FOOTBALL PORTRAITS - Eto'o, l'ultimo Samurai (2014)


A volte, i segni del destino te li porti addosso. Come cicatrici. Samuel Eto’o li ha ancora, quei segni, sul ginocchio che un grosso cane nero – sfidato per difendere una baguette – gli ha marchiato da ragazzino. Era piccolo e veloce, Samuel. Grosso e nero, quel cane. Come la Mercedes che a 15 anni gli cambia la vita. Segni del destino che Samu si porta dentro e addosso. Come cicatrici sulla pelle. Orgogliosamente nera.

È un falso mito quello del piccolo Eto’o poverissimo. Nato il 10 marzo 1981 (ma sull’anno si dubita), è cresciuto nella polverosa ma dignitosa periferia di Nkongsamba, a 145 km da Douala, un tempo capitale del protettorato tedesco, e a 370 da Yaoundé, capitale del Camerun. Nkongsamba è una cittadina agricola legata alla coltivazione e alla commercializzazione del caffè. Papà David però è commercialista e, con mamma Christine, ai sei figli – Sidonie, Samuel, Madeleine (Mado), Pauline, David Pierre e Étienne Emmanuel – non fa mancare niente. Almeno finché non perde il lavoro e deve riportare la famiglia a Douala. La miseria sa aspettare. «È una famiglia che ha sofferto» spiega Jean-René Noubissi, che all’epoca lavorava al fianco di Jospeh “Diallo” Siéwé, talent scout oggi attivo nella Fondazione Samuel Eto’o (Jean Marie Dongou, canterano del Barça classe ’95, l’ultima scoperta). «Quando segnava, Samuel riceveva 100 franchi locali per una bottiglia d’acqua o uno spiedino. La vita era dura, ma gli Eto’o sono dell’etnia Bassa’a (uno dei 200 ceppi linguistici bantu censiti, ndr), tribù nota per l’irriducibilità dei suoi combattenti».

ÇA VA SANS-PAPIER

Samu a 13 anni gioca nell’Avenir, a 14 nell’Uch e intanto tira su qualche soldo vendendo pesce per le strade di Douala, capitale economica e principale porto d’ingresso del Paese. Il suo sogno si limita a «papà che veniva a vedermi giocare» e il suo idolo (con Muhammad Ali) è Roger Milla. «Ho sempre voluto somigliargli» ha raccontato. «Il calciatore africano più grande, specie per le qualità umane». Già a 14 anni, con i fratellini David (1987) e Étienne (1990), nati a Yaoundé e oggi ex professionisti, sbarca a Carpentras, in Francia. Per problemi burocratici, lì non possono andare a scuola né essere tesserati. Sono sans-papier, come oltralpe chiamano gli immigrati sprovvisti dei documenti di cittadinanza. Ufficialmente, non “esistono”. E, dopo un breve soggiorno da una sorella a Parigi, dove vivono come in clausura, tornano a Douala.

Entrano allora nella Kadji Sports Academy del quartiere di Békoko, dove Samuel è subito notato dagli allenatori che l’avevano fondata. Pochi mesi dopo ritorna in Francia, stavolta da solo e con i documenti. I dettagli li ha raccontati nell’autobiografia scritta con Pierluigi Pardo, I piedi in Italia, il cuore in Africa, e ne i “Signori del calcio” su Sky Sport. L’offerta del Le Havre finisce nel cestino del presidente Kadji, perché in Costa d’Avorio (doppietta nel ko per 4-2) lo nota un osservatore del Real Madrid, tale José Martinez Sanchez. Più noto come “Pirri”, leggenda merengue. Il bello è che Eto’o doveva esordire con la maggiore del Ct Manga Onguene contro il Gabon, ma poi il Boca Juniors aveva concesso ad Alphonse Tchami il nullaosta e così Samu diede «una mano al selezionatore della U21, Michel Kaham». Era sabato. Il martedì sera, con gli amici al Parliament Neuf non si parla d’altro. Il mercoledì mattina il Real lo manda a prelevare a casa con una grossa berlina nera. «Mi ha cambiato la vita: l’immagine della Mercedes del mio presidente che entra in un quartiere difficile, New Bell, che però per me resta il più bello al mondo, perché è da lì che vengo. Mi ha permesso, da un giorno all’altro, di addormentarmi in un aereo e di svegliarmi a Madrid. E di potermi allenare con i miei idoli: Raúl, Clarence Seedorf, Redondo, Predrag Mijatovic e Davor Šuker. Nella mia stanzetta avevo i loro poster e mi chiedevo: “Chissà se potrò mai giocare a quei livelli”».

