Ottanta voglia di Vuelta

di SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo

Oggi, sabato 22, parte la Vuelta Grandi Firme. Per l'entusiasmo di molti, e lo scetticismo di alcuni, il terzo Grande Giro dell'anno - in tutti i sensi - sta diventando un cespite di valore nelle mani dell'inarrestabile Amaury (la potentissima società del Tour de France). Quest'anno poi, grazie a una serie di circostanze fortunate, le scelte dei ras - soprattutto i tappisti - ne hanno fatto una sorta di rivincita immediata della recente Grande Boucle.

L'ultimo ad accettare la sfida è stata la maglia gialla: Chris Froome potrebbe essere il primo campione a fare la doppietta con il nuovo calendario, lui che si rivelò proprio in Spagna nel 2011, quando le scelte tattiche di Team Sky - che costrinsero il keniano bianco a far da sgobbone a Sir Bradley Wiggins - regalarono la roja al carneade Juan José Cobo.

Reduci anche loro dal podio della Festa di Luglio, i Movistar Quintana-Valverde promettono battaglia: con tredici giorni di alta e media montagna nelle tre settimane, inutile sottolineare che il colombiano - che l'anno scorso cadde rovinosamente con le insegne di leader addosso - sembri il logico favorito. Avrà contro pure Tejay Van Garderen e soprattutto lo squadrone Astana, mostro a tre teste (Nibali, Aru e Landa) che potrebbe realizzare il colpaccio o dissolversi nelle rivalità interne.

Gli outsider? Il vecchio Purito Rodriguez, Rolland, Pozzovivo. Considerando l'atipicità della prova, che negli ultimi anni ha regalato molte sorprese, spendiamo il nome dell'americano Joe Dombrowski, ventiquattrenne dal palmarès giovanile sontuoso che, all'approccio coi pro, ha deluso. Vincitore ad agosto del Tour of Utah, salendo verso Snowbird ha mostrato lampi di quel potenziale che, da Under 23, cioè appena tre anni orsono, lo facevano considerare - con il Condor Nairo Quintana - il miglior prospetto della sua generazione.
Il resto della truppa è meno scintillante; in pista, dei classicomani, ci sono quelli che devono recuperare la condizione dopo una serie di infortuni (Cancellara, Gerrans, Dumoulin, Bouhanni), John Degenkolb e Peter Sagan sembrano invece i più pronti alla trasferta americana.

In prospettiva Mondiale gli assenti in Spagna sono la maggioranza: a Ponferrada, nel 2014, comandò chi gareggiò tra il Canada e il Tour of Britain. Quest'anno, su un circuito cittadino a metà fra una piccola Ronde e l'Amstel Gold Race, i chilometraggi ridotti e le salite della Vuelta rifiniranno la gamba il giusto.

La Vuelta funziona perché raccoglie i cocci del Tour e culla i sogni iridati. E' dura ma bonsai, non vanta il livello tecnico e agonistico del Grande Ricciolo, nemmeno la severità dei tracciati (esigentissimi) del Giro d'Italia: vive di tante erte finali (il marchio di fabbrica, nel 2015 ben dieci) e poco altro. Rampe "televisive", sperimentazione a uso e consumo dell'ASO. E' un ciclismo miniaturizzato, nell'attesa del sentiero per capre appena asfaltato. Il rovescio della medaglia l'abbiamo visto all'ultimo Tour: deciso, all'esordio, da un ventaglio nella Zelanda e dalla primissima vetta pirenaica. La mancia sono state le punture di spillo. 

