LEON WOOD - La Second Life di Mister “T”


di DANIELE VECCHI
Old Timers -  Quando la NBA era lʼAmerica
https://www.libreriadellosport.it/libri/old_timers_-_quando_la_nba_era_il_basket.php

E vuoi che nemmeno una volta in 14 anni di carriera in grigio, nessun giocatore abbia mai detto a Leon Wood, magari a brutto muso: «Perché, tu, da giocatore, non avresti protestato per un fischio come questo?!». Tanti, ce ne sono stati, di questi giocatori, e per tutti è finita alla stessa maniera. La pallina che gira dentro il fischietto, le mani che si congiungono per un attimo e, con i palmi perpendicolari, formano una T. Leon Wood ha fischiato, fallo tecnico. 

Non cʼè affermazione più dolorosa che un arbitro voglia sentirsi dire, la verità. In quel lontano 1997 parlò da sé la faccia di Michael Jordan, che, entrando in campo allo United Center e vedendo Leon Wood in grigio, spalancò gli occhi e scoppiò in una sonora risata. «Leon?! In a refʼs uniform?!» disse, tra il sorpreso e il divertito. 

Fa specie sapere che un discreto giocatore NBA, una volta smessi i panni del giocatore, si sia applicato tanto da cambiare mentalità e diventare arbitro, per giunta di successo. Sì, fa sempre parte del gioco, il gioco si ama allo stesso modo, ma il modo di concepirlo pare opposto. Nei corsi per arbitri, fin dai primi passi, sʼinsegna a “gestire” le partite, a decidere e a battezzare un metodo e una soglia di tolleranza ai contatti, a fare a meno di eccezioni e in modo che la partita sia il più uniforme possibile. 

Per un giocatore è il contrario, si cerca sempre il limite, a tutti i costi, per raggiungere il massimo. Trascinati dallʼagonismo, spesso ci si spinge oltre i limiti imposti dal regolamento, e spetta allʼarbitro, applicando il regolamento, gestire gli eventuali sconfinamenti. Spesso si dice che per essere arbitri bisogna avere una predisposizione naturale, amare il gioco in una maniera diversa da come lo amano i giocatori, gli allenatori o i semplici appassionati. Fare gli arbitri è un lavoraccio, e farlo bene, essendo stato un giocatore, quindi uno «dallʼaltra parte della barricata», può avere più controindicazioni che vantaggi. 

Nato il 25 marzo 1962 a Columbia, South Carolina, Leon si trasferisce ben presto a Los Angeles, California, dove alla Santa Monica High School si distingue per le proprie capacità cestistiche. Già in adolescenza Leon è un ragazzo longilineo ben più alto della media e la sua passione per il basket la sfoga nellʼafosa palestra di Pico Avenue. Guadagnati i riconoscimenti di All-State e All-American a livello di high school, tante sono le università che gli offrono una borsa di studio cestistica, e Leon opta per la prestigiosa Arizona. Dopo poco, però, a causa del incompleto inserimento nella vita del campus e nei meccanismi di gioco al McKale Center, e un poʼ per la lontananza dalla famiglia e dalla sua città, Leon abbandona Tucson e i Wildcats (per lui 4.4 punti a gara e un modesto apporto alla squadra) per tornare nella sua California, allʼuniversità di California State-Fullerton, sempre nellʼarea metropolitana di Los Angeles, sempre abbastanza distante da Santa Monica (che è a nord, Fullerton invece è a sud-est di downtown), ma comunque raggiungibile senza essere e sentirsi nel deserto di Tucson. 

Fullerton, cittadina di 130mila abitanti che ha dato i natali a parecchi campioni soprattutto di baseball come Tommy LaSorda, Jim Edmonds, Steve Trachsel, Matt Chico, ma anche a Bruce Bowen, Cedric Ceballos, Steven Seagal, Gwen Stefani e soprattutto Leo Fender (mai abbastanza venerato per la qualità delle sue chitarre Fender...), sembra lʼhabitat ideale per la permanenza di Leon, che dopo il solito anno accademico senza giocare partite ufficiali, si ritroverà a essere uno dei migliori giocatori dei Titans per il resto della sua carriera universitaria. 

Nella sua stagione da senior (1983-84) Wood è stratosferico, 24 punti, 6.3 assist a partita e un dominio totale in campo, le sue gesta vengono riconosciute anche dalle alte sfere della NCAA, infatti viene nominato All-American e nello Sporting News First Team. E pur essendo lontano, per fascino e fama, dalle grandi North Carolina di Michael Jordan e Georgetown di Pat Ewing (Cal State Fullerton è sì della Big West Division I, ma non ha grande tradizione cestistica), Leon impressiona parecchi scout NBA nei workout pre-Draft. 

