Star Blazers


Il titolo NBA del ’77 premiò il gioco di squadra di Walton e compagni anziché le tante stelle dei Sixers. E a Portland, cittadina di provincia senza grandi tradizioni nello sport di vertice, scoppiò la Blazermania

di Christian Giordano © 
BLAZERMANIA: Portland campione NBA 1977
Rainbow Sports Books ©

Gli opposti si attraggono. Lo dicono anche i sacri testi della settima arte: «Il buddy-movie tratta di due figure diverse, ma che si muovono alla pari, nella storia o nella serie. Esiste anche un’altra macro-distinzione, “di trama” e “di personaggi”: nel primo caso il peso maggiore inclina sulla dimensione narrativa, nel secondo sulle loro sfumature, sul loro carattere e la loro personalità». È una distinzione ampia e quindi vaga, ma forse funzionale per comprendere la Finale NBA 1976-77, una delle più sorprendenti di sempre: semplificando, quindi banalizzando, La Squadra, i Portland Trail Blazers, contro Le Stelle, i Philadelphia 76ers. Un epilogo non facile da pronosticare.

La stagione si era aperta con un evento destinato a fare epoca. Le franchigie ABA sopravvissute, Denver Nuggets, Indiana Pacers, New York Nets e San Antonio Spurs, avevano sborsato ciascuna 3,2 milioni di dollari per entrare fra le 22 squadre del nuovo, unico Eldorado chiamato NBA. Altri tre milioni erano serviti come indennizzo per i Kentucky Colonels, il club che assieme agli Spirits of St. Louis e ai Virginia Squires fu escluso dalla fusione tanto osteggiata – per ovvie ragioni corporative – dai giocatori di entrambe le leghe. Mentre John Y. Brown, l’ex proprietario dei Colonels, ci riprovava con un mezzo interessamento per i Buffalo Braves (i futuri Los Angeles Clippers), i Nets versavano ai Knicks 4 milioni per spartirsi con loro la piazza newyorkese. 

Così, se la National Basketball Association si apprestava a cominciare la sua 31ª stagione, la American Basketball Association chiudeva i battenti dopo nove anni di onorata attività. I suoi tanti talenti furono ricollocati con un “dispersal draft” che inevitabilmente alterò gli equilibri della “nuova” Lega. Di Maurice Lucas, ex ala grande di Kentucky accasatosi a Portland, leggete più avanti. Nell’Oregon doveva andare anche il centro degli Spirits Moses Malone, ma solo di passaggio, via-Buffalo, verso Houston. A Denver era approdato Paul Silas, fresco di titolo NBA ma in rottura, per questioni economiche, con i Celtics che invece si videro recapitare, proprio dai Blazers, Sidney Wicks. Infine, Artis Gilmore, Gail Goodrich e Nate Archibald si spostavano a Chicago, New Orleans e Nets. E a proposito di Nets, la trade-choc non poteva che essere quella che cedette ai Sixers, immediati candidati al titolo, Julius Erving, l’uomo da 6 milioni di dollari: tre ai campioni ABA in carica e tre al capocannoniere (a 29.3 punti di media) della defunta lega. 

L’acquisto di “Dr. J” rafforzava l’etichetta dei 76ers come manipolo di spiriti liberi, anche tatticamente, il cui straordinario mix di talento e atletismo fruttò 50 vittorie e il primo posto ad Est. Ma se nessuno poteva aspettarsi che la squadra che aveva chiuso all’ultimo posto della Pacific Division la stagione precedente (37-45) potesse arrivare terza nella Western Conference (a 4 vittorie dai Lakers e a una da Denver) e addirittura in Finale, nella Eastern c’erano pochi dubbi sulla «best team money can buy», la miglior squadra che il denaro può comprare, come la stampa definì quella assemblata dal GM Pat Williams per coach Gene Shue. 

