Ernie "No D" Di Gregorio, il bel gioco dura poco


di CHRISTIAN GIORDANO

Non è mai accaduto che un giocatore irrompesse nella NBA in modo tanto straordinario quanto repentino come successo a un mago del ball-handling di appena 1.82 che risponde al nome di Ernie DiGregorio. “Ernie D”, prodotto locale uscito da Providence College, aveva già deciso all’età di cinque anni di voler giocare a basket per mestiere. Attraverso ore e ore di allenamento sui playground del vicinato, i suoi sogni sarebbero diventati realtà. Una realtà troppo, troppo effimera.

Nonostante le centinaia lettere di college ricevute Ernie non ha mai neanche considerato l’eventualità di muoversi da casa. Il suo sogno era quello di frequentare lo stesso ateneo dei suoi idoli, le stelle di Providence Johnny Egan e Jimmy Walker. I Friars di coach Dave Gavitt erano quindi per lui una scelta obbligata e in tre anni di varsity DiGregorio, che pure viaggiò a 20.5 punti di media, si costruì una più che rispettabile fama per i sensazionali passaggi e soprattutto per lo splendido ball-handling.

Nel 1973 guidò da senior i Friars a un record di 27-2 e a un posto nelle Final Four. Nel primo tempo della semifinale contro Memphis State Ernie, artefice di ben 18 dei 21 canestri della sua squadra, sciorinò una prestazione-monstre da 17 punti e 7 assist. Uno di quei sette servizi arrivò dopo un passaggio dietro la schiena da una parte all’altra del campo, un lancio di quasi venticinque metri.

All’intervallo i Frati conducevano 49-40, ma nel secondo tempo rimasero senza lungo perché Marvin Barnes si era infortunato a un ginocchio. E quell’incidente costò loro la partita nonostante la serata da 32 punti di Ernie D. Che però ebbe subito modo di consolarsi.

I Buffalo Braves della NBA ne fecero infatti la loro prima scelta al draft vincendo, per assicurarsene i servigi, una vera e proprio guerra al rialzo con i Kentucky Colonels della ABA. La ABA voleva a tutti i costi Ernie perché aveva la sensazione che fosse lui la chiave per strappare un vantaggioso contratto televisivo nazionale. Ernie dal canto suo aveva tutte le intenzioni di giocare nella NBA, ma decise di stare alla finestra e così consentì alle cifre di lievitare fino alla vertiginosa altezza di 2 milioni di dollari per cinque anni.

Ernie D stava per diventare il giocatore più pagato della NBA e annunciò che il suo obiettivo era di guidare la Lega sia negli assist sia nella percentuale dalla lunetta. Qualche scettico lo scherniva, ritenendolo troppo piccolo e lento per farcela a quei livelli, ma Ernie D era sicuro dei suoi mezzi e lo avrebbe dimostrato sul campo. A fine stagione la matricola terribile era prima in entrambe le categorie – unico primo anno a riuscirci – e per lui fu un gioco da ragazzi aggiudicarsi il premio di Rookie of the Year 1974. E il margine sul secondo classificato Ron Behagen, distanziato 115-17 nel computo dei voti, la dice lunga.

Ma la cosa più importante era che Ernie non giocava da solo. Buffalo in un anno aveva raddoppiato il numero di vittorie e per la prima volta aveva ottenuto un posto ai playoff. Ernie D e compagni stavano per centrare l’impresa eliminando i Celtics che invece alla fine la spuntarono in una tiratissima serie conclusasi in sei partite. Boston se l’era vista brutta e grazie soprattutto a DiGregorio che il coach dei Braves Jack Ramsey definì “il miglior passatore che abbia mai visto, con la possibile eccezione di Bob Cousy”. Esagerato? Forse sì, ma non troppo.

Le magie di ballhandling di Ernie ne fecero un beniamino degli appassionati di tutta la NBA e non solo. Time lo ribattezzò «The Italian Leprechaun», il folletto italiano. All'inizio del suo secondo anno nei pro', fu invitato alla Casa Bianca per una cena del nostro presidente della repubblica. Il personaggio Ernie era all'apice della propria popolarità, ma sul piano tecnico il Di Gregorio giocatore aveva legioni di detrattori.  Spesso veniva criticato per lo scarso apporto difensivo. Dean Meminger, uno che avrebbe faticato a segnare in una piscina scoperta, contro di lui straripò: 27 punti. E quando un Jerry West infortunato gliene infilò 47, un giornalista di Los Angeles lo marchiò per sempre etichettandolo con l'immortale «Ernie No D». D, ovvio, stava per Defense, la difesa.

Difendere, del resto, era compito che mai era andato giù. E comunque, per tanti osservatori, sulla sua bilancia a pesavano di più i punti segnati che quelli concessi. 

Sempre nella seconda stagione subì un infortunio a un ginocchio che gli costò gran parte del torneo. Al rientro, l'anno dopo, non era più lui e finì riserva. Imbronciato in fondo alla panchina, subiva le ire e gli sfottò dei tifosi ma lui non aveva colpe. Giocò di più (quasi un tempo a partita) la stagione successiva, ma poi, con 27 presenze nei Braves nel 1977-78 e ancora un anno di contratto, fu praticamente regalato ai Lakers. Nonostante le appena 25 presenze in gialloviola, ebbe un'ultima chance - come free agent - ai Celtics, ma di fatto smise di giocare, anche se il ritiro ufficiale arrivò nel 1981.

Nel 1999 è stato nominato nella National Italian American Sports Hall of Fame e dall'ottobre 2015 è "director of community relations and fan enhancement" per i Buffalo 716ers della ABA, con il duplice obiettivo - parole sue - «di costruire un brand e di essere il volto della franchigia».

L'infortunio al ginocchio e l'avvento di guardie più veloci e più prestanti ne avevano stroncato la carriera prima ancora che fosse cominciata. Come il suo gioco, un sogno troppo bello per durare. 

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