KERMIT WASHINGTON - Due uomini in pugno
di DANIELE VECCHI
Old Timers - Quando la NBA era lʼAmerica
Un pugno in faccia. A segno. Un pugno in faccia. Mancato. Chi non ha mai preso o dato un pugno in faccia? Chi non ha mai sperato di dare un pugno in faccia? Chi non ha mai almeno pensato che il proprio interlocutore meritasse un pugno in faccia? Chi non ha mai bramato e voluto, anche solo nei più remoti angoli della psiche, avere la forza mentale di riuscire a dare un pugno in faccia? Espressione di lotta animale, selvaggia, istintiva, di adrenalina che ti fluisce in corpo allʼimpazzata, di agonismo allo stadio più elevato ed esasperato.
Old Timers - Quando la NBA era lʼAmerica
Un pugno in faccia. A segno. Un pugno in faccia. Mancato. Chi non ha mai preso o dato un pugno in faccia? Chi non ha mai sperato di dare un pugno in faccia? Chi non ha mai almeno pensato che il proprio interlocutore meritasse un pugno in faccia? Chi non ha mai bramato e voluto, anche solo nei più remoti angoli della psiche, avere la forza mentale di riuscire a dare un pugno in faccia? Espressione di lotta animale, selvaggia, istintiva, di adrenalina che ti fluisce in corpo allʼimpazzata, di agonismo allo stadio più elevato ed esasperato.
Dopo il pugno a tutto braccio sferrato (mancando il bersaglio) da Shaquille OʼNeal in direzione di Brad Miller, si è fatto un gran parlare su quali sarebbero state le conseguenze sul giocatore dellʼIndiana se la sventola di Shaq fosse andata a segno.
Quel tifoso dei Pistons che, dopo la bagarre scatenata da Ron Artest fra i seggiolini del Palace di Auburn Hills, si è arrabbiato e si è sentito offeso per quella invasione da parte dei giocatori dei Pacers e si è presentato a sua volta sul parquet credendo di poter affrontare face to face Ron Artest, si è poi accorto a proprie spese quanto possa essere incredibilmente dura e dolorosa la vita di chi subisce un pugno in faccia.
Un gruppo underground italiano degli anni passati cantava «bruciano gli schiaffi a chi li prende e a chi li dà». Figuriamoci quanto brucia un pugno.
Nove dicembre 1977, nella NBA già qualcosa stava cambiando. Ai vertici si pensava in grande, ci si rendeva conto che si aveva in mano un business dallʼimmenso potenziale, se solo ci fossero stati i personaggi giusti da “vendere”, da reclamizzare, da promuovere, da sponsorizzare.
Cʼera già Julius “Doctor J” Erving, che si contraddistingueva con le sue mirabolanti giocate e aveva un pubblico tutto suo, ma di personaggi così ce ne volevano altri, bisognava portare più gente alle partite, più giovani e bambini, la NBA doveva essere un prodotto a 360 gradi capace di coinvolgere tutti, sia alla partita sia fuori, comprando gadget, materiale ufficiale e diffondendo il più possibile il marchio.
Ciò si poteva fare solo eliminando le bieche risse tra giganti in mezzo al campo. Mantenere il gioco duro, ma senza andare oltre, senza sconfinare nelle scontro fisico a gioco fermo. Si aveva il sentore che i Magic Johnson, i Larry Bird, i Michael Jordan fossero ormai imminenti, e in futuro sarebbero arrivati i Kobe Bryant e i LeBron James – campioni esportabili in ogni angolo degli Stati Uniti e nel mondo intero, di pari passo con il crescente potere della televisione – potessero essere un affare che valeva milioni e milioni di dollari. E in questo senso la NBA stava sperimentando nuovi metodi di «limitazione dei problemi» in campo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta e parzialmente anche negli anni Settanta, le bench clearing brawls erano allʼordine del giorno. La regola-base non scritta delle squadre e dei giocatori NBA di vecchio stampo era «se devi scatenare una rissa, quella sera assicurati di trovarti di fronte alla tua panchina, e se sei in trasferta, di stare il più possibile vicino al centro del campo, onde evitare estemporanei schiaffi da qualche facinoroso e temerario tifoso (a quel tempo assai numerosi)».
Risse tra giocatori, allenatori e panchine erano la norma fino agli anni Settanta, quando piano piano le sanzioni cominciarono a essere (moderatamente) più severe. Niente di speciale, una blanda multa e un rimprovero, ma in confronto alla totale impunità degli anni Sessanta, era già qualcosa. Mancava un pretesto vero per dare un segnale forte e chiaro, per fare finalmente in modo che la lega fosse universalmente conosciuta come dura e pura, dove il gioco era leale e maschio ma anche corretto e subordinato alle regole di gioco e di decenza.
Incidentalmente il primo crocevia imboccato dai piani alti della Olympic Tower sulla 5th Avenue a New York fu proprio quel 9 dicembre 1977, al Great Western Forum di Inglewood, Los Angeles, la casa dei Los Angeles Lakers, dove quella notte passavano per un giretto cestistico gli Houston Rockets.
La maglia numero 24 dei Lakers, oggi indossata da Kobe Bryant, era allora vestita da Kermit Washington, dura power forward di attitudine difensiva e straordinario rimbalzista, una delle pedine fondamentali dei Lakers di coach Jerry West.