In quintetto, ad innescare tre bocche da fuoco come le ali Dr. J e George McGinnis e la guardia tiratrice Doug Collins, spesso infortunato (24 le assenze in stagione regolare), provvedeva un caratterino come Henry Bibby (padre del Mike attuale pari ruolo ai Sacramento Kings, ndr); nel mezzo, il titolare Caldwell Jones si alternava al 20enne Darryl Dawkins. Dalla panchina, partivano la guardia Lloyd (World) B. Free, sesto uomo di lusso capace di sfornare jumper a lungo raggio, e le ali Joe “Jelly Bean” Bryant (il papà di Kobe), e Steve Mix e il terzo centro Harvey Catchings. Nella rotazione del backcourt entravano anche Mike Dunleavy Sr. (altro genitore d’arte: il figlio gioca nei Golden State Warriors), Terry Furlow, Jim Barnett e Fred Carter. Eppure per una simile accozzaglia di stelle affermate e impetuosi virgulti, che ai media regalava titoloni e polemiche ogni sera, la postseason non fu una passeggiata. Per impedire ai Celtics di confermarsi campioni ci vollero sette partite e sei ne occorsero per sbarazzarsi di Houston, ai tempi stranamente “inserita” a Est. Nell’ultimo atto, però, il pronostico era tutto dalla sua parte.

Portland – come sempre accade con i giocatori-franchigia, che altrimenti non sarebbero tali – era Walton-dipendente: 44-21 con il gigante dagli arti di cristallo e 5-12 in sua assenza. Nati come franchigia di espansione nel 1970, i Blazers non avevano mai raggiunto il 50% di vittorie né i playoff. Dopo due frustranti tornei con Lenny Wilkens capoallenatore, il management aveva deciso di ricostruire cambiando guida tecnica e rinunciando ai due giocatori più popolari e più prolifici, la guardia Geoff Petrie da Princeton e l’ala Sidney Wicks da UCLA, che il club aveva scelto in due draft successivi, nel ’70 e nel ’71. Il primo fu spedito ad Atlanta assieme al centro Steve Hawes in cambio della chiamata numero due nel Dispersal Draft della ABA, il secondo andò a Boston. In un sol colpo Portland aveva perso due realizzatori che nell’ultima stagione avevano viaggiato rispettivamente a 18.9 e 19.1 punti di media. Tuttavia, il vero “colpo di mercato” il nuovo coach Jack Ramsay e il GM Harvey Glickman lo avevano in casa: un Walton finalmente sano dopo due stagioni falcidiate dagli infortuni ai piedi e alle caviglie (35 presenze nel 1974-75, 51 nel 1975-76). Erano state proprio le rassicurazioni avute sulle condizioni fisiche del “grande rosso” a portare nell’Oregon l’ex tecnico di Phila e Buffalo. E con il centro in salute si rafforzava la convinzione di Ramsay e Glickman di essere lontani al massimo due giocatori “veri” per avere una squadra, se non da titolo, almeno in grado di raggiungere gli agognati playoff. Quei giocatori provenivano dalla ABA ed erano il pointman degli Squires Dave Twardzik e l’ala forte Maurice Lucas, arrivato dai Colonels grazie alla pick avuta dagli Hawks. Il controllo del corpo a mezz’aria e il ballhandling di Twardzik convinsero Ramsay a promuoverlo titolare. Lucas era il prototipo dell’“enforcer”, il duro tanto di moda nella NBA dell’epoca. “Mo” era scolpito nella roccia (2.04 x 97 kg) ma non era un giocatore monodimensionale, e accanto a Walton esplose: 20.2 punti e 11.4 rimbalzi di media. Il quintetto era completato da specialisti come la guardia tiratrice Lionel Hollins e l’ala piccola Bob Gross. Dalla panchina si alzavano invece l’ala/centro Lloyd Neal; e, come cambi nel backcourt, il rubapalloni Larry Steele, il rookie Johnny Davis e il veterano Herm Gilliam; chiudevano il roster il centro Robin Jones e le ali Wally Walker, arrivato dal draft, Corky Calhoun e Clyde Mayes, fisico impressionante e faccia truce che a Vigevano ricordano capace di disimpegnarsi anche in mezzo all’area. 