Nel 1984 viene infatti scelto con la decima pick dai Philadelphia 76ers. Prima di lui vengono chiamati nomi altisonanti come Hakeem Abdul Olajuwon (alla numero 1), Michael Jordan (3), Charles Barkley (4) e dopo di lui buoni giocatori e Hall-of-Famers quali Kevin Willis (11), John Stockton (16) e Jerome Kersey (46). Leon viene selezionato da coach Bobby Knight, dopo la trionfale cavalcata degli Stati Uniti ai Giochi Panamericani del 1983, per il Team USA in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Una squadra composta interamente da giocatori provenienti dalle università tra i quali però spiccavano grandissimi talenti come Jordan, Ewing, Steve Alford, Chris Mullin, Wyman Tisdale e Sam “Smooth” Perkins. 

Nonostante gli evidenti dissapori tra Jordan, star già affermata, e il duro Knight, gli Stati Uniti vincono la medaglia dʼoro battendo in finale la Spagna, e Leon gioca un buon torneo olimpico, che lo lancia definitivamente verso la National Basketball Association. 

Wood infatti arriva nella NBA con la fama di gran realizzatore, una guardia con punti nelle mani capace di segnare in ogni momento. La sua prima stagione (1984-85) nella Città dellʼAmore Fraterno è però interlocutoria. Poco più di 7 minuti a partita concessi al rookie da coach Matt Goukas, che, nonostante lʼassenza per tutta la stagione di Andrew Toney, non lancia come guardia titolare Wood, che Goukas considera troppo immaturo e poco continuo al tiro. 

Wood non decolla neanche nella sua seconda stagione (5.3 punti a partita in 15.7 minuti di media), e dopo 29 partite viene ceduto ai Washington Bullets, nei quali trova più spazio. Le 39 partite giocate nella capitale sono lʼapice della sua carriera, 9.7 punti a partita in 19.1 minuti di impiego, venendo dalla panchina, ma inspiegabilmente mai in campo nella serie playoff che vede i Bullets sconfitti 2-3 proprio dai Sixers. 

La stagione successiva Leon venne ceduto ai New Jersey Nets, e via via il suo status di journeyman di medio livello della NBA si consolida. New Jersey, Atlanta, San Antonio, ancora New Jersey, Sacramento fino allʼingresso nel magico mondo della CBA, e allʼingaggio, nella stagione 1991-92, per le tre gloriose gare nei Giessen 46ers nel campionato tedesco. Tre partite, a 26 punti di media, che gli valsero lʼingresso nella Hall of Fame del club. 

Da lì il progressivo abbandono al basket giocato ad alti livelli, ma con lʼamore per il gioco sempre vivo e una forma fisica sempre curata e perfetta (ancora oggi, a 50 anni e con un fisico invidiabile, Wood è un grande sollevatore di pesi), il ragazzo cresciuto a Santa Monica si dedica alla carriera arbitrale. Comincia dalla CBA, di cui dirige lʼAll-Star Game del 1995, e poi dal 1997 eccolo in NBA, della quale ha arbitrato oltre 600 gare. 

Wood ha imboccato un sentiero mai battuto, un sentiero impopolare e “anti-business” (il business dellʼ«essere star NBA a tutti i costi») che lo ha portato a godere di grande credibilità e rispetto, sia dai giocatori sia dagli arbitri. Un sentiero che anche altri ex giocatori potrebbero, e forse dovrebbero, intraprendere. 


Osie Leon Wood III 

Nato: 25 marzo 1962, Columbia, South Carolina (USA) 
Ruolo: guardia tiratrice 
Statura e peso: 1,90 m x 83 kg 
College: Arizona; Cal-State Fullerton 
Draft NBA: 10ª scelta assoluta 1984 (Philadelphia 76ers) 
Pro: 1984-1991 
NBA: Philadelphia 76ers (1984-1986), Washington Bullets (1986), New Jersey Nets (1986-87), San Antonio Spurs (1987-88), Atlanta Hawks (1988), New Jersey Nets (1989-90), Sacramento Kings (1990-91) 
Palmarès in nazionale: oro Giochi Panamericani Caracas 1983, oro Olimpiade Los Angeles 1984 
Cifre NBA: 
punti: 1.742 (6,4 PPG) 
rimbalzi: 316 (1,2 RPG) 
assist: 867 (3,2 APG) 
Numero: 40 

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