PAUL WESTPHAL - «White man can jump»


di DANIELE VECCHI
Old Timers -  Quando la NBA era lʼAmerica
https://www.libreriadellosport.it/libri/old_timers_-_quando_la_nba_era_il_basket.php

Non per parafrasare il titolo del celebre film White Man Canʼt Jump, ma lʼespressione – usata negli Stati Uniti per sottolineare che i giocatori afroamericani saltano molto di più dei loro colleghi bianchi – è una delle locuzioni più adatte e più calzanti per definire Paul Westphal. 

Noto ai tifosi NBA italiani (ormai di una certa età) come elegante coach di successo dei Phoenix Suns (1992-1996) e dei Seattle SuperSonics (1998-2000), Westphal è stato una solidissima guardia NBA di 1.94 e incredibili doti atletiche prima di diventare, a soli 42 anni, allenatore dei Suns finalisti NBA nel 1993 con Charles Barkley, Kevin Johnson, Danny Ainge e Dan Majerle fermati nella corsa al titolo solo dai Chicago Bulls del primo Three-peat. 

Nato il 30 novembre 1950 nella contea di Los Angeles, California, a Torrance – cittadina di vari giocatori di baseball contemporaneo come Jared “Skip” Schumaker, Theodore “Ted” Lilly III, Jason Kendall (nato però a San Diego) e David Wells, nonché del regista Quentin Tarantino (trasferitosi lì a due anni dalla natia Knoxville, Tennessee) – Westphal, discreto surfista in gioventù, fa onde nel basket alla University of Southern California. 

Dopo quattro anni in giallorosso Trojans, al Draft NBA del 1972 (anno storico per il campionato italiano perché vennero scelti Bob McAdoo alla pick numero 2, John Gianelli alla 20, Bob Morse alla 32, Chuck Jura alla 45 e Krešimir Ćosić alla 144, decimo giro), Westphal viene chiamato con la numero 10 dai Boston Celtics, che con lʼex stella Tommy Heinsohn in panchina erano tornati ai vertici della lega dopo la fine della “Dinastia” degli anni Sessanta. 

La comprovata abilità di Arnold “Red” Auerbach di pescare al Draft giocatori validi, pur non avendo scelte alte (è così che portò nella “città dei fagioli” 11 titoli NBA in 13 anni), stavolta viene allo stesso tempo confermata e smentita. 

Arrivato come addizione-chiave per una Boston tornata a essere da playoff, Westphal non suscitò particolari entusiasmi al suo primo anno in biancoverde, chiuso alla media di 8 minuti e 4.1 punti a partita. 

Nella stagione successiva, con i Celtics campioni NBA 1974 (4-3 in finale ai Milwaukee Bucks di Kareem Abdul-Jabbar), Westphal viaggiò a 14.2 minuti e 7.2 punti per gara, in una squadra che aveva come punte di diamante John Havlicek, Jo Jo White e Dave Cowens. 

Neanche nella sua terza stagione in Massachusetts sembrò a suo agio. Pur lasciando intravedere sprazzi di grandissimo talento e continuando a incrementare minutaggio e fatturato offensivo (19.3 minuti e 9.8 punti a partita), non trovava abbastanza spazio né sembrava avere la personalità giusta per adattarsi a giocare pochi minuti entrando dalla panchina. Il front office, e più precisamente Auerbach, decise quindi che i Celtics non potevano più permettersi di attenderne la definitiva esplosione e che il tempo di Westphal ai Celtics era finito. 

Nel maggio 1975, cedendolo a Phoenix in cambio di Charlie Scott (il miglior realizzatore dei Suns, squadra però dal record perdente), i Celtics ammettevano implicitamente di avere sbagliato, tre anni prima, chiamando Westphal con la loro prima scelta. 

A metà degli anni Settanta, il livello fisico della NBA si stava impennando verso gli apici che siamo abituati a vedere oggi, e in questa lega un bianco che ha un solido gioco spalle a canestro, un buon tiro sia dai quattro metri sia dalla distanza e la capacità di penetrare nel traffico e schiacciare in faccia alla difesa schierata, è una notizia. Westphal era quel tipo di giocatore, e una volta arrivato in Arizona aveva solo una cosa in mente, dimostrare ai Celtics che si erano sbagliati a non credere fino in fondo in lui. 

