HOOPS MEMORIES - Kermit e Rudy, due vite in pugno
Christian Giordano ©
THE PUNCH
Kermit & Rudy T, due vite in pugno
Rainbow Sports Books © - kindle store - 3,99 euro
La sera del 9 dicembre 1977, in un Los Angeles Lakers-Houston Rockets di regular season, «il pugno più devastante nella storia dell’umanità» cambiò la storia di due vite e dell’intera NBA.
Per quel pugno Rudy Tomjanovich rischiò di morire, e Kermit Washington non ha ancora smesso di scontarlo.
di CHRISTIAN GIORDANO ©
I tabelloni. Si è sempre preoccupato di quelli, Rudy Tomjanovich. E la mattina del 9 dicembre 1977 non era stata diversa dalle altre di un normale giorno di partita. Durante la seduta di shootaround, al “Fabulous Forum” di Inglewood, California, dove di lì a poche ore i suoi Houston Rockets avrebbero affrontato i Los Angeles Lakers, si era fermato a fissarli, prima uno e poi l’altro, per controllare che fossero ben saldi, sicuri.
«Ci pensavo sempre quando ancora il palazzetto era vuoto – dirà 25 anni dopo il fattaccio che avrebbe irreversibilmente cambiato troppi destini, il suo, quello del suo aggressore e quelli dei loro cari, oltre che l'intero basket professionistico – Non so perché ma ho sempre avuto paura che un giorno o l’altro quei dannati “cosi” si sarebbero schiantati sul parquet a partita in corso».
La sera stessa, il brutto presagio si sarebbero avverato. O almeno questo è quanto l’allora ala di Houston percepì prima di perdere conoscenza e ritrovarsi con una vita che non era più la sua. A stravolgergliela, per usare le parole di Jack McCloskey, all’epoca assistant coach dei Lakers, fu «il pugno più devastante nella storia dell’umanità». Il destro di inaudita potenza che Kermit Washington aveva appena sferrato a Rudy T.
Primo minuto del terzo periodo, i Rockets si portano avanti di due, 57-55, sbloccando il risultato di parità sul quale si era arrivati all’intervallo. Tomjanovich sembra in serata: 9 su 14 dal campo e una sicurezza tale da far chiedere agli astanti come mai quel jumper quasi impeccabile, uno dei più “dolci” nell’intera NBA, fosse andato fuori bersaglio “già” cinque volte.
Sul ribaltamento di fronte, i Lakers sprecano il possesso sbagliando in sospensione e Kevin Kunnert, centrone di Houston di 2.12, arpiona il rimbalzo. A quel punto Rudy scatta istintivamente in avanti, verso la parte destra del campo, sapendo che Kunnert avrebbe servito il play John Lucas per cercare di prendere d’infilata la difesa gialloviola. Tomjanovich guarda Lucas per capire se questi gli passerà il pallone, poi sente un fischio provenire da dietro e si ferma. Voltatosi, si accorge che a metà campo Kunnert viene colpito da dietro da Kareem Abdul-Jabbar, poi scorge di sfuggita, senza capire bene di chi si tratti, un altro Laker che, spalle rivolte verso Rudy, stava per tirare un cazzotto a Kunnert. Quando il colpo va a segno Kevin si piega su un ginocchio e Tomjanovich, visto il compagno in difficoltà se non altro per l’inferiorità numerica, si precipita a tutta velocità in direzione di quella che sembra, al momento, solo una delle mille scaramucce che scoppiano sotto le plance. «Tutto ciò che sapevo», dirà in seguito, Tomjanovich «era che uno dei miei era nei guai. Così mi sono precipitato, ma non saprei dire che cosa avrei fatto una volta giunto là».
Probabilmente sarebbe intervenuto per interromperla, quella scaramuccia, dato che vi era arrivato sì a tutta velocità, ma tenendo le braccia basse e quindi, presumibimente, con la sola intenzione di bloccare il non meglio identificato avversario (Kermit Washington, nda) che aveva colpito Kunnert e portarlo via, proprio come Abdul-Jabbar sembrava stesse facendo proprio con Kunnert, colpevole agli occhi di Washington di avergli fatto assaggiare con maligna premeditazione entrambi i gomiti.
