HOOPS MEMORIES - La squadra che cambiò il mondo

American Superbasket - n. 2/anno 17 - 24 gennaio - 6 febbraio 2008 

Il titolo parrà esagerato, ma l’omonimo dvd (da 54’, del 2005) andava pur venduto. Idem il manifesto originale - acquistato su eBay per 805 dollari e stampato nei patriottici rosso, bianco e blu - che invitava gli appassionati ad andare a vedere “in azione” il leggendario Jesse Owens e “The Wonder Five”.

Del resto, se la vittoria di Gino Bartali al Tour de France del 1948 contribuì a scongiurare la guerra civile italiana nel post-attentato a Palmiro Togliatti, perché non credere alla pace mondiale rafforzata dai 75.052 spettatori che il 22 agosto 1951 stiparono (gratis) l’Olympiastadion di Berlino per ammirare gli Harlem Globetrotters?

Mai una folla così numerosa si era vista a una partita di basket. Figuriamoci in terra tedesca, nell’immediato secondo dopoguerra e per una squadra di neri appartenente a un ebreo. A rendere l’evento ancora più speciale provvedeva l’impianto, lo stesso nel quale secondo la leggenda (perché di tale si tratta), 15 anni prima, Hitler mortificò lo statunitense Owens abbandonando la premiazione per non dover stringere la mano all’atleta nero vincitore a Berlino 1936 di 4 ori olimpici: il 3 agosto nei 100 metri, il 4 nel salto in lungo, il 5 nei 200 e il 9 nella 4x100.

La medaglia nel lungo fornì alla stampa il pretesto per creare un caso di discriminazione razziale di cui il leggendario atleta sarebbe stato vittima. Nel pomeriggio di quel 4 agosto, infatti, allo stadio Olimpico era presente anche Hitler. Di fronte alla vittoria di Owens contro il tedesco Luz Long, il Führer, indispettito, si sarebbe alzato e sarebbe uscito dallo stadio per non stringere la mano al vincitore. Nero.

In realtà Hitler fu presente all’inaugurazione il 2 agosto, e ricevette parecchi atleti (tedeschi e no) nella sala VIP. L’indomani, però, il segretario del CIO fece presente al cancelliere tedesco che quella maniera così calorosa di intrattenere gli sportivi violava il protocollo. Hitler quindi la piantò lì. Infatti nell’autobiografia (The Jesse Owens Story, 1970) Owens scrisse: «Dopo essere salito sul podio, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il cancelliere tedesco mi guardò, si alzò in piedi e mi salutò con un cenno della mano. E io feci altrettanto. Ritengo che la stampa mostrò cattivo gusto nel criticare l’uomo del momento, in Germania».

Ironia della sorte, fu il presidente statunitense Roosevelt, impegnato in un’elezione e preoccupato della eventuale reazione degli Stati del sud, a cancellare un appuntamento con il pluriolimpionico alla Casa Bianca. In seguito Owens fece notare che fu FDR, e non Hitler, a snobbarlo, ma ormai la leggenda era nata.

In ogni caso, in quanto a umiliazioni anche i Globetrotters ne avevano vissute assai nella loro gloriosa storia, cominciata a Chicago nel 1926. L’allora 24enne promoter Abe Saperstein allenava una squadra di afroamericani, i Savoy Big Five. Ma quando la Savoy Ballroom, sala da ballo del South Side, smise di sponsorizzare la squadra, Saperstein le cambiò il nome: “Harlem” evocava romantiche suggestioni di quella (che nei ruggenti anni Venti) era una pulsante parte di New York e “Globetrotters” perché «suonava come se fossimo sempre in giro». E pazienza se ad Harlem i suoi non giocheranno prima del 1968.

Per la prima partita, però, i Trotters non dovettero girare il mondo ma spostarsi di 80 km, da Chicago a Hinckley, sempre nell’Illinois, dove con il nuovo nome - e sulla maglia la scritta «NEW YORK» - i cinque cestisti neri scarrozzati da Saperstein nella sua Ford Modello T batterono, il 7 gennaio 1927, una squadra locale.

Agli albori del basket pro’, le leghe aprivano e chiudevano in un amen e le squadre, per sopravvivere, viaggiavano per tutto il Paese incontrando chi capitava. I Trotters erano coi Rens, gli Harlem Renaissance Ballroom Big Five, la miglior squadra dei decenni Venti e Trenta. Nel ’27 i ragazzi agli ordini (in tutti i sensi) di Saperstein chiusero sul 101-16, pur giocando sempre in trasferta e spesso senza poter accedere a hotel e ristoranti per via del colore della pelle. 

