Museo italiano


Considerazioni sulla stagione ciclistica al via: l’onda lunga del passato, il golem anglo-americano, la federazione protetta dai media, gli juniores che volano, il consiglio chiesto a Ballan e i cari vecchi direttori sportivi…

di Simone Basso 
Indiscreto - 15 febbraio 2010

“..Oh bongo bongo bongo/ 
stare bene solo al Congo/ 
non mi muovo no no/ 
bingo bango bengo/ 
molte scuse ma non vengo/ 
io rimango qui/ 
no bono radio e cine signorine/ 
magre così/ 
molto meglio anello al naso/ 
ma stare qui..” 

Oroscopo ciclistico di inizio stagione, una scusa per ricominciare a scrivere di attualità stradaiola, quella che ormai rappresenta quasi al cento per cento l’immaginario degli appassionati. Essendo funaristicamente convinti che l’umanità giri attorno al deretano e si possa dividere in due categorie distinte (quelli che il sedere lo baciano e gli altri che lo prendono a calci), ci produciamo in un bel dipinto munchiano della situazione, consci della nostra missione impossibile. 

Un’annata storica, ahinoi, perché burocratizza l’insostenibile leggerezza d’essere di BiciItalia: un movimento terzomondista, il migliore (!) del lotto, con un futuro splendido alle proprie spalle. Dicono che la pedivella non è la migliore metafora del divenire umano, ma una rappresentazione più efficace del cul de sac italiano è difficile da pensare. La scena che fino ad un decennio fa era contemporaneamente l’avanguardia e la tradizione, oggi si “accontenta” del proprio glorioso museo. 

La globalizzazione avanza prepotente e regala scenari inediti: il golem anglo-americano (Sky Team, Columbia, RadioShack, Garmin, BMC...) impazza e impone nuovi standard qualitativi; la realtà maccheronica risponde con solo una carta pesante, la Liquigas, che a fine anno potrebbe terminare il ciclo di sponsorizzazione. Per troppi anni ci si è nascosti dietro le vittorie dei campioni e non si è seminato adeguatamente; il risultato è un paesaggio neorealista, povero di soldi e stavolta anche di idee. Pur non vantando i Liberace del banditismo federale, ovvero la protezione incivile di dirigenti alla Barelli o di imprenditori come Anemone (il jack pot di Piscinopoli è prossimo ai 10 milioni), si ciurla nel manico in ottimo stile.

Una Federazione, quella di Renato Di Rocco, fagocitata dall’ambiente e protetta dal quarto potere stile-BiciSport. La rivista storica specializzata in enfasi e in fotografie a colori, massacrò la precedente gestione di Ceruti, personaggio inquietante, lanciando il petrucciano come uomo del rinnovamento: la FCI da allora ha lavorato sull’immagine e i buoni propositi, facendo ineccepibilmente gli interessi delle signorie. Che come Grandi Elettori hanno talvolta la richiesta di nascondere lo sporco sotto il tappeto: così accade che nella maggior parte delle corse under 23 non ci siano controlli antid****g di alcun tipo e si scivoli sulla buccia di banana di una visita sanitaria a uno juniores. 

Il bimbo, talentuoso, apparteneva allo squadrone toscano della Ambra Cavallini-Vangi: immaginiamoci la solerzia dei federali nell’indagare uno di loro… L’amministratore delegato di quella società, Cristiano Viciani, infatti sposta(va) voti e tessere come Coordinatore della Commissione Regionale Giovanile; l’allora diesse, Alex Baronti, fu un esponente glorioso del ciclismo pro' anni Novanta. La sua mini-epopea ebbe l’apice in una vittoria improbabile al Giro del Lazio 1997, il dì che scalò Rocca di Papa trasfigurandosi in Emile Daems; inutile ricordare le squalifiche accumulate in carriera, anche da terminator granfondista a tutt’oggi inibito dall’Udace. 