MERENGUES AMARE

Il Real non vince da due anni e chiama Fabio Capello, che conquista subito la Liga ’96-97 e se ne va. Gli succederà anche dieci anni dopo. Come per Ibra nella Juve (forgiato a suon di vhs coi gol di Marco van Basten), il primo passaggio merengue di don Fabio sarà decisivo anche nella carriera di Eto’o. «Ci salutavamo con un inchino» dice Samuel piegando la testa. «Mi diceva: “Mi ricordi George Weah, ma devi allenarti di più, fare doppie sedute, perché non calci bene”. Così mi allenavo la mattina e il pomeriggio andavo al campo solo per calciare, calciare, calciare. E mi chiedevo: “Ma che roba è?” Oggi posso solo ringraziarlo. Aveva sempre la situazione sotto controllo, e mi ha fatto migliorare molto. Se non avessi seguito i suoi consigli, non avrei mai segnato così tanto». 

Nel 1997-98 va in prestito al Leganés, Segunda División. In panchina Pedro Braojos rimpiazza Luis Sánchez Duque e rivoluziona la rosa coi canterani e lo piazza seconda punta in appoggio a Catanha. Chiude tredicesimo. A 17 anni, con 28 presenze e 3 gol, Eto’o si guadagna il rientro alla Casa Blanca. L’anno dopo però in merengue tocca il campo una volta, e allora via ancora in prestito. Mai schierato in Liga dall’Espanyol nel ’99, altro intermezzo al Real (2 presenze) e poi 54 gol in 133 nei quattro anni al Maiorca, dal 2000 al 2004.

REBELDE CON CAUSA

Palma gli entra nel cuore, ricambiato, e insieme faranno l’uno la fortuna dell’altra. «Soffrivo molto» ricorderà lui. «Ero al Real Madrid, il mio sogno era già realtà. L’unica cosa che mi mancava era giocare, ma per un motivo o per l’altro non ci riuscivo. Poi mi obbligarono ad andare al Deportivo, senza sapere cosa ne pensassi. Dissi di no. Sapevo che non sarebbe stata la scelta giusta. L’unica squadra che volevo era il Maiorca, perché lì avevo avuto un’esperienza positiva non solo per il calcio, ma anche per l’ambiente».

«A Maiorca quando vado al supermercato la cassiera mi dice: “Ah, negrito, sei tornato. Come stai?”. Adoro essere trattato come una persona comune. Tornai lì grazie al presidente Mateu Alemany. Ogni volta che andavamo al Bernabéu erano tre punti certi. E là giocavano i migliori al mondo: Figo, “Zizou” Zidane. Era incredibile. E tutto finì col ricordo più bello. Vincere la Copa del Rey (2003) col Maiorca fu come vincere la Champions col Barcellona».

In quattro anni ai rossi maiorchini, è recordman del club nella Liga e lo trascina in Champions League. A cambiargli la vita stavolta è Luis Aragonés. Samuel lo chiama “Abuelo”, nonno, ma per lui è un secondo padre. E in quanto tale, gli scontri non mancano. Nel novembre 2000, vistolo pigro in allenamento, don Luis lo spedisce anzitempo in spogliatoio. La società lo sospende per una partita. Sostituito a Saragozza, protesta platealmente e va a sedersi in fondo alla panchina. Aragonés prima sbraita, poi si alza e va a prenderlo di petto. L’indomani, alla riunione di squadra, il “nonno” gli dice: «Guardami in faccia». Eto’ si scusa, e in sala stampa stempera: «Tipico, tra padre e figlio».

Più pesante l’atmosfera nell’intervallo di Maiorca-Espanyol, 16 maggio 2004, coi locali sotto 0-2. Memorabile ma produttiva scazzottata poi secretata dal codice d’onore in vigore tra i rossi dell’isola: i maiorchini vincono 4-2. Il cordone ombelicale però non si spezza. In agosto, la mattina in cui diventa Ct della Spagna, Aragonés riceve un sms: «Congratulazioni, Nonno. Te lo sei meritato». Firmato Samuel. «A Maiorca sono molto maturato» ammetterà. «Lì ho iniziato a capire più cose sulla vita. Ho conosciuto un signore, il mio allenatore, che per me è stato anche un padre».

