PAT RILEY - ALLO SCOPERTO



SI CONFESSA L'ALLENATORE PIU' CARISMATICO DELLA NBA, IL TECNICO DEL MOMENTO, TORNATO IN AUGE DOPO UNA STAGIONE DI ASSENZA DAI PARQUET

American Superbasket - # 1 - Anno 1 - Febbraio 1992

Sembra a suo agio sulla copertina di Gentlemen's Quarterly quanto in quella di Sports Illustrated. Ha raggiunto le 500 vittorie in carriera più rapidamente di ogni altro allenatore nella NBA e conquistato quattro titoli. Ha portato lo Showtime e trasformato i Los Angeles Lakers nel più ambito appuntamento di Hollywood, una delle prime attrazioni nel mondo dello sport. Poi, Pat Riley ha lasciato la camera di allenatore. Infine, è tornato. 

Riley è cresciuto a Schenectady, New York. La sua è una famiglia di atleti; il padre Leon ha fatto il catcher in squadre semiprofessionistiche di baseball di cui poi è stato anche manager, il fratello Lee ha giocato da defensive back nella NFL e il giovane Pat è stato una stella all'high school sia nel basket sia nel football. Tant’è vero che è stato scelto dai Dallas Cowboys senza aver mai giocato a football durante il college.

Attraverso il basket Pat Riley e approdato a Kentucky dal leggendario Adolph Rupp, dov'e stato il miglior giocatore dei Wildcats per tre anni ed è stato anche All-America. Poi c'è stata la NBA, una carriera di nove anni con i San Diego Rockets, i Los Angeles Lakers e i Phoenix Suns.

Dopo un breve periodo come ospite fisso di Chick Hearn durante le telecronache delle partite dei Lakers, è diventato assistente allenatore nel 1979. Nel novembre del 1981, è diventato il dodicesimo allenatore dei Lakers. In nove stagioni i Lakers hanno vinto quattro anelli, compresa la doppietta dell'87-88, la prima dopo vent’anni.

Riley è noto per essere un combattente che cura molto la psicologia e le motivazioni dei giocatori. Le sue squadre hanno raggiunto la Finale NBA sette volte in nove anni. Dopo esser stato nominato Allenatore dell'anno nel 1990, Riley ha stupito il mondo lasciando i Lakers per diventare commentatore televisivo della NBC.

Ma il fascino dell'allenamento I'ha presto catturato di nuovo. Dopo una stagione, Riley è tomato in panchina, questa volta per i Knicks, dove sta fronteggiando una serie di sfide. Ma con lui i Knicks sono al vertice dell'Atlantic Division, pronti a sconfiggere un mondo di perplessità.

- Suo padre è stato giocatore e manager di baseball. Questo I'ha incoraggiata a intraprendere la carriera sportiva professionistica e ad allenare lei stesso?

«Siamo tutti prodotti della nostra educazione, dell'ambiente e le persone che ci hanno insegnato a vivere. A me è accaduto di aver un padre coinvolto professionalmente nello sport per tutta la sua vita. Ma ho avuto altri 15 allenatori nella mia carriera. Quando vivi in questo tipo di contesto impari la verità quel che è giusto e sbagliato nelI'essere parte di una squadra. Altre persone oltre a mio padre hanno avuto un impatto significativo sulla mia vita».

- Si riferisce anche al suo allenatore a Kentucky, Adolph Rupp?

«Certo. Lui mi ha mostrato una personalità e un approccio al basket completamente diversi. Adolph Rupp credeva nella disciplina. Era altamente strutturato, i suoi allenamenti erano molto esigenti, molto, molto organizzati, secondo per secondo. Quel che mi ha insegnato è l'importanza delle ripetizioni, di fare ciò in cui credi, in campo e fuori, ripetendo determinati concetti con regolarità, instillando nel giocatore la convinzione che l'obiettivo è la perfezione».

- Lei ha giocato la finale NCAA del 1966 in cui Kentucky, con una squadra tutta bianca, perse contro Texas Western cui primi sette giocatori erano neri. Molta gente ha visto in quella sconfitta una svolta nella storia di Kentucky? Anche al Sud da allora hanno cominciato a reclutare giocatori neri...

«Quella partita ha avuto un profondo impatto su tutte le scuole del Sud che normalmente non reclutavano atleti neri. Negli anni 60 esistevano molte tensioni razziali nel Paese, con movimenti e cortei a favore della libertà. Quella partita ha detto molto socialmente: gli atleti neri, in particolare nel Sud, potevano inseguire i propri sogni in scuole del Sud».

- A Kentucky era un All-America, nella NBA un giocatore di complemento. Come si è adeguato? Questa esperienza I'ha aiutata nei rapporti con i molti giocatori che vivevano la medesima situazione?