In una Roja che percorre la penisola iberica in senso antiorario, la partenza da una spiaggia dell'Andalusia (che lascia perplessi parecchi corridori...), i passaggi-chiave dovrebbero essere almeno tre. I 138 chilometri della Andorra La Vella-Cortals d'Encamp, unico sconfinamento della competizione, sei gipiemme con la temuta Collada de la Gallina e l'arrivo all'insù ai 2095 metri sul livello del mare, il 2 settembre (tappa numero undici). I dì prima e dopo il (secondo) riposo, cruciali la Luarca-Quiròs (184 km, il 7 settembre) con l'Alto Ermita de Alba, sentiero bitumato con un tratto quasi al 22% di pendenza. E poi, il 9, la cronometro individuale attorno a Burgos, 38,7 chilometri per specialisti. Chi indosserà la camiseta rossa a Madrid, domenica 13, avrà digerito bene questo filotto.

Vent'anni fa, prima edizione settembrina del Giro di Spagna; che nacque bipolare, con i Campionati Mondiali in Colombia e molti ras a prepararlo in Sud America: a Duitama il destino, beffardo, si concretizzò nel contrattacco di Abraham Olano, protagonista di quella Vuelta, che tolse l'iride al capitano Miguel Indurain.
Il basco vinse le tre prove a cronometro e si piazzò secondo dietro un irresistibile Laurent Jalabert, che mise la ciliegina sulla torta di una stagione (il '95) incredibile. Dominarono la contesa, lui e la ONCE, inserendo anche Bruyneel (terzo) e Mauri (quarto) nell'élite della classifica generale. Epolandia altissima, Jaja rimase un fuoriclasse-simulacro di quell'èra: da velocista "resistente" a Mister Versatilità in un biennio.

Dieci anni prima (1985), la mai abbastanza celebrata Vuelta rubata, uno dei massimi esempi di corsa contraffatta per favorire un indigeno. Dalle parti del Tour 1947 o del Giro 1984, forse meglio. Sino alla diciottesima tappa un confronto caratterizzato, quella volta tra aprile e maggio, dai successi parziali della Panasonic di Peter Post e dalla voglia di vincere del solito Sean Kelly, con un ventenne di belle speranze, tale Miguel Indurain, capintesta per quattro giorni. Per l'amarillo emerse la regolarità di Robert Millar, grimpeur di lusso, fin lì degno vincitore dell'ambaradan.

Ma il pomeriggio dell'Alcalà de Henares-Dyc si scatenò il finimondo: il programma prevedeva tre colli e lo scozzese precedeva di soli 10 secondi Pacho Rodrìguez e di 1'05" Pello Ruiz Cabestany. Sulla Morcuera, primo scollinamento nel menu, Rodriguez attaccò invano il portacolori della Peugeot; all'abbrivio del Cotos, Millar forò e dovette inseguire à bloc Rodriguez stesso e Ruiz Cabestany. Sull'ultimo puerto, Los Leones, si ricongiunse coi rivali e la disputa parve conclusa. Nel frattempo però accadde altro: davanti, in fuga, José Recio, passista formidabile, fu raggiunto da Pedro Delgado, compagno di squadra all'Orbea di Cabestany, distanziato di oltre sei minuti nella generale. Il Trofeo Baracchi davanti, una specie di calma apparente dietro e Millar - che ricevette la sua dose quotidiana di sputi e insulti - senza coéquipier e nella trappola.
Come dichiarò il diesse della Peugeot, Roland Berland: "Avevamo l'intero plotone contro...".
A cinquanta chilometri dal traguardo, Recio e Delgado avevano 1'40" sul gruppettino di Kelly, che chiamò a raccolta la Skil per riprenderli. Alle Distillerie Dyc il vantaggio era raddoppiato e Millar non usò giri di parole: "E' quello che succede in Spagna, se sei spagnolo e corri nella scia di una motocicletta...".
In soldoni "Perico", l'idolo di casa, vinse la Vuelta con 36" sul buon Robert (che oggi si chiama Philippa York e ha cambiato sesso e vita...) e 46" su Rodriguez.
Delgado avrebbe bissato la vittoria nel 1989, stavolta in un O.K. Corral esaltante contro Fabio Parra e la tribù colombiana, in una delle annate più appassionanti nella storia della manifestazione iberica.
Pubblicato il 22 agosto 2015, Il Giornale Del Popolo

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