatore-giocatore, Art Becker, poi subentrò fino a fine stagione Jim Weaver.

Col basket, per Slater, era finita lì. Non però per chi ne custodisce il ricordo. Dal 1982, trent'anni prima di andarsene 86enne nella sua Houston, dov'era nato il 22 ottobre 1925, Slater Martin è l'unico Longhorn nella Hall of Fame di Springfield. E il 31 gennaio 2009, la University of Texas ne ha ritirato il numero 15. La piccola stella ha trovato il suo cielo.

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