FINALI MONDIALI - Città del Messico 1970: troppo forte!
Tre giorni. Pochi, troppo pochi. non possono bastare 72 ore di riposo tra i 120’ da leggenda di Italia-Germania Ovest 4-3 e il Brasile dei «cinque numeri dieci».
Difatti non bastano. E la scoppola che ne ricaviamo va ben oltre il divario, comunque netto, che separa due formazioni destinate, ciascuna a suo modo, a fare epoca. il «povero» Ct azzurro Ferruccio Valcareggi, uomo di buon senso che aveva fatto della modestia uno stile di vita, si trovava a dover gestire questioni più grandi di lui. il presidente federale Walter Mandelli, archiviata momentaneamente con successo la spinosa pratica-Rivera, sembra sul punto di esplodere come un tappo di Cartizze tanto sprizza entusiasmo. il tecnico sa da uomo di campo quali insidie possono nascondere le tossine, e la sindrome da appagamento.
Due anni prima, nella finale-bis degli Europei, Valcareggi aveva azzeccato il colpo della vita cambiando mezza squadra. dopo Italia-Germania ovest bisognava forse avere la forza e l’autorevolezza, più che l’autorità, che è tutt’altro paio di maniche, di fare altrettanto. Ma chi glielo va a spiegare ai ragazzi che fin lì ci sono arrivati?
LA PARTITA
107.412 sono i biglietti venduti per la finale. il teatro, il monumentale stadio Azteca di Città del Messico, è straordinario: un’astronave all’interno della quale lo spettatore più lontano dal terreno di gioco dista appena 124 metri. Se pensiamo che al delle alpi di Torino, costruito 25 anni dopo, quello più vicino se ne sta a 27, forse c’è qualcosa che non va. Sorvoliamo.
Il Brasile viene da 5 vittorie consecutive (15-6 il computo dei gol) e, Inghilterra a parte, ha rifilato almeno tre gol a ogni avversario, dato statistico che fa ancora più paura scorrendo l’undici iniziale mandato in campo da Zagallo.
Il direttore di gara, Rudi Glöckner, è un tedesco dell’est laureato in pedagogia che ha diretto gli azzurri due settimane prima, nello 0-0 di Puebla con l’Ungheria.
Già dal fischio d’avvio si delinea il piano tattico studiato da Valcareggi.
Tutto come da copione: rosato va su Tostão, Facchetti segue Jairzinho mentre Burgnich va sulle piste di rivelino. di Pelé si occupa Bertini quando “o rey” arretra sulla trequarti, salvo poi scambiarsi avversario con Burgnich ogni qual volta il numero dieci brasiliano va a fare la punta. Come al 18’, per esempio. Fino a quel momento gli azzurri tengono bene il campo, la manovra sudamericana fa fatica a decollare e sembrano in controllo della gara. Tostão batte una rimessa laterale per rivelino, che da sinistra lascia partire un altissimo traversone. a centro area Pelé, chiaramente munito di elicottero, raggiunge quote siderali, si ferma una decina di secondi a galleggiare a mezz’aria e in un’istantanea entrata direttamente nella storia del calcio, sovrasta il povero Burgnich di un buon mezzo metro. La perla nera incorna di prepotenza e precisione indirizzando il pallone alla sinistra di Albertosi. 1-0. L’Italia però sorprende positivamente. non si perde d’animo e anzi, 19 minuti dopo, agguanta il pareggio.
Everaldo sbaglia un disimpegno fuori dalla propria area, Boninsegna si avventa sulla palla. Félix esce sino al limite, c’è un rimpallo con Brito poi “Bonimba”, accorso come un rapace sulla preda, anticipa tutti, anche riva, e mette dentro di sinistro. Uno a uno, tutto da rifare. incredibile.
Al 45’ c’è un brivido piccolo piccolo. Gérson batte una punizione, nel frattempo arriva il duplice fischio dell’arbitro che sancisce la fine del primo tempo, e quando la palla giunge a Pelé, l’asso brasiliano prova a fare il furbo segnando a gioco fermo. Il sorriso di Glöckner stempera sul nascere ogni nervosismo. Come non fatto.