Ma cosa portava una squadra di diciottenni a richiedere le cure di personale così compromesso? 
Le iniezioni e le flebo settimanali erano lo specchio deformato di una mentalità che ha imperversato per anni, legittimata dall’esigenza folle del tutto e subito: è la stessa che si riverbera in questi dì nel torneo foot di Viareggio, occupato militarmente da un esercito di pallonari in fiore con SUV, famiglia e procuratore al seguito. 

Come sottolineato da Alessandro Ballan in un’intervista all’ottimo Cycling Pro: «Tempo fa mi si avvicina una donna che si presenta come la mamma di un giovane corridore. Mi dice che suo figlio è portato per il ciclismo, che è addirittura indecisa se farlo continuare a studiare o permettergli di dedicarsi completamente alla bici. Mi chiede di tabelle di allenamento, di preparatori e addirittura di farmaci. Ero allibito, pensavo: ma guarda che madre fanatica e pericolosa ha questo diciottenne. Solo che il ragazzo aveva quattordici anni”. 

Cappuccetto Rosso, in questo evo complicato e cafone, non ha bisogno di uscire di casa per imbattersi nel lupo. Altro esempio illuminante di qualche anno fa: il campione olimpico Paolo Bettini, sull’uscio della casa dei genitori, saluta dopo l’abbondante pranzo natalizio. Mentre ride, osservando la pancetta da vacanza, sfreccia sulla strada un bimbo (già iridato juniores) in un allenamento dietro la moto, guidata dal padre… Noi ci auguriamo che questo campioncino, adesso neoprofessionista, possa vincere in futuro la Liegi-Bastogne-Liegi; ma le esagerazioni fanno sempre spavento, la macchina dell’atleta ciclista è delicatissima e se abusata non permette pezzi di ricambio. 

Il guaio italiano sta nell’autista del bus, cioè il direttore sportivo; una figura vetusta e gattopardesca che accentra troppe funzioni: promulga metodi invecchiati dal tempo, inadatti a interpretare le problematiche dello sport più esigente di tutti. Così, se da una parte esaspera l’atleta per produrre risultati immediati, dall’altra ha difficilmente il bagaglio culturale per informare realmente l’assistito; si abusa di stereotipi e di tecnologie, ma si impedisce al corridore di esplorare le proprie potenzialità attraverso il lavoro specifico. In sintesi, il diesse dovrebbe essere un maestro dello sport, conoscere fisiologia e biomeccanica; sollevato dalle questioni monetarie e contrattuali, affiancato da uno psicologo, un dietologo e un gruppo di lavoro iperspecializzato. 

Non siamo Giovanni Drogo, non vi stiamo raccontando un’allucinazione bensì la realtà del nuovo squadrone Sky; che utilizza bici (Pinarello) e tecnici nostrani come Max Sciandri, anche se più che italiano lo definiremmo pistoiese… E’ già positivo che la discussione su questa crisi strutturale sia cominciata, sarà importantissimo dare seguito ai primi segnali di rinsavimento; sperando che la vittoria di un Pozzato nella Roubaix non fornisca l’alibi per rifiutare il confronto. 

Il 2010 agonistico ha avuto un prologo incoraggiante nel deserto del Qatar: abbiamo visto già pimpanti ras del quartiere come Boonen, Gilbert e Cancellara; le classiche (al solito) promettono più spettacolo dei Grandi Giri, legati a concetti tecnici meno spavaldi di quelli dei predoni del Nord. 

Almeno per adesso, Azzurra ha ancora nomi da spendere nell’immediato; l’augurio è che la stagione ci regali qualche matricola con i garretti giusti, da super ma con benza normale. Per tutto il resto siamo pronti, sicuramente ci divertiremo ad ammirare un Giro disegnato con intelligenza e sadismo; che forse cancellerà gli scempi dell’anno scorso. 

In fondo la superiorità ideologica della pedivella sta nella sua brutalità pop; lo spirito che il Ganna, appena vinto il primo Giro, spiegò in una frase poco aulica ma efficace: «L’impressione più viva l’è che me brusa tanto l’cù». Avevamo cominciato questa escursione con il posteriore e la terminiamo sempre con lo stesso.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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