Pantani, il ciclista che morì due volte


Qualcuno ha detto che all'arrivo Pantani 
apriva le braccia sembrando un crocifisso...


Manuel Gandin
Famiglia Cristiana - 13 febbraio 2014

Per capire il valore contraddittorio di Marco Pantani nel ciclismo moderno, si potrebbe partire da un dato scheletrico: nella sua carriera professionistica, durata dodici anni, il campione di Cesenatico ha ottenuto solo 34 vittorie, meno di tre all’anno, in media. Eddy Merckx, tanto per fare un paragone, arrivò a vincere anche più di 50 corse, ma in una stagione. Basterebbe questo per comprendere come sia ancora difficile scavare fino in fondo nella popolarità immensa e nell’immagine di “campionissimo” che Pantani s’è guadagnato.

Ma, allora, cos’è che ha fatto grande, addirittura mitico, questo ciclista? Un po’ tutto, dal modo di ottenere le vittorie a dove le otteneva, dal modo di correre alla sfortuna che gli attraversava la strada, fino ai presunti misteri sulla sua orrribile morte, avvenuta dieci anni fa, il 14 febbraio 2004.

Nell’immaginario collettivo, Pantani ha vinto molto di più di quanto non abbia fatto davvero perché ogni successo del “pirata” possedeva un’irresistibile fascino spettacolare, era la prova liberatoria che i sogni più incredibili si realizzano. Come quelli dei bambini, che immaginano di vincere in salita scattando come gazzelle. Proprio per questo, dura legge del contrappasso, la facilità con cui Pantani affrontava le salite è risultata il lato debole su cui si sarebbe bloccato malamente.

La fine della carriera di Marco Pantani non è quella ufficiale, ma quella del 5 giugno 1999,quando viene fermato prima della tappa dell’Aprica del Giro d’Italia, la “sua” tappa. In quel momento Pantani crolla e non si rialzerà mai più. Anzi, sprofonderà.

Il ciclismo è uno sport aspro, ostile a tratti, un mondo multiforme ma chiuso: se ne fai parte è una famiglia meravigliosa, se non sei accettato è un inferno. E l’inferno, in modo inconsapevole, Pantani se l’era cercato, dicono alcuni suoi ex colleghi. Perché nel ciclismo vincere non basta, devi anche dimostrare di essere il capobranco, il capo di tutto il gruppo, il padre padrone, il re generoso. E Marco Pantani tutto è stato meno che un capobranco. Solitario, sospettoso e introverso, salvo quando la strada cominciava a salire. Allora diventava un estroverso straripante, di quelli che entrano nel cuore del pubblico ma, contemporaneamente, s’allontanano da quello del gruppo.

In quel Giro d’Italia del 1999 Pantani ha già vinto due tappe consecutive, conquistando in modo magistrale la maglia rosa. Viene dal doppio trionfo del 1998, Giro e Tour nello stesso anno. Ora, in questo Giro, alla prima tappa di montagna, con arrivo al Gran Sasso, Pantani vince e indossa la maglia rosa. Poi la riperde, è vero, ma dando l’impressione di poterla riconquistare al primo accenno di salita vera. E, infatti, va così.

A Oropa, quindicesima tappa, ne fa una delle sue: prima perde tempo per un salto di catena, ritrovandosi in coda al gruppo proprio all’inizio della salita, poi parte, va come un treno e passa tutti gli avversari, uno per volta, in modo entusiasmante. Il vantaggio in classifica, adesso, è di quasi due minuti sul secondo, Paolo Savoldelli. Il giorno dopo ci aggiunge ancora una decina di secondi, tanto per strafare e qui le cose cominciano a non piacere molto al gruppo, al branco: vincere sì, stravincere un po’ meno. Ma il pubblico è tutto per lui. Perde più di un minuto a cronometro, e il vantaggio su Savoldelli si riduce a 44 secondi. Ma nessuno teme per il suo trionfo. Arriva da solo ad Alpe di Pampeago e riporta il distacco a 3’42”. Il giorno dopo fa il bis solitario anche a Madonna di Campiglio e Savoldelli è a 5’38” dal pirata. Mancano solo due tappe alla fine, un trionfo annunciato.

Anche nei modi. Quando parte, Pantani quasi li sbeffeggia, gli altri ciclisti: platealmente getta la bandana, butta i guantini e anche gli occhiali. Scatta da dietro, da lontano, assale alle spalle. Il pubblico lo sa e aspetta quel momento che agli avversari sembra anche un po’ umiliante. Dopo aver vinto due tappe consecutive e ormai a un passo dal trionfo, dovrebbe essere sazio, potrebbe accontenatarsi, gestire la corsa e lasciare le briciole. Pantani invece annuncia che vuole ancora vincere, perché la tappa del giorno dopo, la penultima prima della passerella finale, prevede il Gavia e il Mortirolo, e uno scalatore come lui non vuole lasciarseli scappare. Un po’ troppo?

A migliaia, gli italiani vanno a dormire tra i tornanti di quelle due montagne per aspettare che il giorno arrivi e che passi il pirata in fuga. Il 5 giugno, invece, Pantani non passerà di lì, fermato dai controlli dell’Uci, l’Unione ciclistica internazionale. Ematocrito troppo alto. È l’inizio della fine. Un controllo ancora oggi “strano”, senza delegati dell’Uci, per esempio, senza che il ciclista abbia avuto la possibilità di scegliere la provetta, come da regolamento. Provetta che anziché sotto zero viene conservata in una borsa qualsiasi, col rischio enorme che i valori sianio alterati. E, infatti, a dramma concluso, Pantani, poche ore dopo, rifarà l’esame in forma privata, con esiti ben diversi, ma ormai inutili.

E nella vicenda s’inserisce anche la malavita: Renato Vallanzasca, in carcere, vorrebbe puntare su di lui vincente, ma qualcuno gli spiffera che è meglio lasciar perdere, perché «Pantani non lo finisce il Giro». Si può pensare tutto e il contrario di tutto, ammettendo che, certo, Pantani aveva fatto uso di Epo, come gli altri, ma che forse non s’era reso conto che gli avversari stavano trasformandosi in nemici. Il branco, sempre quello.

Quando torna alle gare, al Tour affronta Lance Armstrong, lo batte sul Mont Ventoux e l’americano afferma pubblicamente che l’ha lasciato vincere. Peggior affronto non può esserci ma, dice qualcuno sottovoce, Pantani se l’è cercata. Quell’affronto è pari ai suoi, quando lanciava la bandana come un guanto di sfida. Agli avversari, al branco, ai nemici, a tutto quanto. Per andare più veloce, perché, come disse in un’intervista celebre, «vado veloce in salita perché così l’agonia finisce prima».

Tutto troppo veloce, anche la vita, rovinata per sempre il 14 febbraio di dieci anni fa, in un residence squallido che oggi non esiste più. Overdose da cocaina, secondo il medico legale. Oggi, dieci anni dopo, la famiglia Pantani non si rassegna e vuole capirci qualcosa di più, vuole vederci chiaro, vuole conoscere la verità sulla morte di un grande campione, di un uomo sfortunato, di un ragazzo che ha creduto che l’agonia finisse tagliando il traguardo.

In uno sport che spesso, troppo spesso, si trasforma in una lotta senza quartiere d’interessi e intrallazzi sulla pelle di chi corre. Magari verso l’agonia e la morte.

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