MAESTRI DI BASKET - Rudy Tomjanovich, il cuore in pugno
«Those guys are like cockroaches.
You keep trying to step on them,
but they always scurry away and come back.
They have the heart of a champion»
- Kevin Johnson
«I have one thing to say to those non-believers:
Don't ever underestimate the heart of a champion»
- Rudy T
di CHRISTIAN GIORDANO ©
Da giocatore ha raccolto meno di quanto il buon talento offensivo e soprattutto la straordinaria etica lavorativa avrebbero lasciato pensare.
Ingiustamente ricordato più per il famigerato pugno sferratogli da Kermit Washington che per le innegabili doti cestistiche, Rudolph Tomjanovich Jr (24-11-1948) – per tutti, per sempre Rudy T – è stato un’ala di 2.02 per 99 kg dal jump shot vellutato che completò la sua carriera a Michigan con 25.1 punti e 14.4 rimbalzi a partita.
Pete Newell lo scelse per gli allora San Diego Rockets come seconda scelta assoluta al Draft NBA del 1970, dietro Bob Lanier di St. Bonaventure (andato ai Detroit Pistons) ma davanti a Pete Maravich di Louisiana State (Atlanta Hawks) e a Dave Cowens di Florida State (Boston Celtics).
Da rookie raccolse appena 5.3 punti e 4.9 rimbalzi di media, ma solo perché coach Alex Hannum, impiegandolo col contagocce, aveva intrapreso un’autodistruttiva guerra di potere con il management, in particolare con Newell, che più di tutti aveva creduto nel talento offensivo e soprattutto nella straordinaria etica lavorativa di quel ragazzo che aveva fatto la fame a Hamtramck, Michigan: il papà di Rudy, calzolaio spesso disoccupato, manteneva la famiglia grazie anche al sussidio pubblico.
Partito Hannum, Tomjanovich esplose: 15 punti e 11.8 rimbalzi di media, prima di dieci stagioni in doppia cifra nei punti.
Cinque volte All-Star, da giocatore non ha mai vinto quell’anello conquistato poi due volte da allenatore dei suoi amati Rockets.
In campo invece lo sfiorò nella finale del 1981, il suo ultimo anno prima del ritiro, contro i fortissimi Boston Celtics del giovane Larry Bird.
Le soddisfazioni migliori se le è prese da coach, regalando ai Rockets (dove era tornato nel 1991) i due titoli lasciati per strada dai Bulls privi di Michael Jordan, nel 1994 e 1995, agli USA il titolo olimpico di Sydney 2000 e infine diventando il 16º head coach nella storia dei Los Angeles Lakers, la franchigia contro la quale, ventisette anni prima, aveva vinto una causa (da 3,25 milioni di dollari poi transati a due per evitare il ricorso in appello) che mai avrebbe voluto intentare.
Su quella panchina durò 43 partite del quinquennale da 30 milioni firmato dalla stagione 2004-05. Poi era rimasto nella franchigia, assieme al figlio Trey, nel dipartimento di scouting e analisi, prima di rassegnare le dimissioni – per motivi di salute fisica e mentale a metà della stagione 2016-17. Con l’insediamento della gestione Magic Johnson-Rob Pelinka, e le dimissioni di Yuju Lee, ex direttore dell’area analisi, era chiaro che in gialloviola stava per cominciare una nuova èra.
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