Ramsay poteva sbizzarrirsi: difesa asfissiante, rimbalzi e contropiede come se piovesse, la quintessenza del gioco di squadra da lui tanto amato. Arrivarci però non fu semplice, anche se sin dal primo giorno di training camp fu chiaro che ai Blazers la musica era cambiata. Walton, Lucas e Gilliam, leader in campo e fuori, si presentarono con qualche minuto di ritardo e il coach li multò, ottenendo l’immediata attenzione della truppa. Da lì in poi, smussata l’ansia da risultato che lo spingeva a non “tollerare” la sconfitta, la strada fu in discesa. E il calo di febbraio-marzo (10-16 il bilancio) finì nel dimenticatoio grazie al 5-0 di aprile che li proiettò nei playoff.

Nel primo turno, ai tempi al meglio delle tre partite, li aspettava Chicago, battuta in regular season quattro volte su quattro. I Bulls però avevano vinto 20 delle ultime 24 gare e quindi erano in crescendo. Trend invertito in Gara1, persa a Portland 96-83 grazie anche ai 28 assist dei Blazers, ma confermato allo Stadium, dove il baccano dei 20.000 presenti e soprattutto Gilmore nell’area pitturata si fecero sentire in un match molto fisico: 104-101, e serie pari. Per Gara3 il Memorial Coliseum era stipato e il chiasso, anche qui, assordante. Il vantaggio cambiò di mano fino a gara inoltrata e come quello precedente fu un incontro assai aspro, che Walton, Lucas e Twardzik conclusero in anticipo uscendo per falli nel quarto periodo. Con i Blazers avanti 100-98 nel finale del quarto periodo, Ramsay chiamò il gioco decisivo per Hollins che infilò il jumper quasi allo scadere dei 24”. Chicago non segnò più e il 106-98 conclusivo voleva dire semifinali di conference, contro Denver, che i Blazers avrebbero affrontato con il vantaggio del campo. 

I Nuggets, allenati da Larry Brown, avevano il secondo record della NBA (50-32), un attacco da 112 punti di media e giocatori come David “The Skywalker” Thompson dietro e una frontline con Bobby Jones, Dan Issel e Silas. I Blazers sbancarono Denver sul canestro vincente di Maurice Lucas a 11 secondi dalla fine, ma i Nuggets si presero Gara2 al Coliseum. A “Rose City” i padroni di casa s’imposero nonostante il quarantello di Thompson, poi si portarono sul 3-1 e tutto faceva pensare che avrebbero chiuso il discorso in Gara5 nel Colorado. Le Pepite partirono forte, ma già alla fine del terzo quarto il loro vantaggio era sceso a 14 punti. Nel quarto periodo il 28-14 rossonero portò la gara all’overtime. Forse anche per via dell’altitudine i Blazers finirono sulle ginocchia e Denver vinse 114-105. In Gara6 Davis rimpiazzò Twardzik, ai box per una grave distorsione alla caviglia, e non deluse. Trascinò i suoi fino al 33-16 e finì con 25 punti e 10/14 al tiro. Hollins ne mise altri 21 e i Blazers s’imposero per 108-92. In finale di conference li attendevano i Lakers dell’MVP Abdul-Jabbar, una sfida nella sfida quella con l’illustre predecessore di Walton a UCLA.