Aragonés sa di avere per le mani un fenomeno, e di non poterlo trattenere. «Il Maiorca è la mia squadra del cuore, ma lì non avevo pressioni. Così decisi di andare al Barcellona. Grazie a lui, che chiamò i dirigenti del Barça e gli disse: “Avete intenzione di vincere nei prossimi anni? Ho il giocatore che fa per voi, è Samuel. Per spirito, per modo di giocare, vi darà ciò che vi manca”». Il resto è noto: 129 gol e 35 assist in 201 presenze in 5 anni (o tre e mezzo, visti i due lunghi infortuni) chiusi con lo storico Triplete. Il primo dei suoi due consecutivi.

L’ALTRA BARCELLONA

In quell’estate 2004, per 25 milioni, firma per l’allora presidente Joan Laporta, che lo inseguiva da un anno. La conferenza di presentazione è cult. «Correrò come un negro per vivere come un blanco». Con quel blanco perfidamente giocato sul doppio binario della rivendicazione social-razziale e della rivalsa sul Real, che in lui non aveva creduto fino fondo. «Con quella frase ho solo espresso ciò che la nostra società pensa senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce. Avevo l’opportunità di dimostrare che anche un ragazzo africano, a parità di condizioni, poteva essere uno dei migliori. Non so se a Barcellona l’ho dimostrato, ma so di aver lavorato bene, perché sono andato via a testa alta». La “dimostrazione” si avrà nei festeggiamenti della prima Liga vinta col Barça; T-shirt rossa con “Campions” scritto in giallo e in catalano, al collo la bandiera del Camerun e microfono in mano ad arringare la folla: «Madrid, cabrón, saluda al campeón». Dodicimila euro di multa comminati dal giudice sportivo, ma ben spesi per l’eternità blaugrana.

Neanche sulle Ramblas però fila tutto liscio. Al contrario di quella con Lionel Messi, subito preso sotto la sua ala, la convivenza (non solo) tattica con Ronaldinho è complicata. Idem per il finale con Guardiola. «Malas personas» l’epitaffio relazionale sui due. «Non ho capito nemmeno io cosa sia successo con Guardiola, ma è passato. Ho vissuto anni così belli a Barcellona che non è un mese, ma neanche, dieci giorni, che potrei volere meno bene a Pep».

In campo è il miglior Eto’o della carriera. Altri conquistavano i media per il glamour, lui serviva per i gol, l’eclettismo, la generosità, lo stakanovismo, la leadership. Semmai, tornava buono come carne da titoli, specie dopo i proverbiali colpi di testa. O di testata. Come quella rifilata sul labbro a Philippe Bony, reporter di una radio di Yaoundé sempre critico nei suoi confronti, alla vigilia della partita del Camerun contro Capo Verde, qualificazioni a Coppa d’Africa e Mondiali 2010. Solo verbale, ma ripresa da telecamere, la violenza riservata a un giornalista di Equinoxe TV che, dopo l’1-0 per il Senegal nelle eliminatorie per la CAN 2012, gli aveva chiesto se la generazione-Eto’o dei Leoni Indomabili fosse al tramonto: «È lei che dovrebbe ritirarsi. Ho 30 anni, ho vinto tutto tranne il Mondiale e penso di rappresentare degnamente l’Africa e il Camerun, gente come voi non merita di esistere». «A quanto pare a Eto’o non si possono più fare domande», la risposta del direttore di Equinoxe TV, Éric Martial Djomo, sul Journal du Cameroon.

CHIEDIMI SE SONO FELICE

Samuel ha due ossessioni, la moda e le auto di super lusso. Secondo Daily Mail e Sun, la flotta è scesa da 14 a 4 e vale altrettanti milioni di sterline: Bugatti Veyron (1,55), Aston Martin One-77 (1,25) e V12 Zagato (450mila), Maybach Xenatech (750mila). «Mi piace scegliere. Non faccio del male a nessuno, mi danno gioia. Essere felici è la cosa più importante: io lo sono». Al punto da regalare, a Natale 2010, una Porsche al suo idolo Milla. «Eto’o ha fatto tanto per il calcio» ha dichiarato Roger nell’ottobre 2014, invitato a Montecarlo per il Golden Foot. «Sono deluso che non gli abbiano mai permesso di vincere il Pallone d’oro, lo avrebbe meritato. Ha vinto la Champions col Barcellona e con l’Inter, segnando sempre tanti gol».

