La riga blu di Roeselare

Breve la vita e grande la storia di Jean-Pierre Monseré, morto quarant’anni fa in una corsa di preparazione alla Sanremo. Uno dei pochi campioni dell’era-Merckx a non essere stati cancellati dal Cannibale, fino alla morte tragicamente simile a quella del figlio… 


di Herbie Sykes (ma anche Simone Basso)


Roeselare è una cittadina anonima, indistinguibile da una dozzina di altri paesi delle Fiandre occidentali. Le folate di vento dal Mare del Nord portano nuvoloni gonfi di pioggia; a ogni angolo delle strade ci sono i pub o le sale da tè e le persone sono indaffarate nel tipico stile fiammingo (poco cerimonioso…). I fiamminghi, per i quali è stato coniato il termine flemmatico, non possono essere equivocati. 

Chiedi un’informazione in giro e la gente si ferma, scrolla le spalle, e se ne va prevedendo un altro acquazzone. Ciò che è strano di Roeselare, e che ci si domanda cosa sia, è quella sottile linea blu. La linea corre parallela al marciapiede e sembra tracciare lo spazio di una pista ciclabile, per poi improvvisamente sparire. Attraversa, per una ragione misteriosa, le strade e i marciapiedi della città. Comunque, i fiamminghi non sono soliti parlarne. Nessuno sembra sapere perché è là. Quando insisti a chiedere, ti dicono che è comparsa da qualche decennio, che è semplicemente apparsa un giorno, e si scherniscono. Non c’è grande mistero, e perché dovrebbe esserci? E’ solo una riga blu.

Il 24 agosto 1969 la diciassettenne Annie Monseré-Victor viaggiò verso Brno, nell’allora Cecoslovacchia. Andò a vedere il marito, Jean-Pierre (“Jempi”), concludere secondo, ancora, al Mondiale dilettanti su strada. Battuto stavolta dal fenomenale danese Leif Mortensen, Jempi stava diventando un habitué della piazza d’onore: tre volte secondo ai campionati belgi, persi sempre allo sprint. La cosa non pareva importarle molto; Annie amava Jempi ed era felice. Lui aveva diciannove anni, era alto, attraente come un modello, dolce ed elegante. Il loro bimbo sarebbe presto nato e la casa dei due, lungo la strada dei genitori di Jempi a Roeselare, era quasi pronta. Jempi avrebbe firmato per i professionisti la settimana seguente e, siccome era un grande talento, non ci sarebbero stati problemi di denaro. 
L’aveva conosciuto in una discoteca di Izegem due anni prima. Ci andava a ballare la domenica pomeriggio e un dì, a bruciapelo, Jempi fece il grande passo: disse che se la settimana dopo avesse vinto, le avrebbe portato il mazzo di fiori. Così fu e i giorni da Dancing Queen finirono all’istante. Tutti sapevano che Jempi sarebbe diventato un campione, e suo padre le disse di smetterla con le sale da ballo e di seguirlo alle corse. Ora Annie era la donna più invidiata del paese.

Jempi e il suo amico Roger De Vlaeminck, gitano di Eeklo arcigno come una scultura di Permeke, dominarono la scena juniores per tre anni e vinsero tutto ciò che c’era da vincere. I due erano un po’ come il giorno e la notte. Jempi, bello, aperto e comprensivo con tutti, era il burlone. Affascinante e generoso, mostrava l’arguzia e il sorriso accattivante del vincente: divenne una promessa sicura di una terra ossessionata dal ciclismo. Se uno era il ragazzo (d’oro) della porta accanto, l’altro (di un anno più anziano) rappresentava l’esatto opposto, soprattutto una volta sceso dalla bicicletta. Burbero, diffidente, testardo, De Vlaeminck era un corridore fantastico: quando pedalava sembrava quasi librarsi sull’acciottolato di quei luoghi. La strana coppia di rivali sognava di sfidare la dittatura cupissima di Eddy Merckx, arrogante e implacabile cittadino della benestante Bruxelles, oltre che in possesso di un’eccellente parlata in francese

Nell’estate del 1969 il Merckxismo era l’ideologia più opprimente nel mondo dello sport. Merckx, il cosiddetto Cannibale, stava vincendo tutto e ovunque. Ad appena ventitré anni aveva fatto sua la terza Sanremo della carriera; poi aveva annichilito la concorrenza alla Ronde (il Fiandre) e alla Doyenne (la Liegi). Al Giro si inventarono un caso banale di doping per dare una possibilità agli italiani (agli altri, i poveri mortali). Allora dovette sbranare la concorrenza al Tour, vinto con un margine superiore ai venti minuti. Di fronte a una tale dimostrazione di superiorità si disse che Roger Pingeon (secondo) fu il vero vincitore del Tour de France: Merckx difatti appariva proveniente da un’altra galassia. E così il primo settembre, a una settimana dall’argento iridato, Jempi seguì Roger firmando per la migliore squadra del Belgio: la Flandria. 
Di lì a qualche giorno avrebbe compiuto vent’anni e la Flandria, grande azienda manufatturiera di biciclette, era alla disperata ricerca di una nuova stella, di un antidoto all’egemonia di Merckx. Continuava a perdere allo sprint ma era un atleta fortissimo, dall’avvenire scintillante: lui e Roger avrebbero guastato, prima o poi, l’eterno monologo del despota…

