Bo Ryan, nel nome del padre
Nel marzo 1976, l’America celebrò gli Indiana Hoosiers allenati da Bobby Knight. Una squadra entrata nella leggenda non solo per la vittoria (netta) alla Final Four contro Michigan, ma soprattutto perché terminò la stagione col record di 32-0. Da allora nessuna università è mai riuscita a chiudere un’annata imbattuta nel college basketball.
In quel lontano 1976, nella lobby di uno dei principali hotel che ospitavano squadre e addetti ai lavori nei pressi dello Spectrum di Philadelphia (dove si giocava la Final Four), c’era un signore che teneva banco. “Avete visto come difende il canestro May? Va a rimbalzo come una furia”. La gente attorno a lui annuiva, partecipava. Quel signore, un bianco magro ed energico, andava spesso avanti infervorato: “E se dovete affidare a qualcuno un tiro all’ultimo secondo? Datelo a Scott May e state sicuri che vincerete la partita”. Sorrisi, gente che si dava di gomito: un bianco davvero simpatico. Anche nelle sale di quegli hotel (forse “soprattutto” in quelle sale), si formò il carattere di William “Bo” Ryan, oggi allenatore dei Wisconsin Badgers, uno che ha inventato uno stile di gioco unico e perciò imitatissimo. Un coach tutto d’un pezzo, di poche parole, che vede la pallacanestro come il Neo di Matrix: una fitta trama di passaggi, spazi e tagli sulla quale costruire le vittorie.
L’uomo che teneva banco con voce stentorea si chiamava William Francis Ryan, detto “Butch”, e a partire da quel lontano 1976 lui e suo figlio Bo – che aveva appena iniziato a fare l’assistente allenatore a Wisconsin – sarebbero stati ospiti fissi in tutte la Final Four che si sarebbero tenute in giro per gli Stati Uniti. Lo Scott May che tanto piaceva a Butch Ryan sarebbe stato il perno degli Hoosiers dei record, ne avrebbe segnati 26 in finale con 10/17 al tiro (più 8 rimbalzi), per poi essere scelto con la numero 2 assoluta al Draft NBA dai Chicago Bulls e, quell'estate, vincere l’oro olimpico alle Olimpiadi di Montreal '76.
Piccola parentesi su May. Nel 1975, la stagione precedente, Indiana era ancora imbattuta e sembrava destinata a dominare (come avrebbe fatto la stagione successiva) ma fu proprio un braccio rotto di May a frenare la corsa degli Hoosiers, che al torneo vennero sconfitti 92-90 da Kentucky. La carriera NBA di May fu altalenante proprio a causa degli infortuni, che alla fine portarono il giocatore a tentare la strada dell’Europa. Prima tappa fuori dagli USA? In Italia, a Brescia, squadra con la quale però restò poco perché passò quasi subito alla Berloni Torino allenata (era il 1983) da Dido Guerrieri, squadra nella quale giocava anche Meo Sacchetti. Flash forward al presente. Oggi forse qualcuno ricorda il figlio di Scott, Sean, talento di North Carolina scelto al primo giro dai Bobcats nel 2005, mai esploso in NBA (nel fisico invece sì) e visto poi anche a Montegranaro. Anche lui in Italia? Oh yes, e Sacchetti nel 2012 (alla guida di Sassari) ha affrontato come avversario il figlio del suo compagno di squadra del 1983. Quando si dice: quant’è piccolo il mondo.
L’uomo che teneva banco con voce stentorea si chiamava William Francis Ryan, detto “Butch”, e a partire da quel lontano 1976 lui e suo figlio Bo – che aveva appena iniziato a fare l’assistente allenatore a Wisconsin – sarebbero stati ospiti fissi in tutte la Final Four che si sarebbero tenute in giro per gli Stati Uniti. Lo Scott May che tanto piaceva a Butch Ryan sarebbe stato il perno degli Hoosiers dei record, ne avrebbe segnati 26 in finale con 10/17 al tiro (più 8 rimbalzi), per poi essere scelto con la numero 2 assoluta al Draft NBA dai Chicago Bulls e, quell'estate, vincere l’oro olimpico alle Olimpiadi di Montreal '76.