In Gara1 al Forum scatta il piano messo a punto da Ramsay per contenere Kareem: impedirgli di ricevere il pallone nello spot preferito, costringendo così le guardie gialloviola, prive di una seconda opzione offensiva credibile, a portar palla dal lato “sbagliato” del campo. La tattica, insieme alla buona serata al tiro dei titolari rossoneri, portò dritto al 121-109 Blazers. Con Davis in campo nei frangenti importanti, i Blazers guadagnavano in velocità, specie in difesa, dove Neal si confermò bravissimo nel difendere su un giocatore più alto, Abdul-Jabbar, come già aveva fatto con Wilt Chamberlain o Bob Lanier. Gara2 ebbe un andamento diverso. Portland tirò male dal campo, permettendo a Los Angeles di prendere il largo nel primo quarto. Poi entrò Gilliam. Trascurato in regular season, era stato sul punto di cedere alle lusinghe di New Orleans (dove allora c’erano i Jazz, ndr), ma era rimasto. In Gara2, “Trickster” (il prestigiatore) cominciò ad infilare un tiro impossibile dietro l’altro e il suo 12 su 18 portò 24 punti decisivi per la rimonta del secondo tempo. Portland vinse 99-97 e tornò nell’Oregon fra i cori di «Sweep! Sweep! Sweep!» urlati a squarciagola dai tifosi. Nonostante i 30 punti e 16 rimbalzi di media di Kareem, la serie sembrava aver imboccato una strada senza ritorno. Con il grande quarto giocato da Walton in Gara3 e la difesa attuata dal duo Davis-Hollins in Gara4, i Blazers confezionarono ai Lakers il più imprevedibile dei cappotti. A quel punto, la Blazermania che aveva contagiato la Città delle rose e l’intero Stato pretendeva il bersaglio grosso, il titolo: anche perché, vincendolo, i Blazers avrebbero scritto la storia di un’intera comunità sostanzialmente priva di grandi tradizioni nello sport di vertice.

A differenza degli altri avversari incontrati da Portland in postseason, Philadelphia non sottovalutò i Blazers, anzi li mise sotto sin dall’avvio di Gara1, vinta 107-101 e aperta da una tonante schiacciata di Erving (33 punti, tutti molto acrobatici) lanciato direttamente dalla palla a due. Più ancora del trentello di Collins, il vero fattore fu la sorprendente difesa dei Sixers, specie di Bibby su Hollins, che sfociò in 34 palle perse dai rossoneri. Sull’altro fronte, Ramsay aveva deputato Gross alla marcatura di Dr. J, evitando di ricorrere a trappole difensive che secondo lui avrebbero potuto snaturare il gioco che li aveva portati sino alla Finale. 

Quattro giorni dopo, i Sixers, se possibile, fecero addirittura meglio. Dopo i 28 punti e 20 rimbalzi concessi a Walton in Gara1, la coppia Jones-Dawkins gli prese un po’ le misure. Con una fiammata da 14 punti in tre minuti, all’intervallo Phila conduceva 61-43, poi viaggiò sul velluto sino al 107-89 conclusivo. Ma a cinque minuti dal termine era accaduto un episodio che si sarebbe rivelato, per usare le parole di Walton, «il punto di svolta della serie». Prima c’era stata una scaramuccia tra Neal e McGinnis. Poi erano volate gomitate tra Lucas e Erving. Infine, lottando su un rimbalzo, si erano accapigliati Gross e Dawkins. A qualche parolina di troppo del primo, era seguito un gran manrovescio del secondo che però, anziché Gross, abbassatosi all’ultimo momento prima di cadere a terra, aveva colpito Collins, intervenuto per trattenere Gross e sedare la rissa. Per suturargli il taglio sopra l’occhio c’erano voluti quattro punti. Ma non era finita lì. Nel frattempo Lucas aveva colpito Dawkins da dietro e da lì era nato un immane parapiglia che aveva coinvolto i componenti le panchine, compreso Ramsay che inseguito dall’assistente Jack McKinney era andato a sfidare nientemeno che “Chocolate Thunder” Dawkins, spettatori, agenti della sicurezza e persino gli arbitri. Dawkins e Lucas furono espulsi e multati di 2500 dollari, «ma – continua Walton – il messaggio di Maurice fu chiaro: “Don’ever mess with any of my teammates again”». Ossia, non ci riprovare o sono dolori. 