L’intervallo è insolitamente lungo. al di qua dell’oceano, ci si aspetta la famosa (famigerata?) «staffetta» Mazzola-Rivera. Valcareggi, invece, non se la sente. L’Italia «tiene» e lui a modificarla non ci pensa nemmeno. Sandrino resta in campo. Rivera si macera in panchina.
Sugli spalti, i tifosi e i simpatizzanti carioca sono ammutoliti: temono che gli azzurri infilino il secondo miracolo consecutivo. Purtroppo per gli italiani, tanto allarmismo sarà ingiustificato.
Ripresa. L’Italia, la cui manovra è tutta scatti e progressioni, comincia ad accusare la fatica e lentamente ma inesorabilmente consegna metri e metri di campo al «morbido» palleggio dei sudamericani. al 60’, la traversa colpita da rivelino è qualcosa di più che un campanello d’allarme. Cinque minuti dopo arriva la mazzata decisiva. Facchetti ferma Jairzinho ma la palla viene recuperata da Gérson, che di prima intenzione tira una «sassata» infilando Albertosi da lontano. 2-1 e gara in mano al Brasile. Che infierisce. Sarebbe questo il momento giusto per giocare Rivera, la carta della disperazione. Valcareggi però lo «dimentica» in panchina.
Se perché in piena trance agonistica o per indicazioni dall’alto, non lo sapremo mai. in ogni caso la figura del Ct, fino a quel momento criticabile solo per la prima fase del torneo, non ne esce ingigantita. Anzi.
Al 71’ il Brasile mette la gara in ghiacciaia, con Jairzinho. Su di lui Facchetti disputa una strepitosa gara di contenimento, ma poi deve cedere. Punizione di Carlos Alberto per un fallo di “Domingo” su Pelé. il laterale tocca per Gérson, lancio per Pelé che di testa, da destra verso sinistra, «spizza» un invitante pallone per il lanciatissimo numero 7 che con una gran sventola anticipa Facchetti e Albertosi e fa 3-1. Buonanotte suonatori.
Boninsegna, indomito combattente, è l’ultimo azzurro ad arrendersi.
A cavallo del 78’ ha due occasioni in un minuto ma le spreca.
Nella prima viene fermato dalla difesa verdeoro, nella seconda in bello stile da Félix.
Ci siamo. eccoci al 39’ del secondo tempo, ai (mica tanto) «mitici» (e ormai mitologici) Sei Minuti di Rivera, una «punizione», se tale è stata, ma di sicuro così è apparsa, che il Golden Boy non merita. e forse nemmeno Valcareggi, che, con quella mossa invero assai infelice, farà la figura del lupo cattivo. il Ct, mandandolo in campo al posto di Boninsegna, esce solo allora dallo stato catatonico in cui vegeta già da parecchi minuti. o forse, ipotesi più accreditata, è una vendetta mandelliana a determinare la sua scelta. oggi succederebbe il finimondo.
Allora, Rivera – educato e compunto – fa quel che ci si aspetta da un professionista profumatamente remunerato ed entra in campo. e va a prendersi la sua fetta di sconfitta, una torta salatissima che pure non gli appartiene. i motivi di quei fatidici sei minuti, ancora oggi, nessuno ha mai saputo (voluto?) chiarirli. Al confronto Ustica, per citare uno dei mille casi irrisolti di questo nostro strano Paese, è il segreto di Pulcinella.
86’: i brasiliani fanno poker. La punizione è forse troppo severa, ma questi concorrono per il gradino più alto nel podio ideale delle squadre più grandi di sempre e non possono permettersi sconti.
Coast-to-coast impostato da Jairzinho e magistralmente rifinito da Pelé, che temporeggia fino all’ultimo prima di «chiamare» l’inserimento in sovrapposizione dell’arrembante Carlos Alberto. “O rei” lo vede con la coda dell’occhio e lo aspetta, poi gli tocca corto il pallone e il capitano lascia partire una fucilata che fa secco l’incolpevole Albertosi. e sono quattro. Può bastare.