Piccola parentesi su May. Nel 1975, la stagione precedente, Indiana era ancora imbattuta e sembrava destinata a dominare (come avrebbe fatto la stagione successiva) ma fu proprio un braccio rotto di May a frenare la corsa degli Hoosiers, che al torneo vennero sconfitti 92-90 da Kentucky. La carriera NBA di May fu altalenante proprio a causa degli infortuni, che alla fine portarono il giocatore a tentare la strada dell’Europa. Prima tappa fuori dagli USA? In Italia, a Brescia, squadra con la quale però restò poco perché passò quasi subito alla Berloni Torino allenata (era il 1983) da Dido Guerrieri, squadra nella quale giocava anche Meo Sacchetti. Flash forward al presente. Oggi forse qualcuno ricorda il figlio di Scott, Sean, talento di North Carolina scelto al primo giro dai Bobcats nel 2005, mai esploso in NBA (nel fisico invece sì) e visto poi anche a Montegranaro. Anche lui in Italia? Oh yes, e Sacchetti nel 2012 (alla guida di Sassari) ha affrontato come avversario il figlio del suo compagno di squadra del 1983. Quando si dice: quant’è piccolo il mondo.
Torniamo negli Stati Uniti, anni ’70. L’America usciva dalla dinastia di John Wooden a UCLA. Nel 1977 ci fu l’unico titolo nella storia di Marquette, nel 1978 un’entusiasmante finale Kentucky-Duke (vinta dai Wildcats). Nel frattempo a Louisville da qualche anno era arrivato Denny Crum, mentre a North Carolina si vedevano i frutti del decennale lavoro di Dean Smith. Tempi d’oro per la pallacanestro nei quali – ormai un classico a ogni Final Four – Butch Ryan teneva banco animando le discussioni e scatenando dibattiti. Gli habituè del college basketball non volevano perderserlo. Eccoli lì, i due Ryan, Butch dalla lingua lunga e il figlio Bo, più taciturno, ma pronto a non perdere nemmeno una parola con gli occhi colmi di ammirazione e divertimento.
Bo Ryan d’altronde aveva già sviluppato una devozione particolare per quel padre così speciale, che non aveva mai finito il liceo e che successivamente, mentendo sull'età, si era imbarcato per prendere parte alla Seconda guerra mondiale, tornando pluridecorato. Il vecchio William Francis era uno coraggioso, un duro, ma aveva a cuore la propria comunità. Tornato dall’Europa e dalla guerra si era messo a fare l’idraulico, ma nel frattempo aveva iniziato a fare il coach per giovani ragazzi di strada in difficoltà. La madre di Bo amava il marito per la sua capacità di imporre la disciplina, mentre il figlio era cresciuto vedendo giovani adolescenti bussare alla porta di casa. Venivano a ringraziare e omaggiare suo padre, quell’uomo che aveva creduto in loro e aveva trascorso interi pomeriggi a insegnargli il basket. Era ancora giovane, e decise che avrebbe fatto l’allenatore di pallacanestro, che sarebbe stata quella la sua strada. Una strada lunga e piena di riconoscimenti, ma questo ancora non lo sapeva.
La carriera di Ryan, come quella di molti allenatori, comincia da giocatore. I suoi anni di maggior successo sono quelli al liceo di Chester, in Pennsylvania, dove gioca da play titolare nel basket (da senior conduce la squadra a un record di 25-1), è quarterback nel football, membro della squadra di baseball e rappresentante di classe. Insomma, una vita piena per il figlio del militare, che però non viene selezionato da una grande università. Rimane allora vicino casa frequentando la Wilkes University, college dal quale non farà mai il salto verso il basket professionistico. La pallacanestro però ce l’ha nel sangue e dopo pochi anni ottiene il suo primo lavoro da allenatore, alla Brookhaven Junior High School nella contea del Delaware (sempre Pennsylvania), dove oltre a fare il coach di basket insegna storia.