All’Africa e al suo Camerun ha dato tutto: oro olimpico a Sydney 2000, due Coppe d’Africa (2000 e 2002), record all-time di gol (56 in 118 presenze) coi Leoni Indomabili, trascinati pure in finale di Confederations Cup, persa con la Francia padrona di casa, quella in cui morì – nella semifinale contro la Colombia – l’amico e compagno Marc-Vivien Foé. Quattro volte Pallone d’oro africano (primato appena eguagliato dall’ivoriano Yaya Touré), doppiato Milla, gli è mancato solo il Mondiale, dove esordì 17enne il 18 giugno 1998 contro l’Italia dell’altro suo idolo, Roberto Baggio. «Mi dicevo: “Non può essere, gioco contro Baggio”. Ero già al Real, per me restava un mito. Finita la partita, il mio unico pensiero era correre a chiedergli la maglia. Quando lo raggiunsi, nel tunnel, lui non ci pensò un attimo, se la tolse e me la diede. Mi sentivo il ragazzino più felice al mondo. Corsi a chiamare mio padre: “Ho la maglia di Baggio”».

JOSÉ FU MAGO

L’uomo forse più importante nella carriera di Samuel è José Mourinho. «Ricordo bene il giorno in cui mi accordai con l’Inter. Ero già in parola con un altro club (il Manchester City di Mark Hughes, che lo voleva in coppia con Carlos Tévez, ndr), era già tutto fatto. Quasi. Ero in Camerun e ricevetti da un numero sconosciuto un messaggio, firmato “Marco Materazzi”. Hombre… Diceva: “Sei il miglior attaccante al mondo. Questa è una grande famiglia. Mi piacerebbe che ne facessi parte perché sei il migliore. Sarebbe un piacere giocare con te”. Credevo fosse uno scherzo. E pensai: “Conosco una persona, e se è davvero Marco Materazzi, lo saprò”. Chiamai Albertini (suo compagno al Barcellona nel 2005, ndr) e gli dico: “Abuelo, qualcuno mi ha mandato un messaggio firmandosi Marco Materazzi”. E lui: “Che numero è?”. Gli do il numero, e lui: “Sì, è di Marco”. Così risposi all’sms: “Il piacere è tutto mio”. Dopo 5 minuti mi chiama un collaboratore di Mourinho, e con José parlai due minuti. Mi disse: “Sai che ho sempre provato a prenderti, ora ne ho l’opportunità. Vieni, e vinciamo insieme. Ti ho già riservato la 9”. E io: “Ok, Mister”». L’opportunità sono i 10,5 netti annui del presidente, altro secondo padre. «Nel giro di 5’ mi chiamò il papà di tutti, el señor Moratti, e inizò a parlarmi in francese. Rimasi bloccato. Capii solo che mi offriva di far parte della sua famiglia, perché l’Inter è la sua famiglia. Io disssi soltanto: “Presidente, non c’è problema. Vengo lì”». Il viaggio inverso, con l’irreale conguaglio di 41 milioni ai nerazzurri, lo fa Zlatan Ibrahimovic, che al Camp Nou durerà una stagione.

IL PATTO DI UDINE

Nell’«opportunità» però c’è tanta panca. Troppa. «All’inizio è stata dura. Non c’ero abituato. Ci sono stato un mese, ma per rispetto ai miei compagni non volevo lamentarmi. Dovevo continuare. Se ci fossero stati anche solo 10’ da giocare, avrei dato il massimo. Venivo da un altro paese e ambientarsi non era facile. Poi, a Udine, mi arrabbiai molto, andai da Mourinho e gli dissi: “José, io ti rispetto, rispetto i miei compagni, però non sono un giocatore qualunque. Non sono un ragazzino di 15 anni che va in panchina ed è contento di starci. Non sono più un bambino, accetterò ogni tua decisione, ma devi darmi delle spiegazioni. Così saremo tutti più tranquilli”. José mi rispose: “Sono contento che tu sia venuto a parlarmi”. Poi, mentre ero ancora sulla porta, mi accorsi che lui stava già chiamando Branca per dirgli: “Adesso possiamo contare anche su Samuel”. Da quella partita è cambiato tutto». Sinisa, prego prendere nota.

«Mourinho mi disse di giocare in un ruolo particolare, perché ero l’unico – per visione di gioco ed esperienza – a poterlo fare. E aggiunse che, se lo avessi fatto, avremmo potuto vincere la Champions. Io lo guardai e gli dissi: “E chi non vorrebbe vincerla?”. Anche se io quell’esperienza l’avevo già fatta».