Alla prima corsa da pro, tre giorni dopo aver siglato il contratto, finì secondo in una kermesse locale; poi terzo, dietro Eric il fratello maggiore di Roger, al Campionato delle Fiandre. Alla Coppa Agostoni, duro prologo verso il Giro di Lombardia, dovette inchinarsi al grande Franco Bitossi, il leggendario Cuore matto. 
La Corsa delle Foglie Morte 1969, disputata in un’insolita calura, fu la più veloce di sempre malgrado i 266 chilometri di un percorso duro. Jempi, seguendo istintivamente le ruote giuste, si ritrovò nel gruppo di testa dei nove che entrarono nel vecchio, glorioso, velodromo di Como. Nel testa a testa finale fu battuto da Gerben Karstens. Quando l’olandese fu poi squalificato per doping, Jempi ottenne il suo primo grande trionfo. Comunque, mentre l’albo d’oro mostra il suo nome come vincitore dell’ultima classica-monumento dell’anno, a Monseré non sembrava importare molto. Karstens l’aveva anticipato al momento giusto ed era stato sconfitto ancora una volta. 

Durante l’inverno nacque Giovanni. Chiamato così in onore di un amico italiano di Jempi: era un bambino splendido, biondo come la mamma, sorridente come il papà. Jean-Pierre festeggiò vincendo la Sei Giorni di Gand con il compare Patrick Sercu, poi l’Omnium ai campionati nazionali su pista, due tappe e la classifica finale alla Ruta del Sol. Fece razzìa dei circuiti primaverili a Oostkamp, Boezinge, Ninove. Ma le grandi classiche ancora gli sfuggirono: sesto al Giro delle Fiandre, nei primi dieci alla Gand-Wevelgem, alla Freccia e alla Roubaix… Merckx dominò talmente il Giro che fu convinto a non infierire sugli avversari, almeno per creare in maniera fittizia l’impressione (o l’illusione) di una gara. Fece sue tre tappe, la maglia rosa e quella ciclamino (allora il colore per il leader della classifica a punti). Vinse al piccolo trotto, risparmiando energie preziose in vista del campionato belga in linea, l’unica competizione che mancava al suo già incredibile palmarès. 

Il 24 giugno, a Yvoir, alla partenza della corsa si allineò una generazione di fenomeni. La corrida di 246 km assegnava, oltre che la maglia nerogiallorossa, anche i posti per il Mondiale di metà agosto a Leicester in Gran Bretagna. Quattro corridori (o, più correttamente, Merckx e altri tre) si sarebbero garantiti la selezione; per la fama, il prestigio e l’aumento contrattuale che tale onore comportava. Merckx, come previsto, distrusse tutti e sbranò anche quel titolo; dietro si sviluppò una specie di faida. Due corse in una. 

I nuovi ganzi, Monseré e De Vlaeminck, furono sensazionali: conclusero terzo e quarto alle spalle anche del solito Herman Van Springel. Prossima fermata: Dover. 

Si sentiva sempre più forte, Jempi, avvicinandosi all’appuntamento iridato. A tre giri dal termine un mammasantissima del plotone, Felice Gimondi, promosse una fuga con il francese Alain Vasseur: il margine sugli inseguitori salì a 45 secondi. Jempi aspettò, l’impegno era di correre per Merckx ma quel pomeriggio, inspiegabilmente, Eddy non era al cento per cento. Forse, per una volta, il peso del pronostico lo stava sopraffacendo; allora vide un ottimo Monseré e (insolitamente magnanimo) gli disse di far la sua corsa. Jempi e il suo antico rivale Mortensen partirono al contrattacco. Con l’aiuto dell’inglese Les West raggiunsero i fuggitivi proprio quando Vasseur, incapace di reggere il forcing di Gimondi, perse contatto. All’ultimo giro il fuoriclasse di Sedrina scoprì le carte: attaccò ripetutamente nel tentativo disperato di staccare i più veloci Mortensen e Monseré. Il danese e West dovettero cedere mentre Jempi, in un autentico stato di grazia, non ebbe problemi a rimanere con il bergamasco. Questo era un guaio per Gimondi. 

Sapeva benissimo che la Salvarani, il suo gruppo sportivo, era pronto a offrire un megacontratto al belga che comprese subito la situazione. A due chilometri dall’arrivo Gimondi, che non parlava fiammingo, informò in francese Jempi che la sua carriera, con uno sprint a freni tirati, avrebbe avuto ottime prospettive economiche. Jean-Pierre non rispose e Felice ci provò ancora, stavolta arrangiandosi in inglese. La reazione di Jempi fu immediata: scattò via senza paura staccando il secondo migliore ciclista di quell’evo. Quando Mortensen ritornò sotto e West scoppiò, Jempi Monseré era, a braccia alzate, cento metri avanti. Il ragazzo della discoteca di Izegem era il nuovo campione del mondo. Tutto l’ambiente ciclistico fu entusiasta della vittoria. Come non esserlo? 