Fuori di sé dalla rabbia, Dawkins devastò gli spogliatoi, toilette compresa, e una lavagna. Poi ci fu l’inevitabile appendice in sala stampa, dove l’eccentrico Darryl spesso regalava il meglio di sé. «Sono troppo professionale per lasciarmi trasportare da queste cose – aveva dichiarato Lucas – Ma quel bellimbusto (eufemismo, ndr) è stato allevato come un gorilla e crede di poter fare il gorilla con tutti. Con lui ci rivediamo domenica». Pronta la replica dell’autoproclamatosi abitante del pianeta Lovetron: «Lucas è un fighter, ma anch’io so boxare. Mio zio, Candy McDaniels, ha combattuto contro Joe Louis. E qualcosina me l’ha insegnata: monta la guardia col sinistro e poi stendili col destro». 

La serie si trasferiva al Memorial Coliseum con un’atmosferina niente male, invece ecco il colpo di teatro. Quando lo speaker ne annunciò il nome, Lucas si avvicinò alla panchina di Philly per fare pace. Strinse la mano a Dawkins e disinnescò una situazione potenzialmente esplosiva. A esacerbare gli animi erano state le polemiche scatenate dal philadelphiano e da lui ribadite nel venticinquennale della sfida. Riguardavano lo scontro ideologico fra il basket “nero” dei ghetti (più individualista e caotico) sciorinato dai suoi Sixers e il basket “bianco” di Portland, intesa come città, fra le più bianche degli USA, e come squadra: Twardzik, Gross, Steele e Walton erano giocatori-chiave «e anche i neri Hollins, Lucas, Davis e Neal giocavano un basket “bianco”, disciplinato e altruistico»; ma anche la benevolenza della Lega per il bianco e, secondo lui, sopravvalutato Walton e le sue “uscite” politiche «che, se le avesse fatte un nero, sarebbe stato bandito in un batter d’occhio». Darryl, già pronto alla battaglia, rimase spiazzato da quella dimostrazione di sportività e assieme alle intenzioni bellicose perse anche tutto il proprio furore agonistico, «trasformandosi in una “big sissy” – una gran fighetta, secondo il nemico storico Walton – per il resto della serie. Lucas dominò Gara3 con una prova da 27 punti e 12 rimbalzi che annichilì il suo avversario diretto, McGinnis, e invertì l’inerzia della Finale. Ramsay, come sempre in quella magica stagione, aveva azzeccato ogni mossa, compresa quella di cambiare il quintetto iniziale. Recuperato Twardzik, il coach non se l’era sentita di rinunciare alla rapidità di Davis e il 129-107 conclusivo gli aveva dato ragione: la serie era riaperta. In Gara4 i suoi disputarono forse la miglior partita stagionale e sul vantaggio iniziale di 17 punti spianarono i Sixers 130-98. Nemmeno un Walton a lungo in panchina per 5 falli già nel terzo quarto fermò i Blazers, che in casa nei playoff erano ancora imbattuti. Ma ora, si chiedeva la critica, sarebbero riusciti a vincere a Philadelphia?

In Gara5 Portland partì a raffica segnando 40 punti nel primo quarto, una dimostrazione di forza che gelò lo Spectrum. Gross giocò la sua miglior partita di playoff e oltre a “curare” il Dottore diede un sostanzioso contributo anche in attacco: 25 punti con 10 su 13 al tiro e la ciliegina di 5 assist. Il 110-104 finale portò i Blazers a un passo dal titolo, e quale migliore occasione, vincendo al Coliseum, di festeggiarlo davanti ai propri tifosi.