Insegnare basket, oltre che piacergli, gli riesce bene e dopo due anni passa alla Sun Valley High School, dove dopo una stagione viene nominato coach dell’anno. A quel punto viene notato anche al di fuori della Pennsylvania e viene chiamato come assistente allenatore a Wisconsin. La stessa che Ryan, da allenatore, ha oggi trasformato in una delle potenze della Big Ten. Ed è in quel momento della carriera, facendo l’assistente in Division I, che Ryan getta le basi della sua filosofia di gioco. Resta lì 8 anni, impara molto ma soprattutto studia. Morale: è finalmente pronto per fare il capo allenatore, occasione che gli viene concessa da Wisconsin-Platteville, piccolo college di Division III.
“Lascia stare” gli dicono gli amici, “meriti di meglio. Quella è una squadra che sta in fondo alla Division III, non ce la farai mai a invertire i risultati”. Se vi state chiedendo com’è andata, vi basti sapere che nel 2007 l’università di Wisconsin-Platteville ha deciso di dedicargli il campo, e infatti oggi i Pioneers giocano sul “Bo Ryan Court”. Il motivo è semplice: nei 15 anni in cui è stata allenata dal figlio del militare, la squadra ha vinto l’82% delle gare, la migliore percentuale di vittorie nella storia della Division III, e ben 4 titoli nazionali (1991, 1995 e il back-to-back 1998-1999). Dopo quei 15 anni il nome di Ryan inizia a circolare per davvero tra gli addetti ai lavori, accompagnato dal quel misto di stupore e rispetto che significa “ma come diavolo ha fatto?”. Archiviata la pratica del “so fare il capoallenatore”, è tempo di passare alla Division I sulla panchina di Wisconsin-Milwaukee, e di nuovo gli amici a dirgli “ma chi te lo fa fare, guarda che quello è un programma perdente”. Il figlio del militare trascorre nel nuovo college solo due anni, ma chiude sempre con un record vincente (mai successo nella storia dell’ateneo). Inizia a diventare quello che “fa i miracoli” e così lo chiamano ad allenare nel posto dove tutto è iniziato, a Wisconsin. La nuova sfida è fare il capoallenatore nella Big Ten, la conference più dura degli Stati Uniti. Ma lui di nuovo stupisce tutti. Wisconsin sotto la sua guida non è mai (ripeto: mai) finita oltre il quarto posto nella Big Ten.
Fin qui abbiamo, a grandi linee, le tappe della storia di Ryan, ma la sua è una di quelle vite che uno pensa esistano “solo nei film americani”. Un padre che torna dalla guerra e si mette a insegnare ai bambini disagiati e che intrattiene il pubblico negli hotel delle Final Four e dall’altra parte un figlio-prodigio che sembra trasformare nei Lakers (o nei Celtics, scegliete voi) ogni squadra che allena. Possibile? Sì, è tutto vero. Per lui parlano le cifre: è il coach con almeno 500 W che ha la migliore percentuale di vittorie dietro Roy Williams. Il tutto, però, senza allenare fenomeni né poter reclutare i migliori talenti della nazione. Ma-come-diavolo-ci-riesce?
Intanto, è riuscito a combinare il meglio che vedeva sui campi da basket. Tra il '76 e l’84, come assistente a Wisconsin, lo mandano in giro a studiare gli avversari. Lui è un tipo diligente, ormai s’è capito: va a vedere le altre squadre, guarda, prende appunti, poi torna e si mette a discutere. “Hai visto Indiana? Sì, OK la motion offense, però il centro è poco valorizzato, dovrebbero modificare un pochino”. E via con le altre squadre. Chiariamo: non è che grazie ai suoi suggerimenti Wisconsin improvvisamente riesce a battere le squadre allenate da Bobby Knight (Indiana), Gene Keady (Purdue) o Jud Heathcote (Michigan State), tutte troppo forti per quei Badgers. Ma nella sua testolina le rotelle iniziano a muoversi.
