UK, un calcio a tutta birra


di Christian Giordano ©, Guerin Sportivo ©

«Team which drinks together wins together», la squadra che insieme beve insieme vince. La nota citazione di Richard Gough, ex capitano dei Rangers, spiega molto della drinking culture del calcio britannico. A metà anni 90 i Blues dettavano legge in campo e al pub, ambiti dove Gascoigne, lo stesso Gough, Ally McCoist, Ian Durrant e compagni dettavano legge. Altri tempi.

Nel calcio britannico la “cultura del bere” era tradizione. E lo è ancora, nelle serie inferiori. Si gioca, e dopo si va a pinte. George Best, Paul “Gazza” Gascoigne, Paul Merson, Tony Adams (56 giorni di carcere alla Chelmsford Open Prison nel ’90 per guida in stato di ebbrezza; a Jamie Pennant del Liverpool, Jermaine Defoe del Portsmouth e tanti altri è andata meglio), sono solo i più famosi ad essersi spinti troppo oltre, fino a scivolare nell’alcolismo o in altre patologiche dipendenze. 

Merson (oltre 500 mila sterline perse alle scommesse) si ritrovò a guidare di notte a fari spenti in cerca di un muro, prima di rendersi conto dell’abisso - di droga, gioco d’azzardo, alcool - in cui era precipitato e che gli era costato la famiglia. 

Jimmy Greaves ne uscì, e per anni non toccò un goccio. Negli anni 70 in Stan Bowles, Alan Hudson, Rodney Marsh, Frank Worthington (e persino Robin Friday, il più grande mai giunto nei pro’) veniva identificata una intera generazione di Mavericks: purosangue in campo, senza controllo fuori.

Nel 1998 Malcolm McDonald, ex centravanti di Newcastle Utd e Arsenal e recordman di reti (cinque) in una partita con la nazionale, per disintossicarsi, convinto da Merson, entrò in una clinica da 325 sterline il giorno, cifra co-versata dalla PFA, il sindacato giocatori. 

Per emularlo, nel 2000, Adams – prostrato da anni di “Tuesday club”, le beveute del martedì – ne ha addirittura fondata una, la Sporting Chance (appena sovvenzionata con 50 mile sterline dalla FA), specializzata nella disintossicazione di sportivi professionisti affetti da varie forme di dipendenza: alcool, gioco d’azzardo, stupefacenti. Tra i primi a beneficiarne Adrian Mutu, l’attaccante romeno della Fiorentina licenziato dal Chelsea per uso di cocaina.

L’esempio di Adams è stato seguito anche da Alex Rae, oggi manager del Dundee ed ex giocatore di Sunderland, Millwall e Rangers. Ha smesso di bere nove anni fa, 29enne. E a Glasgow ha aperto una struttura no-profit di recupero per alcolisti e tossicodipendenti. Bere in compagnia, in passato, veniva visto come lasciapassare per essere accettati dal gruppo, per non dire branco. O come passatempo sociale. 

Emblematici i casi degli irlandesi al Manchester United: Norman Whiteside (del nord), Roy Keane, compagno di sbronze dello sciupafemmine Lee Sharpe, e il nero Paul McGrath («bere mi dava coraggio»). O quello di James Beattie, che due anni fa aggredì con una mazza da golf John Arne Riise nel ritiro del Liverpool.

Gascoigne era così abituato alla “poltrona del dentista” – famigerata usanza da ritiro che toccò il culmine con l’exploit dei nazionali inglesi in un pub di Hong Kong prima di Euro 96– che dopo un gol con l’Inghilterra la mimò nell’esultanza: steso a terra a bocca e braccia aperte, beveva a getto dalla borraccia che Teddy Sheringham, in piedi, gli spremeva contro sotto gli occhi di Gary Neville. Per una volta, però, era acqua. 

Tutto è cambiato con l’arrivo di calciatori e tecnici stranieri, primi fra tutti Dennis Bergkamp e Arsène Wenger, il quale all’Arsenal impose subito la chiusura del bar del club ai giocatori.

Lo stesso hanno fatto al Liverpool lo spagnolo Rafa Benítez, e prima di lui il francese Gérard Houllier (quando i turbolenti giovani dei Reds venivano chiamati Spice Boys), e l’Aston Villa ai tempi di John Gregory. Il Manchester United di Alex Ferguson, uno della vecchia scuola, è arrivato a proibire ai suoi i nefasti party natalizi, l’ultimo dei quali (2007) sfociato con un mai chiarito episodio di violenza sessuale ai danni di una 26enne.

Coi bei soldoni in ballo dalla Premier League in giù, ogni club ora dispone di dietologi, nutrizionisti e specialisti che ragguagliano i giocatori sui disastrosi effetti di alcool e altri abusi. 

Con non infrequenti, spesso fragorose eccezioni (lo show di John Terry del Chelsea davanti agli atterriti passeggeri americani all’aeroporto l’indomani dell’Undici settembre; le 7-8 pinte di vodka e rum di Jonathan Woodgate la notte in cui venne attaccata Sarfraz Najeib e pagate con 100 ore di servizi sociali, il Lee Bowyer, allora suo compagno al Leeds United, «del tutto fuori di sé» al nightclub Majestyk di Leeds; l’intero Leicester City cacciato da un hotel spagnolo nel 2000; Stan Collymore che picchia la compagna Ulrika Jonsson, poi fiamma di Eriksson, o stacca un estintore), perlomeno nel calcio di alto livello la drinking culture è cessata di colpo. 

Adesso, la squadra che vince insieme beve insieme. Non viceversa.

Christian Giordano ©Guerin Sportivo ©

Postato 4th October 2012

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