Del resto è così che la maggior parte degli scontri cominciavano e finivano: un gomito alzato, una parolina di troppo, qualche colpo proibito, un pugno o due, poi di solito a prevalere erano gli spiriti meno bollenti.
Tomjanovich era sempre stato fra questi e la sua carriera era lì a testimoniarlo. Il suo amico e compagno di stanza Calvin Murphy, 1.74 per 73 kg di adrenalina pura, no: tutt’altro. Anche Murphy stava correndo indietro verso la rissa e Tomjanovich, che lo conosceva bene, era sicuro che se Murphy fosse arrivato per primo, di certo non sarebbe stato per fare da paciere. Rudy era lanciato a tutta velocità quando raggiunse il centro del campo e fu in quel preciso istante che gli crollò addosso il “tabellone”. Un tabellone di nome Kermit Washington.
«Tricky, che cosa è successo?». Che si trovasse riverso in una pozza di sangue, il suo, Tomjanovich lo aveva capito. Anche perché piegato su di sé aveva Dick “Tricky” Vandervoort, il trainer dei Rockets, che gli premeva sul volto un asciugamano nel tentativo di stagnarne il sangue che gli zampillava a fiotti dal naso. Quello che al frastornatissimo Tomjanovich non era ben chiaro era cosa – anziché chi, nda – lo avesse colpito, magari si trattava proprio di uno dei tabelloni che tanto lo preoccupavano prima delle partite, «quando il palazzetto era ancora vuoto».
«Resta giù, Rudy» gli ripete Vandervoort. Ancora stordito, Tomjanovich si tira su un po’ e la prima persona che vede è l’attore Walter Matthau, seduto in prima fila. Poi ripete la domanda alla quale Vandervoort non aveva risposto: «Che cos’è successo, Trick, mi è caduto addosso il tabellone?»
«È stato Kermit a colpirti».
“Kermit” era appunto Washington, ala forte di 2.02 (stessa statura di Rudy) cui le media guide stagionali assegnavano gli abituali 110 kg di muscoli, messi su in anni di massacrante lavoro in sala pesi, e non gli effettivi 100 a cui era sceso in seguito le interminabili ore di riabilitazione trascorse in off-season dopo l’intervento chirurgico al ginocchio subìto la stagione precedente. Differenze di peso a parte, Washington era uno degli uomini più grandi e grossi della lega e, solo in campo, uno dei più “aggressivi”.
Washington, il Laker che Tomjanovich non era riuscito a distinguere, sentendo il rumore dei passi e scorgendo con la coda dell’occhio il colore della maglia di chi si stava avvicinando – quindi senza sapere né di chi si trattasse né quali intenzioni avesse – aveva agito d’istinto: si era girato di scatto e aveva lasciato partire, “aprendo” tutto il braccio, un pugno dalla potenza, in senso letterale, inaudita. Il rumore sordo del colpo fu tremendo almeno quanto l’«assordante» silenzio che ne seguì. «Sembrava che qualcuno avesse colpito un muro con una mazza da baseball» (Abdul-Jabbar) o il suono di «cocomero lasciato cadere sul cemento» (John Radcliffe, statistico ufficiale dei Lakers, che però per la metafora ricorse al melone). «Nessuno aveva mai sentito un suono simile per un pugno – rammenta Thomas Bonk, all’epoca inviato dello Houston Post – si sentì fino su in tribuna stampa. Una cosa impressionante».
Tomjanovich crollò subito a terra esanime, battendo violentemente la testa. «L’ultima cosa che ricordo è che mi trovavo steso sul parquet,» racconterà una volta ripreso conoscenza «e con un continuo ronzio nelle orecchie. Ricordo di aver pensato che davvero doveva essermi caduto addosso il tabellone». In buona probabilità, gli avrebbe fatto meno male: l’ala dei Rockets si ritrovò con naso e bocca orrendamente deturpati, una mascella fratturata, un trauma cranico (causato dal violentissimo impatto col parquet), la mandibola superiore disallineata e una fuoriuscita di liquido spinale. «Pensavo fosse morto», pensò Don Chaney, all’epoca compagno di squadra di Washington. «Fu spaventoso».