Quella del 1975-76 fu la sua breakout season, la stagione in cui si confermò grande giocatore NBA: 20.5 punti, 5.4 assist in 36.1 minuti di media a partita per lʼex Trojan, subito leader dei Suns, da lui trasformati in outsider della Western Conference. Assieme al rookie Alvan Adams trascinò Phoenix fino alla Finale NBA, dove, manco a dirlo, si ritrovò di fronte i Celtics dopo aver sorprendentemente eliminato 4-2 i Seattle SuperSonics e 4-3 i Golden State Warriors. 

Della serie finale del 1976 resta indelebile il ricordo di The Greatest Game Ever Played, di cui Westphal fu assoluto protagonista. Gara5 al Boston Garden sul 2-2 nella serie, dopo che i Celtics avevano vinto le prime due al Garden e i Suns le successive due al Vets (Veterans Memorial) Coliseum, era la partita-chiave della serie. I Suns cominciarono male, i Celtics finirono peggio e fino al primo tempo supplementare nessuno avrebbe mai immaginato che quella partita sarebbe stata considerata «la più bella mai giocata». 

Primo supplementare, parità. Secondo supplementare, 111 a 110 per i Celtics con il tiro segnato da Havlicek allo scadere; cʼera ancora un secondo da giocare ma i tifosi dei Celtics avevano già invaso il campo, cazzotti tra tifosi e arbitri e giocatori dei Suns in mezzo al parquet, ma la partita ancora non era finita. 

Qui arrivò il colpo di genio di Westphal, che, chiamando un time out che i Suns non avevano più, regalò sì a Boston un tiro libero (poi realizzato da Jo Jo White), ma anche il possesso a Phoenix a metà campo anziché dal fondo. Dalla rimessa ricevette palla Garfield (Gar) Heard, arrivato ai Suns a stagione iniziata, che dal gomito dell’area si girò velocemente e scoccò un tiro ad ampia parabola: canestro, pareggio a 112, terzo supplementare. I Suns perderanno al terzo overtime, e poi (4-2) anche la finale, ma Gara5 e la geniale “intuizione” di Westphal rimarranno per sempre negli annali della NBA. 

A Phoenix, sulle ceneri di quella mancata a Boston, era nata una stella. Westphal aveva dimostrato di avere gli attributi e il talento per avere in mano la leadership di una squadra NBA di alto livello. Sarà infatti il leader dei Suns per altri quattro anni (21.3 punti di media nel 1976-77, 25.2 nel 1977-78, 24 nel 1978-79, 21.9 nel 1979-80), conducendoli nel 1978-79 a unʼaltra Finale NBA, persa 4-3 contro i Seattle SuperSonics. 

Westphal parteciperà anche a 5 All-Star Game tra il 1977 e il 1981, e resterà una bandiera dei Soli dellʼArizona anche smessi i pantaloncini e le scarpe da basket per un elegantissimo completo Armani sulla panchina di Phoenix nei primi anni Novanta. 

Dalla stagione 1980-81, ceduto ai Seattle SuperSonics, cominciò la sua parabola discendente. Un anno a Seattle, due ai New York Knicks, prima del ritorno a Phoenix nella stagione 1983-84, per chiudere la carriera di giocatore con un totale di 12.809 punti realizzati, e la consapevolezza di essere stato una delle più versatili e intelligenti guardie nella storia della NBA. 


Paul Westphal 

Ruolo: guardia 
Nato: 30 novembre 1950, Torrance, California (USA) 
High school: Aviation (Redondo Beach, California) 
Statura e peso: 1,92 m x 88 kg 
College: USC (1968-1972) 
Draft NBA: 1º giro, 10ª scelta assoluta 1972 (Boston Celtics) 
Pro: 1972-1984 
NBA: Boston Celtics (1972-1975), Phoenix Suns (1975-1980), Seattle SuperSonics (1980-81), New York Knicks (1981-1983), Phoenix Suns (1983-84) 
Palmarès: titolo NBA 1974 
Riconoscimenti: 5 NBA All-Star (1977-1981), 3 All-NBA First Team (1977, 1979, 1980), All-NBA Second Team (1978), numero 44 ritirato dai Phoenix Suns 
Cifre NBA: 
punti: 12.809 (15,6 PPG) 
assist: 3.591 (4,4 APG) 
recuperi: 1.022 (1,3 SPG) 
Numero: 44 
Da coach: Southwestern Baptist Bible College (1985-86), Grand Canyon College (1986-1988), Phoenix Suns (1988-1996), Seattle SuperSonics (1998-2000), Pepperdine Waves (2001-2006), Sacramento Kings (2009-2012) 

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