Il Brasile soffia all’Italia la conquista definitiva della Coppa Rimet, trofeo destinato alla nazione capace di portarselo a casa per tre volte.
Da Germania ’74 ci sarà un nuovo trofeo, la Coppa FIFA. Pelé si gode il suo terzo (il secondo da protagonista) sigillo mondiale e viene issato in trionfo per il tradizionale giro di campo. Gli azzurri escono battuti ma a testa alta. il loro torneo è stato strepitoso. Solo
la becera feccia di certi pseudo-tifosi italiani non l’ha capito. Gli stessi che al ritorno a Fiumicino li accoglieranno a pomodori e che li costringeranno a riparare negli hangar dell’aeroporto. il tempo però sa essere galantuomo. Quel gruppo di campioni tramonterà quattro anni dopo, a Monaco. La generazione dei «messicani», così passerà alla storia, perse col Brasile una Coppa che non poteva vincere. Ma vinse con la Germania una Partita che non poteva perdere.
LA TATTICA
Contro quel Brasile c’è poco da fare. Però l’Italia, almeno nella prima mezz’ora, e cioè quando le energie non sono ancora spese del tutto, non soltanto in partita ci rimane ma la «fa». e questo perché anche gli azzurri sono una signora squadra. e ci rimarrà il dubbio di come sarebbe andata a finire se avessero affrontato quei fenomeni perlomeno a parità di condizioni (fisiche): forse avrebbero perso lo stesso, di sicuro non con tre gol di scarto.
In porta, il candidato in rimonta Albertosi aveva vinto il «ballottaggio» nei confronti di Zoff, titolare della maglia numero uno agli europei del 1968.
La difesa, schierata rigorosamente all’italiana, ha come libero l’ex centrocampista Cera dietro lo stopper rosato, rincalzo di lusso che prende il posto di Niccolai, infortunatosi contro la Svezia nell’incontro inaugurale, e l’altro marcatore Burgnich, il numero 2 per antonomasia, quando i numeri di maglia nel calcio avevano ancora un senso. Fluidificante di sinistra è il primo terzino d’attacco del nostro football, quel Facchetti ormai monumento calcistico nazionale.
Sull’altra fascia, a centrocampo, corre un «pendolo» instancabile con la dinamite nei piedi e il curaro nella lingua, Domenghini, probabilmente all’apice della sua eccezionale carriera. nel mezzo, irrisolta la briga Mazzola/Rivera, il settepolmoni Bertini – aguzzino ufficiale della mezzapunta avversaria più pericolosa – e il «tessitore» de Sisti, uno degli ultimi grandi registi visti in maglia azzurra.
In attacco, riva e Boninsegna: due satanassi destinati forse a pestarsi i piedi, date le caratteristiche (troppo simili per certi versi, meno per altri), ma che fanno paura solo a guardarli tanto sono temibili.
Aggettivo, questo, che con Bonimba assume valenza doppia, vista la sua abitudine a farsi rispettare nella giungla degli ultimi sedici metri. Parafrasando ciò che il Vietnam (o, nei sequel, qualunque giungla) era per Rambo, quella che gli altri (attaccanti) chiamano inferno, l’area di rigore, lui la chiama casa.
Entrambi mancini, fortissimi sul piano fisico e in acrobazia e portati ad accentrarsi per trovare l’unica ragione che li faceva scendere in campo, il gol. due attaccanti che il mondo intero ci invidia e che certe malelingue in servizio permanente effettivo hanno sempre cercato di far passare come nemici. i due, in realtà più simili di quanto disposti ad ammettere, hanno sempre smentito e forse a dividerli era ciò che li univa: la loro insaziabile fame di gol.
Per ultima abbiamo lasciato l’intricata questione della staffetta. Ad oltre trent’anni di distanza, crediamo di poterne parlare liberamente e senza timore di essere tacciati di partigianeria. Qualcuno l’ha definita una genialata perché con la velocità di Mazzola, schierato dall’inizio, si sfiancavano gli avversari, mentre con Rivera, fisicamente meno prestante, gli stessi venivano «finiti» grazie agli assist, alle aperture sempre illuminate e illuminanti che il milanista, finché fresco, sapeva regalare alla prima linea. a noi, immodestamente, una soluzione del genere sembra una boiata pazzesca.
