Lo studioso Doug Moe
di Simone Basso
Indiscreto - 10 novembre 2009
1. Piccolo quesito per gente di osservanza strettamente cestistica: chi è stato il più grande americano che abbia mai militato nella Spaghetti League? Se limitiamo il nostro raggio d’azione alla gloria accumulata in due continenti, l’incommensurabile Macca della Milano da bere precede tutti con un Vigorelli di vantaggio; se guardiamo ai numeri freddissimi, senza militanze pro di rilievo negli States, un regalo yankee come Robertino Morse non lo riceveremo più. Ma se vogliamo prendere un atleta al meglio della sua vicenda sportiva, il campo (in legno lucido, naturalmente) si restringe a tre All Star che fecero parte, nel bene o nel male, della storia stragloriosa dell’Olimpia Milano: il meraviglioso Geibì Carroll, il laureato Billone Bradley e l’incredibile Doug “Gimme da ball” Moe. Il nostro voto, analizzando la faccenda, va al terzo della lista, perchè l’airone di Peterson soggiornò comunque mezza stagione (ahinoi, troppo poco…) e il senatore Dollaro alzò sì la prima Coppa Campioni italiana, ma non mostrò mai la sua arte alla platea della Serie A.
2. Ben diversa la vicenda nel Bel Paese del futuro profeta del “run and gun”, giunto in Italia dopo la clamorosa squalifica inflittagli dai parrucconi NCAA: l’uomo di Brooklyn, nato nel 1938, sembrava destinato ad una carriera da pro formidabile, dopo un grande triennio universitario. Per l’alfiere di North Carolina invece arrivò un’inchiesta sul giro scommesse che ne stroncò le velleità Nba: accusato di aver accettato 26 dollari sottobanco (sic), pagò la sua insistenza nel voler coprire l’atteggiamento poco chiaro di alcuni suoi compagni. Il tre volte All America fu così costretto alla fuga verso l’Italia, e sbarcò al Palalido per un provino agonistico sotto gli occhi dell’allora Simmenthal: i dirigenti, malgrado le magie mostrate dall’uomo di New York, fecero la talpata del secolo scartandolo. Commossi per il dono, a Padova inchiostrarono subito il buon Douglas Edwin e diedero vita ad un biennio memorabile, con il piccolo (…) aiuto dell’amico americano e dell’allenatore più importante della storia europea del gioco, Aza Nikolic. E se uno come lui, che allenò la Jugo vincitutto e l’Ignis del mito, ripetè fino alla noia che un giocatore più forte dell’ex Tar Heels non lo aveva visto mai, converrete che il teorema sostenuto come incipit potrebbe essere legittimo.
3. Il Moe Show 1966 e 1967 portò il Petrarca alla terza piazza al primo anno, nonchè alla corona di capocannoniere a 30 punti alla volta (52 per cento dal campo). Ma le gelide cifre non resero giustizia all’autentico clinic mostrato senza reticenze: un due metri che portava palla, passava benissimo, spazzolava le plance e che si applicava, in difesa, anche contro i pivot. Fu uno spettacolo dell’altro mondo, che allietò gli appassionati di quell’epoca eroica, capitato purtroppo in un’era di culto che non consentì un’adeguata esposizione mediatica; se avesse potuto competere nella NBA di quei dì avrebbe mostrato una dimensione di fuoriclasse degna almeno di visi pallidi come Kangaroo Kid Cunningham e Gail Goodrich… Immaginate allora il suo impatto dalle nostre parti: il grande Nikolic filmò la sua tecnica stilistica di tiro, visto che il nostro, bimane naturale, eseguiva dalla lunetta indifferentemente con la sinistra e la destra; il jumper dai quattro, a dir poco competente, si accompagnava con un raffinato gioco in post.
4. Il ritorno in patria fu nell’indimenticabile ABA, la lega dei fuorilegge che consentì anche ad altri big squalificati nello scandalo scommesse (Connie Hawkins e Roger Brown, per esempio) di rifarsi la verginità perduta; nel ’68 a New Orleans fu vice top scorer assoluto e trascinò in finalissima i Buccaneers, che persero in una gara7 tiratissima contro la Pittsburgh di The Hawk. L’anello arrivò l’anno seguente a Oakland, come leader spirituale di una congrega comprendente il talento debordante della matricola Warren Armstrong, poi Jabali, un fuoriclasse le cui gesta (in tutti i sensi…) meriteranno un dì una bella monografia su questo giornale (pardon, sito). Se il Jabali fu il cattivo per antonomasia di quel periodo, come carattere anche il Moe ebbe poco da invidiare ai più rissosi: entrò nella mitologia quando, approcciando l’acerrimo rivale Art Heyman prima di un derby Duke-North Carolina, si sputò nelle mani prima di salutarlo civilmente (…) con una stretta di mano…Il tre volte All Star della lega alternativa concluse la carriera nei Virginia Squires, nel 1972, quando svezzò tecnicamente un giovincello dalle doti atletiche soprannaturali, un certo Julius Erving: passò subito in panca ad aiutare come assistente un altro della gang di Chapel Hill, ovvero il geniale Larry Brown.
5. Poi, per oltre un decennio, allenò nella NBA imponendo uno stile di gioco improntato allo spettacolo e al contropiede a oltranza. Autentico integralista del “corri e spara”, mise in piedi una versione favolosa dei Nuggets metà Ottanta con il poeta English e il tuttofare Fat Lever come attori protagonisti. Una visione onirica e mai speculativa della pallacanestro, confermata dall’aneddoto (imbattibile) di un’allegra serata con Portland, 1983 o giù di lì, quando proibì ai suoi di difendere per conservarsi in vista della fase offensiva: inimitabile!? Ma, come degno suggello alla rievocazione dell’eretico del Petrarca, non si può evitare di narrare la storiella che risale al 1961, quando North Carolina si ritrovò sullo stesso volo dell’allora vicepresidente degli Stati Uniti, Richard Nixon. L’allenatore Frank McGuire presentò a Nixon tutti i componenti della squadra, finché arrivò al newyorchese che, per distrarsi dalla folle paura dell’aereo che aveva, leggeva un libro: la leggenda narra che fu l’unico sfogliato nel semestre (quattro F e una D fino a quel momento!). Il futuro presidente tentò l’approccio spiritoso: “Lei deve essere lo studioso del gruppo”. Moe lo fulminò all’istante: “E tu chi cavolo sei? Un tizio saggio?”. Fenomenale.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)
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