Era diventato così famoso che persino Merckx, abitualmente così distaccato, si unì al coro festante. Una serie di orologi d’oro, una Mercedes-Benz regalata dal proprietario della Flandria, un bonus salariale da nababbo, una moglie che amava e un figlio che adorava. Jempi Monseré, con il busto fasciato dall’arcobaleno, aveva tutto. Però avrebbe voluto ancora di più. Ciò che voleva, che sognava, era la Milano-Sanremo. Più di qualsiasi altra corsa, Jempi voleva vincere la Classicissima di Primavera. Il suo direttore sportivo Briek Schotte, il primo vero Leone delle Fiandre, gli consigliò di evitare il freddo e l’umidità della Parigi-Nizza per correre, una volta ancora, nel sole e tra gli ulivi dell’Andalusia. Dominò la breve corsa a tappe iberica, poi rifinì la gamba correndo qualche kermesse, ovvero la fauna preferita dal ciclista fiammingo. 

Mercoledì 15 marzo 1971 si presentò a Retie per il Grote Jaarmarktprijs, una corsa senza molta importanza ma l’ultimo appuntamento prima di andare a Milano. Pronto a onorare la maglia iridata, era naturalmente nella fuga giusta, quella decisiva: erano in dodici, i migliori del plotone, e filavano tutti come veltri. Monseré chiudeva il gruppetto in ultima posizione; procedevano nervosi e scattanti nella periferia di Gierle, un bel villaggio prossimo al confine francese. A un certo punto, con una serpentina, il convoglio scansò una Mercedes ferma sulla strada e guidata da Josephine Van Rooy-Lammens.

Annie tentò di ricostruìre la propria vita il meglio possibile, aiutata dall’ambiente del ciclismo fiammingo, dalla famiglia e (soprattutto) dall'esistenza del suo Giovanni. Il mondo della pedivella è piccolo e, incredibile ma vero, sua cugina Carine sposò un altro super di questo sport, il fenomenale Freddie Maertens. Giovanni era diventato il preferito di Freddie quando si riunivano sulla costa, durante le vacanze, a Middelkerke. Per la prima comunione del nipote, Maertens gli comprò una bici: una Flandria, proprio come quella del padre e dello zio. Giovanni non vedeva l’ora di cominciare con il ciclismo ma Freddie pose una condizione. Quando il bambino voleva uscire in bicicletta avrebbe dovuto indossare un casco e la maglia iridata del babbo, tanto per far sapere al mondo chi fosse. 

Nel luglio del 1976 Freddie era diventato il numero uno e Giovanni lo ammirava estasiato, davanti alla tivù, mentre dominava le volate e le cronometro al Tour. Il penultimo giorno della corsa lo zio vinse l’ennesima tappa: a Versailles colse la settima affermazione di quella Grande Boucle. Giovanni, ispirato da ciò che vide, indossò la maglia arcobaleno e disse alla madre che sarebbe andato a fare un giro in bici con gli amici. In quel tardo pomeriggio del 17 luglio 1976 Annie Monseré-Victor perse il suo secondo campione del mondo: Giovanni fu travolto, appena fuori casa a Rumbeke, da un motociclista. Qualche anno più tardi, nell’unica intervista che diede alla televisione belga, lei e Freddie parlarono del dolore che non si è mai attenuato. «Non riesco a spiegarlo, l’unica cosa da dire è che ci deve essere qualcosa più forte di me, più potente di qualsiasi altro animo umano. Posso solo supporre che ho pagato perché ero troppo felice, perché ero fortunata. In tutti questi anni non ho mai sentito una persona parlare male di Jempi e suo figlio, il mio ragazzo, era un tesoro…».

Poco più di due lustri fa il Consiglio Municipale di Roeselare ha deciso di creare una pista ciclabile che attraversa la città: le linee che la delimitano sono state colorate di blu. Una di queste porta al Museo del Ciclismo Nazionale, dove Freddie Maertens ha lavorato dopo il ritiro dall’agonismo. E’ un luogo meraviglioso, struggente, al cui interno si possono vedere i trofei di Jempi, la maglia iridata e i ricordi della sua vita, bellissima e tragica. In questo posto ci si prende cura della linea assiduamente e per un motivo irrinunciabile. I percorsi di quella riga non sono mai casuali e la linea blu di Roeselare è l’esatto opposto della disgrazia, nonché l’esatto contrario del destino. 

19 marzo 1971, la Riviera pareva Zeebruggia: freddo, pioggia, vento e mareggiate. Sul Poggio, Merckx rispose a un attacco di Gimondi e si involò solitario verso il traguardo di via Roma. Noblesse oblige. Appena rientrato in patria, Eddy andò a deporre il bouquet della Sanremo sulla tomba di Jempi Monseré, il James Dean del ciclismo. 


Scritto da Herbie Sykes. 
Traduzione e adattamento di Simone Basso. 

Herbie Sykes collabora con Bicycling Australia, Rouleur, Cycling Plus, Cycling Pro. 
E’ appena uscito il suo secondo libro: “Maglia ROSA. Triumph and Tragedy at the Giro d’Italia”

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