Kevin Kunnert, ruvido centro bianco biondo originario dellʼIowa e quella sera in divisa rossa Rockets, si ritrova a sgomitare a rimbalzo con Washington. Il numero 24 gialloviola ritiene che Kunnert lo abbia colpito di proposito con il gomito sinistro durante un tagliafuori, e mentre Calvin Murphy di Houston se ne va in contropiede, i due cominciano a colpirsi sempre più gravemente nel rientrare nellʼaltra metà campo, fino al momento in cui Kunnert, colpito al volto da Washington, si mette le mani sulla faccia, mentre Kareem Abdul-Jabbar dei Lakers lo tiene stretto, impedendogli una eventuale ritorsione. Il capitano dei Rockets, Rudy Tomjanovich, vede la scena e si avvicina ai tre giocatori, con Washington ancora in guardia, pronto alla rissa, evidentemente con l'adrenalina a mille. Il primo (e ultimo) ad avvicinarsi a lui fu proprio Rudy T, che rimediò un destro dʼincontro degno del miglior George Foreman, ma scoccato al massimo della rabbia da un corpaccione di 203 centimetri e 120 chili di muscoli. Il risultato lo conosciamo tutti.
Nellʼorribile silenzio del Forum («il silenzio più assordante che abbia mai sentito», la definizione-principe di quei momenti a Inglewood), Tomjanovich cadde al suolo come un sacco di patate («facendo il rumore di un melone scagliato per terra» disse Abdul-Jabbar, che non vide il colpo ma ne accusò le conseguenze) e in faccia una maschera di sangue, con complicazioni cerebrali e numerose fratture facciali guarite con mesi e mesi di interventi chirurgici e paziente e dolorosa riabilitazione.
Fare il processo alle intenzioni è superfluo, e ognuno vedendo quelle immagini può farsi unʼopinione. Cʼè chi dice che Washington voleva solo difendersi, cʼè che dice che Washington non si è accorto dellʼarrivo di Tomjanovich e che per riflesso o per paura lo ha colpito, cʼè chi dice che Washington è un animale e che bastava solo che qualcuno gli si avvicinasse, con buoni propositi o no non avrebbe fatto differenza: Kermit lo avrebbe massacrato. Rimane il fatto che Tomjanovich non ha mai cercato di colpire Washington, e invece ne è stato colpito con immane durezza.
Il primo giro di vite contro questo tipo di accadimenti fu doveroso e, a quel tempo, considerato duro e scioccante. Se fosse la sceneggiatura di un film, la musica più adatta sarebbe quel brano di quei vecchi capelloni di San Francisco, i Metallica, che dice «Do! Do my work! Do my dirty work, SCAPEGOAT!».
Capro espiatorio (scapegoat) è infatti stata, nel tempo, lʼespressione più usata per Kermit Washington, che fu squalificato per 60 giorni e un totale di 26 partite, fino a quel momento la più lunga squalifica nella storia della NBA. Nellʼèra post-Ron Artest una sanzione che quasi fa sorridere, ma che allʼepoca decretò virtualmente la fine della credibilità cestistica per lʼex Lakers, “ex” perché durante la squalifica Washington fu ceduto ai Boston Celtics.
Nella stagione successiva sia coach Jerry West sia il GM Bill Sharman (da giocatore storico “duro” dei Boston Celtics anni Cinquanta-Sessanta, e avvezzo – lui pure – alle risse in campo) volevano il ritorno di Kermit in gialloviola, ma il proprietario Jack Kent Cooke fece loro capire che riprenderlo in squadra, sul piano dellʼimmagine, per i Lakers sarebbe stato un incubo.
Washington se ne andò così ai San Diego Clippers, e poi ai Portland Trail Blazers, dove peraltro giocò benissimo, guadagnandosi la convocazione per lʼAll-Star Game del 1980, prima di chiudere la carriera molto presto, nel 1982, a soli 30 anni (se si eccettua il ritorno per appena sei partite con la maglia dei Golden State Warriors a 36 anni nel 1988), a causa di continui infortuni alle ginocchia.
Per Washington, dopo quel 9 dicembre 1977, la vita cestistica e non solo, è cambiata. Essere considerati «un tabellone segnapunti che ti cade addosso» (così Tomjanovich descrisse la sensazione avuta quando fu colpito dal pugno di Kermit) non è bel biglietto da visita, ma Washington è stato un giocatore da 9.2 punti e 8.3 rimbalzi in dieci stagioni NBA, nonché un uomo che ha capito ciò che è successo e lʼimportanza del male fatto con quel gesto. Un uomo capace anche, una volta ritiratosi, di lavorare attivamente per i più sfortunati e bisognosi e fondare la Project Contact Africa, associazione umanitaria in cui è direttamente coinvolto.
A riguardo di “The Punch”, Tomjanovich ha avuto sagge parole, nei confronti dellʼaccaduto e di Washington: «Gli auguro il meglio. Non mi piace vedere la gente soffrire. Ha fatto un errore, e tutti, lui compreso, hanno diritto a una seconda chance». Parole sante, Rudy T.
Kermit Alan Washington
Ruolo: ala forte
Nato: 17 settembre 1951, Washington, D.C. (USA)
Statura e peso: 2,02 m x 105 kg
College: American (1970-1973)
Draft NBA: 1º giro, 5ª scelta assoluta 1973 (Los Angeles Lakers)
Pro: 1973-1988
NBA: Los Angeles Lakers (1973-1977), Boston Celtics (1977-78), San Diego Clippers (1978-79), Portland Trail Blazers (1979-1982), Golden State Warriors (1987)
Riconoscimenti: NBA All-Star (1980), 2 NBA All-Defensive Second Team (1980, 1981), Consensus NCAA All-American Second Team (1973)
Cifre NBA:
punti: 4.666 (9,2 PPG)
rimbalzi: 4.232 (8,3 RPG)
assist: 695 (1,4 APG)
Numeri: 24, 26, 42, 42, 3
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