L’UOMO DELLE FINALI

Non per caso, a Madrid 2010, lo Special One affiderà a lui il discorso pre-partita contro il Bayern. A Samu era già successo al Barcellona contro l’Arsenal a Parigi 2006, ma quella volta era stato lui a prendere la parola nell’intervallo, coi suoi a terra per lo 0-1 di Sol Campbell, poi pareggiato col suo gol (da ala sinistra) e ribaltato da Juliano Belletti. E come dimenticare quell’esultanza a Roma 2009, per quella magia (da ala destra) contro lo United, con indice e medio picchiati sull’avambraccio a indicare la pelle. Orgogliosamente nera. Quella che certi “tifosi” del Saragozza, alla Romareda nel febbraio 2006, non gli perdonavano, lanciandogli noccioline e insulti pesantissimi. Quel giorno disse: “No más”. Stava per uscire dal campo, lo fermarono a forza compagni, avversari (anche neri) e arbitro. La battaglia FIFA contro il razzismo decollò lì. Eto’o non era Zoro.

Con il patto di Udine l’Inter decolla, ma è solo dal retour-match di Champions col Chelsea – prestazione memorabile e Stamford Bridge violato dalla sua zampata d’esterno in controtempo – che pubblico e critica apprezzano appieno la sapienza tattica di Eto’o. «Nelle partite importanti io ci sono sempre». L’anno dopo, con Rafa Benítez prima e Leonardo poi, si rivede l’Eto’o realizzatore puro: 37 gol (Ronaldo nel ’98 chiuse a 34). Compresi altri due in finale: ancora a Roma, in Coppa Italia contro il Palermo, nel suo ultimo trofeo con l’Inter; e ad Abu Dhabi nel 3-0 al Mazembe per il Mondiale per club, celebrato con le buste bianche dell’amicone Materazzi. Buste di gol, secondo Matrix, che escluderà ogni riferimento all’Allenatore del pallone e al Beniítez subito dopo “dimissionato”.

IL DOPO INTER PORTA ALLA SAMP

Dopo il Triplete con l’Inter, per lui il secondo in fila, Eto’o stabilisce record d’altro tipo. Il triennale da 20,5 milioni annui e un’infinità fra bonus e business class con l’Anzhi, più i 27 milioni all’Inter dal club della capitale del Daghestan, ma con allenamenti nella lontana Mosca per motivi di sicurezza. Roba da Alfredo Di Stéfano ai colombiani del Millonarios negli Anni 40-50. L’idillio finisce con un anno d’anticipo, 36 gol in 73 gare e la coppa di Russia 2013.

Il 26 agosto, a sorpresa, torna a vestirsi di Blue in Premier, ma non a Stamford Bridge. Firma con l’Everton, che lo vuole come chioccia di Romelu Lukaku, prestato e poi ceduto dal Chelsea, che nel belga non ha mai davvero creduto. Almeno da quando su King’s Road impera il Mourinho-bis. Quattro giorni dopo, Samu debutta in campionato. Ci mette 7’ a far gol, e contro chi se non i suoi ex compagni, l’antico maestro.

Dal Goodison Park a Marassi. Eto’o. Alzi la mano chi ci credeva. Più che per l’eccentricità del presidente Massimo Ferrero o la sua disponibilità economica, per l’abisso tra i due mondi (biennale d’alta Premier a 6,5 milioni netti annui ai 18 mesi più opzione di un anno a 1,4 più bonus “a rendimento” fino a 3). Invece, dopo 20 presenze e 4 gol in quattro mesi, Eto’o lascia la 5 dei Toffeemen per la 99 blucerchiata. E un bagno di folla all’Acquario, sede della presentazione. 

Tre i top motivi del colpo siglato a Parigi dal ds Carlo Osti, l’agente Claudio Vigorelli e l’avvocato Antonio Romei, uomo-ombra di Ferrero. Per il giocatore, la strategica vicinanza di Genova da Milano, Parigi e Palma de Maiorca, le città dove Eto’o tiene famiglia (mai allargata alla paternità riconosciutagli in tribunale); la convivenza tattica con Romelu Lukaku, prima punta che Roberto Martinez gli schierava davanti; il gap di ritmo e fisicità tra i campionati. Infine, o in primis, il taglio al monte-ingaggi per un campione che non stava rendendo abbastanza in un club, l’Everton, in perenne difficoltà finanziaria; e infine l’investimento d’immagine per una società di seconda fascia, qual è la Samp, nell’ingaggiare una star globale capace, ancora, di fare la differenza. 

Sinisa Mihajlovic dovrà essere bravo a non trattarlo come l’ultimo arrivato. Perché è Eto’o. L’ultimo Samurai.
Christian Giordano, Guerin Sportivo





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