I giocatori, per chi lo avesse dimenticato, sono artisti, e in quanto tali, primedonne. Hanno bisogno di sentirsi importanti e considerati. Come pretendi di spiegare a due campioni che hanno ai loro piedi le due metà della Milano calcistica che una volta smessi i rispettivi colori, diventano degli «accessori» ad una superiore ragion di stato? Certo, parliamo col senno di poi e dopo un 4-1. Ma siamo sicuri che queste osservazioni siano direttamente figlie del risultato? Noi pensiamo di no, e la storia del calcio, al riguardo, ci è di ampio, amplissimo conforto. Quali benefici ha portato la tanto decantata staffetta?
E, per contro, quali conseguenze? A costo di passare per inguaribili sostenitori del bicchiere mezzo vuoto non riusciamo a vedere altro che le spaccature, evidentemente insanabili, se ne parliamo ancora oggi, oltre sei lustri dopo: nel gruppo (gli attaccanti, pro-Rivera per le preziose assistenze, contro i difensori, pro-Mazzola per i generosi rientri), fra i diretti interessati, tra i ventidue e il selezionatore, tra i singoli e la Federazione. O no?
Il Brasile, quello sì che era uno squadrone al di sopra di ogni sospetto. Era la tecnica nella sua massima espressione, la quintessenza del futebol bailado, il calcio ballato in punta di bulloni del quale è impossibile non innamorarsi.
Dopo il breve intermezzo di calcio atletico (leggi: botte) visto in Inghilterra nel ’66, che privò gli auriverdes della loro più fulgida stella, Pelé, i brasiliani si issano per la terza volta sul tetto del mondo schierando insieme in attacco cinque potenziali numeri dieci: da destra a sinistra, Jairzinho, Gérson, Tostão, Pelé e Rivelino. Alla faccia della staffetta.
Il Ct Zagallo, che avremo tra i piedi per un bel po’, davanti all’affidabile portiere Félix schiera, naturalmente a zona, una linea a quattro comprendente Carlos Alberto (quasi un’ala), Brito, Piazza (gigantesco centrocampista riciclato in difensore centrale per una felice intuizione del Ct) ed Everaldo.
In mediana, visto l’enorme numero di mezze punte a disposizione, decide di fare di necessità virtù impiegandole tutte.
È chiaro che così facendo si vota al possesso di palla più sfrenato, peraltro assai congeniale a palleggiatori tanto sopraffini. dei cinque «dieci» o presunti tali, Gérson fa il regista, Jairzinho, per la sua velocità, viene messo all’ala destra – e le sue sovrapposizioni con Carlos Alberto saranno letali per ogni avversario – mentre dall’altra parte ci va Rivelino, che pure non è uomo di fascia.
L’unico centrocampista di ruolo rimane così Clodoaldo. Di punta, Tostão e il 30-enne Pelé, alla sua ultima recita sul palcoscenico mondiale. Più che uno squadrone, una corazzata inaffondabile. E inaffondata.
CHRISTIAN GIORDANO ©
IL TABELLINO
Città del Messico (estadio Azteca), 21 giugno 1970, ore 12
Brasile-Italia 4-1 (1-1)
Brasile: Félix; Carlos Alberto (C), Everaldo; Clodoaldo, Brito, Piazza; Jairzinho, Gérson, Tostão, Pelé, Rivelino. Ct: Zagallo.
Italia: Albertosi; Burgnich, Facchetti (C); Bertini (Juliano dal 73’), Rosato, Cera; Domenghini, Mazzola, Boninsegna (Rivera dall’84), De Sisti, Riva. Ct: Valcareggi.
Arbitro: Rudolf Glöckner (Germania Est).
Marcatori: 18’ Pelé (B), 37’ Boninsegna (i), 65’ Gérson (B), 70’ Jairzinho (B), 86’ Carlos Alberto (B).
Spettatori: 107.412.
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