Tomjanovich era in pericolo di vita, ma nessuno ancora se ne era reso conto. Per fortuna il pronto intervento di Vandervoort e il sesto senso del medico della squadra, evitarono il peggio.
- Walter Cronkite
Lo scandalo e il conseguente polverone che ne seguì furono enormi. Per indagare sul “caso” fu scomodata persino l’icona dei reporter di guerra, Walter Cronkite. E il boccone era troppo ghiotto per non far scoppiare le solite polemiche legate al fatto che, se non fosse stato un nero a colpire un bianco, la notizia sarebbe valsa al massimo un’«apertura» delle pagine e dei servizi sportivi anziché cinque lustri di highlights ripetuti fino alla nausa, del resto mai come stavolta giustificata.
Che l'enforcer sia con voi
Ai tempi, fine anni Settanta, la NBA era una lontana parente di ciò che è oggi, in tutti i sensi. I soldi erano sempre tanti, ma non tantissimi; la tv via-cavo era agli albori e anche se fosse stata all’avanguardia, era il basket pro a non godere di sufficiente appeal per conquistarla; e inoltre in campo le risse si sprecavano: solo nella stagione 1976-77, erano state 41 quelle che avevano portato a un’espulsione. Si era così consolidata la figura dell’«enforcer» e cioè di un intimidatore – meglio se robusto e “cattivo” – la cui funzione primaria era quella di svolgere il lavoro sporco fatto di contatti, blocchi, palle recuperate e, soprattutto, di fare da gorilla ai compagni più vulnerabili o semplicemente più tartassati dagli avversari. Nei Lakers il suo compito era quello di proteggere Abdul-Jabbar, che soffriva a tal punto certe “cure” che quando reagiva – come gli era capitato con il centro Kent Benson, matricola dei Milwaukee, nella prima gara stagionale – non solo era stato multato di 5000 dollari ma aveva anche dovuto saltare 20 partite (che i Lakers scontarono con un pessimo avvio, 9-14) per la frattura a una mano. Il Commissioner della NBA, Larry O’Brien, poi, non aveva voluto infierire, risparmiandogli la squalifica solo perché allo scopo avrebbe provveduto la lunga assenza dovuta all’infortunio.
Washington, il prototipo della power forward dell’epoca, poco talento offensivo ma grinta e durezza a volontà, divenne immediatamente «il nemico pubblico numero uno» come egli stesso si definì negli anni a venire. La lega gli comminò una multa di 10 mila dollari e 60 giorni di squalifica (26 partite) durante i quali non avrebbe percepito lo stipendio: fatta una rapida botta di conti, un pugno da 60 mila dollari, come minimo.
Los Angeles, che tra l’altro ce l’aveva con la NBA che ancora una volta non aveva punito i “provocatori” (prima Benson, ora Kunnert) lo scaricò cedendolo a Boston, e per il resto della carriera, sia da giocatore, sia da allenatore, la Lega lo emarginò, perché nessuno voleva avere a che fare con «l’uomo che con un pugno aveva quasi ammazzato Rudy Tomjanovich». «Fu terribile e logorante» ricorda Kermit, il quale ha sempre sostenuto di aver agito d’istinto, senza capacitarsi del perché mai «quell’ombra (Tomjanovich, nda) si fosse messa a correre verso di me. Mi sentivo come se stessi per uscire dall’auto e qualcuno mi stesse aggredendo per portarmela via. Non riuscivo più a dormire». Figuriamoci Tomjanovich, al quale, nella stanza d’ospedale dove era stato ricoverato d’urgenza e rimasto per due settimane, avevano messo degli asciugamani sullo specchio per impedirgli di vedere in che stato Kermit gli aveva ridotto la faccia. Una faccia che per essere ricostruita necessitò di cinque interventi chirurgici.
La psicosi di cui Kermit soffriva aveva radici lontane, risalenti all’infanzia nel ghetto della capitale, dove era nato il 17 settembre 1951. «La prima cosa che impari lì – dirà amaro il secondo figlio di Alexander e Barbara – è che quando sei nei guai devi per prima cosa cercare di avere alle spalle un muro che ti protegga, poi cominci a menare le mani e solo dopo, casomai, ti metti a chiedere spiegazioni».