Poi, un giorno, da capoallenatore a Wisconsin-Platteville, guarda gli allenamenti dall’alto attraverso una finestra (ma perché?) e così, senza essere distratto da altri rumori, osserva i passaggi della palla, i tagli, i blocchi, e il tutto gli ricorda il movimento di un’altalena. In quel preciso momento nasce la “swing offense”. Potremmo parlare a lungo solo dell’attacco di Wisconsin, diciamo - in estrema sintesi - che l’attacco mischia una serie di movimenti e nozioni: triangolo, UCLA, flex. Il centro è fondamentale, la guardia tiratrice anche e nell’attacco (eseguito in continuità) tutti finiscono a turno in post basso. Regole: rispettare gli spazi, attaccare al limite dei 35 secondi e perdere meno palloni possibili. Quindi la caratteristica di Wisconsin è l’attacco? In realtà no, è la difesa che è rigorosamente a uomo e prevede un’ossessiva attenzione a limitare le transizioni offensive degli avversari. I concetti sono pochi, ma chiave: cercare di far prendere meno tiri da tre possibili e soprattutto non fare falli inutili. Se tra gli highlights di Wisconsin trovate una super stoppata, pago da bere. La difesa è il marchio di fabbrica dei Badgers, con i giocatori allenati a non far calare la tensione man mano che i secondi dell’azione passano, cercando anzi di aumentarla.
Una delle cose che però distinguono il gioco di Wisconsin, che si parli di attacco o difesa, è che in palestra, a insegnare, c’è Ryan. Un maniaco. Nel senso di esagerato, disciplinato? No, nel senso che è un vero maniaco. Un giornalista era andato ad assistere all’allenamento prima del match contro Iowa, una partita fondamentale e di cartello, ed era rimasto scioccato. C’erano i ragazzi sul campo che eseguivano in maniera instancabile e meticolosa gli stessi esercizi. Silenzio in palestra. Fischio di Ryan. Tutti a eseguire fondamentali del palleggio. Fischio di Ryan. Tutti a coppie sui fondamentali del passaggio. Fischio di Ryan. Tutti a eseguire esercizi di tiro. Un silenzio come in convento, solo rumore di palla, e ragazzi che sapevano esattamente cosa fare, quando, in che posizione e in che modo. Atleti che - era chiaro - facevano le stesse cose a ogni allenamento, da anni. Poi ancora. E ancora. E ancora.
“Sì, lo sappiamo che può sembrare noioso”, ha commentato di recente Sam Dekker, uno degli attuali giocatori di Wisconsin, “ma ci fa vincere e vincere non è per nulla noioso”. Non solo, ma questo metodo forgia il carattere e garantisce certezze in campo. “Noi in partita sappiamo sempre cosa fare, che sia il primo possesso o l’ultimo, decisivo per vincere la partita”, ha detto Traevon Jackson, figlio dell’ex All-Star NBA Jim Jackson. D’inverno capita di assistere a questa scena: allenatori di high school che vanno a vedere gli allenamenti di Wisconsin, del maestro Ryan, entrano in palestra e vedono atleti famosi e vincenti che… si passano la palla dal petto a due mani in silenzio. Qualcuno dei giovani coach ride. “Ehi, Mr Ryan, guardi che non serve che ci faccia vedere dei finti allenamenti, non volevamo rubarle i segreti”. Lui li fissa serio: “Quali finti allenamenti?”. Imbarazzo. “Beh, cioè, questi ragazzi… cosa stanno facendo?”. Lui si volta e senza nemmeno guardarli risponde brusco: “Facciamo quello che le altre squadre non fanno in mezzo alla stagione. Lavoriamo sui fondamentali”.
Eccovi servito Bo Ryan. Burbero, tagliente, maniaco, meticoloso. Che guarda da vent'anni il campo da basket come Neo di Matrix, cioè vede una serie di linee e spazi. Si potrebbe andare avanti a lungo, dalle metafore sul baseball al suo ufficio che è una specie di museo (o santuario), al caso/incidente Uthoff (che giocava per i Badgers e cui Ryan voleva negare il trasferimento a un’altra squadra della Big Ten, Iowa, dove poi invece è andato). MC Hammer, vedendolo ballare in tv, gli offrì di comparire in un suo video musicale.