Domenica 5 giugno ’77 è un giorno che vivrà per sempre nelle menti dei Portlanders e, in generale, degli Oregonians ma i Sixers non erano lì a fare la vittima sacrificale. Erving e McGinnis segnarono insieme 68 dei 107 punti dei 76ers, ma non bastò. A meno di 30 secondi dall’ultima sirena, i Blazers erano sopra di due. Philly aveva la palla del 109-pari per mandare la partita all’overtime. Dr. J tentò un jumper, lo sbagliò, prese il rimbalzo e tirò di nuovo, ma fu stoppato da Gross che gli spedì il pallone sul fondo. 

A 5” dal termine, usando Erving come esca, McGinnis ebbe il tempo di mirare ma tirò lungo. La conoscenza del gioco di Walton e la sua capacità di saper stare in campo gli permisero una giocata memorabile: anziché rischiare, nel ricadere a terra, di vedersi strappare la palla, staccò più in alto di Dr. J e la toccò per il liberissimo Davis che corse fino allo scadere fissando il più storico degli highlights di quell’indimenticabile stagione. 

Il Coliseum esplose. Walton, MVP della Finale, chiuse il match con 20 punti, 23 rimbalzi, 7 assist e 8 stoppate. Una prestazione-monstre che commosse persino Ramsay, l’altro grande artefice del miracolo rossonero: «Bill è il miglior giocatore, il miglior lottatore e la miglior persona che io abbia mai allenato». Ebbro di gioia, il Rosso si tolse la canotta numero 32 e la lanciò alla folla in estasi: i Blazers erano campioni del mondo. 

L’indomani si radunarono in 250 mila alla Terry Schrunk Plaza per la parata celebrativa del primo titolo nella storia della franchigia, della città, dello Stato. Nell’occasione, Walton tenne uno dei suoi celebri discorsi. Ma stavolta non parlò contro la guerra in Vietnam, delle sue idee di Sinistra (intesa all’americana, non come a Botteghe oscure), del suo essere vegetariano, e nemmeno degli adorati Grateful Dead. Ringraziò i tifosi, poi chiese a chi gli aveva rubato la bicicletta se per favore gliela restituiva, cosa che avvenne puntualmente, dopo di che rovesciò della birra sulla testa del compitissimo sindaco Neil Goldschmidt. Una scena da buddy-movie.
Christian Giordano

Il roster dei Portland TrailBlazers campioni NBA 1976-77: 

Numero
Nome
Ruolo
Statura
Peso
College
10
Corky Calhoun
F
6-7
210
Pennsylvania
16
Johnny Davis
G
6-2
170
Dayton
3
Herm Gilliam
G
6-3
190
Purdue
30
Bob Gross
F
6-6
200
Long Beach State
14
Lionel Hollins
G
6-3
185
Arizona State
34
Robin Jones
F
6-9
225
St. Louis
20
Maurice Lucas
F
6-9
215
Marquette
23
Clyde Mayes (*)
F
6-8
225
Furman
36
Lloyd Neal
F-C
6-7
225
Tennessee State
15
Larry Steele
G
6-5
180
Kentucky
13
Dave Twardzyk
G
6-1
175
Old Dominion
42
Wally Walker
F
6-7
190
Virginia
32
Bill Walton
C
6-11
210
UCLA

Head coach: Jack Ramsay
Assistant coach: Jack McKinney

(*) Arrivato dai Buffalo Braves via-Indiana Pacers.


La Finale NBA 1976-77:
Portland Trail Blazers – Philadelphia 76ers 4-2

Gara1, domenica 22 maggio, Philadelphia-Portland 107-101 
Gara2, giovedì 26 maggio, Philadelphia-Portland 107-89 
Gara3, domenica 29 maggio, Portland-Philadelphia 129-107 
Gara4, martedì 31 maggio, Portland-Philadelphia 130-98 
Gara5, venerdì 3 giugno, Philadelphia-Portland 104-110 
Gara6, domenica 5 giugno, Portland-Philadelphia 109-107 

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