«La situazione è questa: sei abituato a essere il giocatore-chiave della tua squadra nei minuti finali, sei produttivo e tutto a un tratto ti scopri in panchina a guardare e a imparare; è un passo indietro verso il realismo. Ci sono tanti grandi giocatori qui e devi renderti cnto che puoi anche non essere il migliore. Io ho imparato velocemente che se vuoi diventare un giocatore professionista, devi misurare te stesso, scoprire quali sono le tue possibilità nella Lega e fare quel che serve per diventare parte di una squadra. Io mi sono adattato velocemente e questo mi ha insegnato a dialogare un po' meglio con giocatori che non saranno star, e devono capire a cosa vanno incontro. I giocatori più importanti di una squadra non necessariamente sono i titolari. Ci sono altri che giocano in posizioni di supporto e qualche volta si sacrificano più delle stelle».

- Dicono che i grandi giocatori non diventano grandi allenatori. E’ d’accordo?

«Tutti parlano delle grandi superstar che quando sono diventati allenatori non hanno riscosso successo. lo penso che una Stella della NBA è un uomo che crede nella perfezione e non tollera la mediocrità in se stesso e in qualsiasi altro. Ma quando sei un allenatore devi essere in grado di toccare entrambi i lati del nostra mondo ed essere paziente. Forse gli ex campioni non riescono a tollerare la mediocrità che gli sta davanti e non capiscono perchè certi giocatori non riescono a fare quel che a loro veniva naturale».

- Quando ha capito che il suo futuro era nell’allenamento?

«E' successo alia fine della mia carriera di giocatore, ma quando poi sono entrato nel mondo della televisione ho smesso di pensare alia panchina. Poi ho seguito Paul Westhead come assistente allenatore dei Lakers scoprendo quanto poteva essere eccitante e soddisfacente fare il coach».

- Si dice che Pat Riley sia un allenatore-psicologo, che enfatizza soprattutto l'aspetto mentale del gioco, cercando di motivare al massimo i propri giocatori. Concorda?

«Le partite non si vincono solo col talento, non si vincono con le X e le O o con le strategie, l'organizzazione o quello che volete. II basket è un gioco mentale perché il talento fondamentalmente è equivalente. Si diventa una squadra da titolo quando si apprende quel che serve emozionalmente e psicologicamente per vincere. Io penso che la parte psicologica del gioco è più importante di quanto lo sia mai stata. I giocatori devono imparare che col talento da solo non si vince e che dovranno sviluppare un grado di emozionalità stabile per sopportare una stagione lunga otto mesi, con vittorie, sconfitte, viaggi e tante partite».

- Nel basket generalmente i giocatori mettono in ombra gli allenatori. A lei accade il contrario, è una stella. Giudica positivamente questa situazione?

«Sta parlando di qualcosa di incontrollabile. A me è successo di essere parte di una grande organizzazione, i Lakers, la squadra che negli anni 80 ha vinto più di qualsiasi altra. Nei miei nove anni abbiamo giocato la finale NBA sette volte, vincendo in quattro occasioni. lo era lì, visibile, parte di una squadra che vinceva e garantiva riconoscimenti per tutti. Qualche volta la stampa mi ha etichettato con un pizzico di superficialità enfatizzando il gel sui capelli, i vestiti eleganti, Hollywood, ma la sostanza viene da altre cose. Ho sempre provato a mantenere un basso profilo anche se qualche volta è stato molto difficile riuscirci».

- Ma i Knicks non I'hanno assunta per il basso profilo...

«Ma lo stanno scoprendo perché penso che un allenatore debba stare dietro la vetrina il più possibile. II basket è uno sport fatto dai giocatori, ma anche gli allenatori meritano riconoscimenti finanziari. Talvolta un allenatore che guadagna troppo può incontrare gelosie o risentimenti e per questo occorre essere cauti».

- Quale dei quattro titoli vinti con i Lakers è il più significativo per lei?


«Quello del 1985, vinto giocando la finale contra i Boston Celtics. E' stato il più gratificante perché i Lakers non avevano mai battuto i Celtics in finale prima di allora. Avevano perso sette volte consecutivamente con loro. Sono sicuro che se avessimo perso quella finale la squadra sarebbe stata rivoluzionata. Invece sfatammo il mito di Boston, la mistica dei Celtics e tutte quelle cose dette e scritte sul loro conto che nel momento della verità ci avevano sempre paralizzato».

- Cosa l'ha spinta a tornare in pista?

«Quando sei coinvolto in uno sport ed hai uno stile di vita competitivo, diventi quasi un drogato. Hai sempre attorno un gruppo di ragazzi, allenatori, gente con un obiettivo comune; quasi una famiglia. Non c’è niente di più bello che sentire pulsare una folla in una partita entusiasmante, essere al centro dei parquet sapendo che alla fine ci saranno un vincitore e uno sconfitto. Gli allenamenti erano qualcosa che mi mancava e mi divertiva. Ma fondamentalmente sono tornato perché avvertivo la lontananza dal gioco che amo, e per il quale ho una passione infinita».
Clare Martina

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