Johnny Green, The Jumpin’ Machine


di CHRISTIAN GIORDANO

Jumpin’ Machine: perché su quelle molle che aveva per gambe ci ha costruito una carriera. E che carriera: 14 stagioni e mille partite in NBA tra Kansas City Kings e Cincinnati Royals. 

Originario di Dayton, Ohio, dov’è nato l’8 dicembre 1933, a basket aveva giocato zero alla Paul Laurence Dunbar high school. E prima di andare al college a vent’anni, durante la guerra di Corea (perché guerra vera è stata) si era arruolato nei Marines. Prima, aveva lavorato in una pista di bowling, poi per una ditta di costruzioni e infine come addetto in una discarica. Dettaglio non trascurabile: ancora non arrivava al metro e ottantadue, ma saltava. Oh, se saltava. 

Durante la leva crebbe fino a 1,94 e nel 1954 entrò nella squadra di basket della base militare USA di Atsugi, in Giappone. «Una sera stavo facendo qualche tiro a canestro e incrociai Tom Foster, l’allenatore di basket della base. Mi chiese se mi sarebbe piaciuto far parte della squadra. «Io? Magari», gli risposi. Così, almeno, il futuro “Green Jumpin’ Machine” l’avrebbe poi raccontata a MSU Magazine, la rivista ufficiale di Michigan State. 

Green fu presentato all'allenatore della squadra di football della base, Dick Evans, che gli chiese di provare a schiacciare. Green ci riuscì al secondo tentativo. Evans, che aveva giocato a football negli Spartans dei tempi d’oro, scrisse una lettera di raccomandazione (in senso buono) a Forddy Anderson, il nuovo coach del basket a MSU. E una volta in licenza, nell’ottobre 1955, Green andò a fargli visita al campus. Di lì a breve le cose, per Johnny e gli Spartans, sarebbero cambiate per sempre. 

Nel 1957, a 23 anni, Green entra come ala e walk-on (senza borsa di studio) in prima squadra agli Spartans, che guida con 14,6 rimbalzi di media al titolo della Big Ten conference ex aequo con Indiana e alla prima Final Four NCAA nella storia dell’ateneo. Al Municipal Auditorium di Kansas City, però, MSU perde 74-70 la semifinale con i futuri campioni di North Carolina e 67-60 la finale per il terzo posto con i San Francisco Dons senza più Bill Russell. 

La stagione successiva le sue medie salgono a 17,8 rimbalzi e 18 punti per gara, l’anno dopo ancora – a 18,6 rimbalzi per gara sarà MVP (ufficioso) della Big Ten e di nuovo campione di conference. Era nata una stella. La gente lo chiamava “The Human Pogo Stick”, e non serve spiegare perché. 

Scelto con la quinta pick dai New York Knicks al primo giro del draft NBA 1959, aveva già 26 anni quando stabilì con 25 rimbalzi a partita il record di franchigia per una matricola. Coach Fuzzy Levane era convinto di avere per le mani il miglior rimbalzista nella storia della squadra e uno dei migliori della lega, anche se Jumpin’ Johnny doveva saltare contro gente di venti centimetri più alta. Per due volte nei primi sette rimbalzisti NBA, oltre che nel tirar giù palloni Green era bravissimo anche nel dettare i tempi del contropiede. Era però “solo” un ottimo specialista che si accontentava del proprio ruolo. Conscio dei suoi limiti offensivi, specie da fuori, tirava poco e malvolentieri, ma questo non gli impediva di contribuire anche in attacco. Nel 1963 chiuse da miglior rimbalzista e dei suoi e con 18 punti di media. Ma i Knicks avevano bisogno di un centro dominante e così, per arrivare a Walt Bellamy, il 2 novembre 1965 lo cedettero ai Bullets assieme alla guardia Johnny Egan e all’ala/centro Jim Barnes più un robusto conguaglio. 

Lasciati i Knicks dopo sette stagioni e tre All-Star Game, il motore della Green Jumpin’ Machine cominciava a perdere colpi, e il suo minutaggio a calare. Idem le sue cifre. 

Preso dagli allora San Diego Rockets nell’expansion draft del 1967, fu poi girato ai Philadelphia 76ers e infine lasciato libero durante il training camp del 1969. Ai Knicks viaggiava sui 13 punti di media, ma ai Sixers del ’69 era sceso ai 4.8 per gara. 

Green aveva ormai trentacinque anni, e alle spalle dieci stagioni NBA. L’addio sembrava scontato, ma non per lui. Nel settembre 1969 telefona per un tryout a Bob Cousy, all’epoca coach di Cincinnati. Il provino non è granché, ma la leggendaria guardia dei Celtics anni cinquanta ci vede comunque «un trascinatore che poteva partire dalla panchina e dare una scossa alla squadra». Lo firma come free agent e gli tira fuori un primo anno da 15,6 punti e 10,8 rimbalzi a sera, la miglior percentuale al tiro nel torneo (55,9%) e un ruolo da titolare nel running game dei Royals. Non male il season-high di 32 punti l’11 marzo contro i Celtics e il filotto a 23,5 di media nelle ultime sette. Il magico Cooz gli aveva allungato la carriera ma Green lo aveva ricambiato con gli interessi. 

Nel 1970-71, a 37 anni (il più anziano nella lega) vive quella che secondo lui è la sua miglior stagione, chiusa a 16,7 punti e 8,7 rimbalzi di media e con il quarto All-Star Game in carriera. E per il secondo anno in fila, grazie alla lucidità nel concedersi solo buoni tiri, è sua la miglior percentuale al tiro del campionato: 58,7%, davanti a Lew Alcindor dei Milwaukee Bucks e Wilt Chamberlain dei Los Angeles Lakers. Il clou il 20 dicembre, con una delle sue milgiori prestazioni di sempre: career-high di 39 nella vittoria di un punto al doppio overtime sui Detroit Pistons. 

Nel 1971-72, a 38 anni, gioca tutte e 82 le partite di regular season e raccoglie 9,8 punti e 6,8 rimbalzi per gara. Sentendo ancora parecchia elasticità nelle molle, Johnny non si preoccupa troppo quando, nel marzo 1973, con i Royals – già trasferitisi e rinominatisi Kansas City-Omaha Kings – deve operarsi a un ginocchio. Fin lì il suo contributo era stato ancora rilevante: 7,1 punti e 5,5 rimbalzi in 19’ di media. A 39 anni, e convinto di averne ancora un paio da spendere, lavora duro durante la rieducazione, ma durante il training camp viene spesato. La sua parabola si esaurisce lì, dopo un quadriennio ai Royals/Kings da 12,4 punti e 8 rimbalzi a partita. 

Ritiratosi con il secondo (all'epoca) record di longevità dopo quello di Hal Greer, e come terzo di sempre con almeno mille partite nella lega, Johnny Green a suo modo era stato un precursore. Con il suo stile di gioco ad alta quota aveva tratteggiato il futuro. In quel cesto non più di pesche ci si poteva anche schiacciare.

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