Saperstein intuì subito che vagabondare di città in città, battere le squadre del posto nella loro stessa palestra e poi rimettersi in viaggio sarebbe diventata una formula pericolosa per la sopravvivenza dei Trotters: alla lunga, nessuno li avrebbe più stati invitati. Perdere di proposito era fuori questione, dato che erano una delle migliori squadre della nazione. Allora il boss accarezzò l’idea di una commedia studiata nella quale il basket diventava una diversa forma di intrattenimento. Vincere divertendo, pensava il geniale affarista, non avrebbe fatto arrabbiare troppo i tifosi di casa e i Globetrotters sarebbero stati invitati di nuovo.

Dopo la Seconda guerra mondiale, con la nascita della NBA e la sua immediata espansione che la portò ad assorbire le migliori squadre della NBL, i Globetrotters, con giocatori-artisti quali Reece “Goose” Tatum e Marques Haynes, si scavarono una propria nicchia come una compagnia itinerante del basket-spettacolo.

Nell’aprile 1951 aprirono la tournée al Rose Bowl di Pasadena, California, stabilendo il nuovo record nazionale di spettatori (31.684) per una partita di basket. In Brasile, il mese dopo, lo batterono richiamandone a Río di Janeiro 50.041. La squadra andava così bene che si divise in due. La seconda formazione, guidata da Babe Pressley, attirò 500 mila appassionati in 41 partite disputate in tutto il Sud America (compresa l’Argentina di Perón), mentre la prima, che schierava Tatum e Haynes, girovagava per il secondo anno consecutivo in un tour da tutto esaurito nell’Europa occidentale e nell’Africa del nord.

Con la Guerra Fredda ormai in fermento, i Trotters s’imbatterono, in Francia, in uno strisciante ma diffuso sentimento di anti-americanismo, ma era niente in confronto a quanto sarebbe accaduto di lì a poco in Germania. A Berlino il pugile statunitense “Sugar” Ray Robinson aveva da poco sostenuto un match che aveva esacerbato l’antagonismo verso l’America, e ai primi lanci di bottigliette di soda da parte degli spettatori erano seguiti violenti tafferugli. Per stemperare le tensioni John J. McCloy dell’Alto Commissariato degli Stati Uniti contattò i Trotters a Parigi affinché gli dessero una mano, magari con una loro partecipazione speciale nella parte alleata di Berlino.

Quando i Trotters arrivarono all’aeroporto, l’autobus giunto a prelevarli fu circondato dalla folla, situazione che mise in una certa apprensione i giocatori. Ma il timore di una cattiva accoglienza durò poco: gli appassionati tedeschi volevano soltanto omaggiare uno squadrone di fama mondiale.

Il pubblico si godette ogni istante di quell’evento straordinario, scoppiando a ridere alle buffonate di Tatum e di Haynes. E all’intervallo ci fu un momento speciale. Sul campo atterrò un elicottero da cui scese uno in tuta da ginnastica. Era Jesse Owens. Ad attenderlo c’era il sindaco di Berlino Ovest, Ludwig Shreiber, che lo salutò così: “Quindici anni fa, su questo stesso campo, Hitler si rifiutò di porgerle la mano. Ora io le porgo entrambe le mie”. Owens allora si diresse verso la pista di atletica e corse per un giro d’onore mentre il pubblico riservò al campione un’ovazione la cui durata divide ancora oggi gli storici: 5, 15 o addirittura 45 minuti.

Riscontri cronometrici a parte, ciò che contava era che la tensione anti-americana di Berlino era stata in gran parte stemperata dalla duplice illustre presenza: Owens e i Globetrotters, proclamati “Ambasciatori di Buona Volontà” dal Dipartimento di Stato statunitense e primi artefici di un momento storico.

Dopo la partita, il Dipartimento scrisse ai Trotters una lettera di ringraziamento, il cui nocciolo sarebbe diventato la pietra angolare della loro futura identità. Nella missiva, che estendeva la richiesta di sostegno a qualsiasi circostanza l’avesse richiesto, si leggeva: «I Globetrotters si sono dimostrati straordinari ambasciatori di buona volontà ovunque siano andati». Normale amministrazione per la squadra che ha saputo cambiare il mondo.
CHRISTIAN GIORDANO ©

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