Insomma, gli aneddoti si sprecano e il suo sarcasmo è diventato leggendario. Ma per far capire che la vita di Ryan è proprio un film, non semplicemente “da film”, passiamo al suo lato tenero. Ne ha uno? Sì, e scatta quando si parla della famiglia. Nell’ultimo anno ha perso la madre e sette mesi dopo il padre, quel padre con cui andava a vedere le Final Four. “Dopo ogni partita chiamava mio nonno”, racconta Megan, la figlia di Ryan, “e commentavano la gara, e parlavano di tattica. Credo che quelle telefonate gli mancheranno molto”. I suoi nipoti, più di tutti, sono quelli che godono della sua clemenza, e non è raro vedere il vecchio Bo sedersi per fare un puzzle con il piccolo Aoife (no comment sul nome, please) o sopportare i bambini che saltano sui divani accanto a lui.
Preciso e maniacale sì, ma non troppo o non in tutti i sensi. Lui ci tiene per davvero. Vuole che i suoi giocatori seguano i suoi allenamenti perché desiderano davvero raggiungere la perfezione, non perché altrimenti saranno puniti. I suoi ragazzi sono un po’ la sua seconda famiglia. E con loro è pronto a fare tutto. Come nel video che ha fatto il giro del mondo in cui “il serio" Bo salta sulle note di Jump Around.
“Non mette troppe regole al di fuori del campo”, spiega Joe Robinson, che è stato suo assistente allenatore. “Non ha mai instaurato cose tipo un coprifuoco o regole per il comportamento in camera. Ha sempre lasciato molta libertà ai suoi atleti, dando loro fiducia”.
Fiducia ripagata. Soprattutto quest’anno, che Wisconsin ha iniziato senza perdere una partita e finito in prima pagina. Titoli tipo: “Wisconsin non sa solo difendere, sa anche attaccare”. Sì, perché Ryan sta guidando la versione più “offensiva” dei Badgers degli ultimi anni (“Ma lo dice gente che non mi ha mai visto allenare in Division III, io sfrutto il tipo di giocatori che ho nel roster”, ha commentato lui, come sempre tagliente). Poi quest’anno c’è stato un momento di flessione, qualche sconfitta imprevista. Eppure Wisconsin resta sempre un osso duro da battere. Per tutti. “Non mi preoccupo mai di chi Bo recluta”, spiega Tom Izzo, coach di Michigan State, “perché non importa. Chi se ne frega di chi va a giocare per lui, tanto, chiunque sia, si trasformerà in vincente. E qualsiasi squadra Bo alleni, sarà una squadra vincente”. Un bel complimento fatto da un altro coach ormai leggendario.
Ryan è fatto così, finisce per conquistare il rispetto degli altri, anche di chi forse non lo meriterebbe. L’anno scorso Wisconsin ha battuto la fortissima e favoritissima Indiana sul campo degli Hoosiers e Tom Crean (il coach di Indiana, sconfitto) quasi non stringeva la mano a Ryan. Una scena immortalata, e poi riproposta e discussa a lungo in America.
Quest’anno le parti si sono invertite: Wisconsin era la favorita e Indiana la squadra outsider. Hanno vinto gli Hoosiers a sorpresa, eppure Bo Ryan a fine gara ha stretto Tom Crean in un lungo abbraccio sussurrandogli qualcosa che nessuno probabilmente saprà mai. È fatto così. Se cade si rialza. Come suo padre Butch, che una volta scivolò per davvero giù dal pullman della squadra. I ragazzi si erano accalcati, preoccupati che si fosse fatto male. Butch aveva fatto capolino con la testa: “Tranquilli, ho vinto la Seconda guerra mondiale, questo cosa volete che sia”. Già, avrà pensato il figlio Bo, dopo la sconfitta contro Indiana, con la mano sulla cornetta in memoria delle antiche telefonate… già, cosa vuoi che sia.
Manuel Follis per Hoops Democracy
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