Disgraziatamente per lui (e soprattutto per Tomjanovich), sul parquet muri non ce ne sono; l’unica arma è l’istinto, ma se ad affinarla è stata un’infanzia poverissima, per di più vissuta in un contesto socialmente difficile (con la madre spesso ricoverata in istituti per curare una sindrome maniaco-depressiva e altri disturbi mentali, Chris, il figlio maggiore, e Kermit Alan erano cresciuti nella casa della durissima nonna materna), anziché guidarti quell’istinto può portarti a compiere danni irreversibili. E all’autodistruzione.
Dal ghetto al gotha
Quando papà Alexander aveva sposato in seconde nozze un’altra Barbara, che dei ragazzini del marito non voleva saperne, i Washington si erano trasferiti al 237 di Farragut Street N.W., un quartiere dominato dalle gang di strada. Le più temibili erano a Riggs Park e a Decatur Street. Da quelle parti, specie se sei nero e povero (e laggiù ci abiti solo se soddisfi entrambi i “requisiti”), «è già tanto se arrivi a ventun anni» perché, spiega Kermit, «finisci ucciso nelle lotte fra bande, dalla droga o dalla polizia. Io sono stato fortunato».
Proprio in un ambientino come quello Kermit era stato aggredito, da ragazzo, da alcuni delinquentelli del quartiere. In una rissa di strada, in due lo avevano tenuto fermo mentre un terzo lo gliele dava di santa ragione. Nella NBA, a Buffalo, poche partite dopo l’episodio che aveva coinvolto Abdul-Jabbar e Benson, uno dei Braves lo aveva colpito da dietro durante una mischia selvaggia. Consequenziale, e umana ancorché non condivisibile, la spropositata reazione che ebbe dopo lo scambio di convenevoli iniziato da Kunnert: per Kermit subire una cosa del genere per la terza volta sarebbe stato troppo.
Nel 2002, quindici anni dopo il breve precedente di Sacramento del 1987, e a venticinque anni da “The Punch”, come viene ormai universalmente chiamato quell’orribile episodio, i corpi di Washington e Tomjanovich si toccano di nuovo, pelle contro pelle: ma stavolta solo per stringersi la mano. L’occasione è, forse, poco più di una coincidenza: il coach di Houston era lì per visionare il cinesone Yao Ming e per concedere un provino a Sonny Watson, 25enne talento scoperto l’anno prima da Kermit in Cina, dove era arrivato come consulente tecnico.
L’ambiente, dopo qualche comprensibile titubanza, si scioglie un po’ e Washington riesce persino a scherzare dicendo che l’assistente allenatore di Rudy ai Rockets, Larry Smith, ancora lo guardava in cagnesco. «Quando nella vita ti capita una cosa come questa,» dirà Tomjanovich ai giornalisti convenuti a Oakland, California, per l’occasione «è ovvio che ti lasci delle cicatrici, fisiche e psicologiche. Le prime dopo un po’ non fanno più male. Ci pensano la natura e le medicine a guarirle. Le seconde, invece, te le porti dentro per sempre».
Rudy T oggi è guarito tre volte: dai postumi dell’«incidente» con Washington; dai problemi di alcolismo che, nonostante i precedenti del padre, è difficile ritenere estranei a quell’episodio; e da un tumore alla prostata. Tomjanovich, facendo un grande lavoro su di sé, Kermit è riuscito a perdonarlo.
Washington ora dovrebbe fare altrettanto con se stesso, magari smettendo di prendersela con Kunnert per le gomitate che avevano scatenato il pandemonio; di macerarsi sui perché e i percome Tomjanovich gli si era avvicinato a gran carriera alle spalle per sedare la rissa; e di sentirsi ghettizzato dal mondo del basket che, a suo dire, non vuole farlo lavorare. Magari non servirà per dimenticare, perché la storia verrà sempre fuori ogni qualvolta nella lega succederà qualcosa, ma a trovare un po’ di pace interiore forse sì. E nessuno più di Rudy T e Kermit la merita.
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