HOOPS PORTRAITS - I ferri del mestiere di Halbrook
di CHRISTIAN GIORDANO
Wade “Swede” Halbrook, 2.19 per 107 kg, approdò tardi nella NBA, a ventisette anni, ma il suo segno lo lasciò eccome.
Ingaggiato dai Syracuse Nationals nel 1960 e propagandato – su insegne e cartelloni pubblicitari – come “il più alto giocatore di basket del mondo”, Halbrook, una sorta di Rik Smits ante litteram, all’epoca era davvero il più alto giocatore di sempre nella storia della lega, ma il suo soprannome, lo Svedese, era, in effetti, del tutto improprio date le sue origini tedesco-olandesi.
Halbrook fu uno dei personaggi più insoliti della NBA. Anticonformista, timido e introverso, aveva come hobby quello di lavorare a maglia (!), innocuo diversivo che, a suo dire, lo aiutava a rilassarsi. Tra lo sconcerto di compagni di squadra e dirigenti dei Nats, portava con sé in trasferta ferri e gomitoli, ma alla fine, per tutta una serie di scherzi e sfottò, dovette smettere di usarli. Perlomeno in pubblico, perché nella privacy della sua stanza d’albergo, o in via eccezionale in occasione di qualche banchetto particolarmente noioso, Swede si dilettava nel tirar fuori i suoi ferri per sferruzzare qualche punto. Se dritto, rovescio, riso o a coste, non è dato sapere.
Halbrook era una persona estremamente riservata e cortese ma decisamente poco cooperativa con quei giornalisti che cercavano in tutti i modi di farlo sbottonare un po’. Si vestiva in modo casual e ai completi in giacca e cravatta preferiva una più spartana camicia sportiva. Da alcune fonti non si sa se e quanto attendibili si era saputo che da giovane aveva patito psicologicamente il fatto che la sua famiglia non potesse permettersi di vestirlo come si deve, con abiti della sua misura.
Swede trascorse solo due stagioni nella NBA, come centro di riserva di Syracuse. Giocando dai dodici ai quindici minuti a partita Halbrook ebbe di media 5.5 punti e 7 rimbalzi cercando di tenere botta difensivamente contro autentici califfi del calibro di Bill Russell e Wilt Chamberlain. Qualche tifoso di Syracuse lo acclamava indicandolo come “The People Choice”, la scelta della gente, ma altri lo ricoprivano di “buuu” perché non riusciva a sfruttare appieno la sua enorme statura.
Poi c’erano quelli che lo accusavano di essere pigro. Per riuscire a farlo giocare più duro, in qualche occasione coach Alex Hannum minacciò di lasciarlo libero. E alla fin fine, anche quando dava tutto, Halbrook era troppo lento per farcela nella Lega. Ma la sua parentesi nella NBA non fu per Swede la prima ribalta nazionale.
Figlio di genitori alti “appena” 1.84 (il padre) e 1.74, Halbrook crebbe a Portland, nell’Oregon, fino a raggiungere i 2.12 già all’età di sedici anni. L’allenatore della squadra del liceo lo convinse a presentarsi agli allenamenti di basket e Halbrook, da senior, guidò la formazione alla conquista del titolo statale nel 1952. In una partita segnò addirittura 71 punti e al termine del liceo nella sua cassetta della posta contò la bellezza di settantacinque (!) offerte di borse di studio, il massimo di sempre per una giovane promessa del Northwest.
Halbrook scelse però di restare vicino a casa e così frequentò Oregon State, dove una confraternita locale gli procurò un letto su misura lungo otto piedi (2.32). La squadra viaggiava su un treno a (si fa per dire) cuccette che la Union Pacific aveva costruito appositamente per Halbrook e compagni. Quelle piccole, ma grandi (in tutti i sensi) attenzioni diedero i loro frutti: nella sua prima stagione con la varsity Swede infranse il record dell’ateneo per segnature in una stagione. Col tempo Halbrook imparò a tirare di gancio sia con la mano destra sia con la sinistra e migliorò il tiro in sospensione. Malgrado la cronica mancanza di velocità di piedi Halbrook era ben coordinato, e migliorava rapidamente.
Nella sua seconda stagione Halbrook fu All-American, trascinando a 21 punti e 13 rimbalzi di media Oregon State al titolo della Pacific Coast Conference. Nei West Regionals, OSU perse di un punto contro la San Francisco poi campione NCAA. Ma lì si chiuse la carriera universitaria di Halbrook.
In quanto a curriculum accademico, Swede giocava dentro/fuori coi guai sin da quando era arrivato al college. E a un certo punto fu sospeso dalla squadra per aver saltato delle lezioni.
Come ha raccontato a Sports Illustrated un membro della facoltà: “Nessuno di noi potrà mai ricordare di aver visto Wade sorridere. La vita sembrava essere un gran brutto affare per lui”. Forse perché in vita sua il povero Wade ne aveva viste troppe.
Halbrook lasciò il college per andare ai Wichita Vickers della National Industrial Basketball League dove giocò per cinque anni prima di approdare nella NBA. Se mai avesse posseduto la stoffa per sfondare nella Lega, il suo tempo era già passato. E anche in fretta, visto che nel giro di due anni si ritrovò a piedi.
Il suo nome rispuntò nelle pagine sportive nel maggio 1988, quando il suo necrologio comparve sui giornali di tutto il Paese. Swede era morto per un attacco di cuore mentre era alla guida di un pulmino, a Portland. A cinquantacinque anni di età il gigante di 2.19 si guadagnava da vivere lavorando nell’edilizia. Forse è vero, alla vita Wade non sorrideva mai. Ma di sicuro la vita non gli mai ha sorriso.
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