HOOPS MEMORIES - La battaglia di El-Amin


di CHRISTIAN GIORDANO ©
American Superbasket n. 9/17 - 1/21 maggio 2008

Duke, sempre Duke, fortissimamente Duke. I Blue Devils sembravano di una categoria a sé, al via del Torneo NCAA 1999. Non soltanto perché avevano Elton Brand, Giocatore universitario dell’anno e futura prima scelta assoluta al susseguente draft NBA, e tre compagni che lo avrebbero raggiunto nella metà di sinistra del primo giro di lottery, traguardo mai raggiunto da altri atenei; ma soprattutto perché in stagione avevano perso (di due punti, contro Cincinnati) solo la sesta partita, e non si vedeva chi avrebbe potuto negargli il loro terzo titolo NCAA degli anni Novanta e la platonica qualifica di miglior squadra di college del decennio.

Nel frattempo Connecticut, l’altra finalista, era considerata dalla maggioranza degli esperti la seconda miglior squadra della nazione, un filo sotto i Blue Devils. La squadra di coach Jim Calhoun, tuttavia, aveva solidi argomenti per smentirli. Intanto il sostegno dell’intero Stato, fondamentale nel sospingere la compagine femminile alla sua imbattuta stagione 1995. E per quanto riguarda quella maschile, un sassolino rimasto nella scarpa dal 1990, quando il tiro allo scadere di Christian Laettner regalò l’East Regional proprio a Duke, poi sconfitta da UNLV nella finale di Denver. Togliendoselo, gli Huskies avrebbero fatto meglio rispetto le loro tre precedenti apparizioni nelle Elite Eight degli anni Novanta.

Per tutto questo e per molto altro Duke intimidiva gran parte degli avversari, ma non loro. E in campo Calhoun non aveva certo paura di fare correre i suoi; anzi, invece di preoccuparsi degli abbinamenti difensivi da studiare per ciascun Blue Devil, voleva fosse Duke a preoccuparsi di contenere i più atletici giocatori di UConn, in primis l’ala Richard “Rip” Hamilton e le guardie Khalid El-Amin e Ricky Moore (nella foto di copertina di Sports Illustrated), difensore sublime.

La regular season, come da pronostico, era appartenuta ai ragazzi allenati da Mike Krzyzewski: 32-1. Nel celebrarli, però, agli osservatori più attenti non era sfuggito quanto di buono stava facendo la truppa agli ordini di Calhoun. A livello universitario, raramente una squadra aveva dominato la stagione come fece quella edizione dei Blue Devils. Vinto da imbattuti il torneo della Atlantic Coast Conference (ACC), sfiorarono l’unanimità nel ranking della Associated Press ottenendo il numero uno in 69 preferenze su 70 (cronisti e telecronisti potevano esprimerle fino all’8 marzo, cioè prima che cominciasse il Torneo NCAA). L’unico voto di dissenso andò a Michigan State.

Prima di affrontare Connecticut in finale, i Blue Devils vantavano un record di 37-1 e il maggior numero di vittorie stagionali nella storia della NCAA. Inoltre, avevano vinto le ultime cinque partite con uno scarto medio di 25 punti e mai, in passato, una finalista era stata data per favorita con una quota tanto alta: 9 punti e ½. 

Niente di tutto questo sembrava spaventare gli Huskies. Entrati nel Torneo sul 29-2, arrivarono alla Final Four sbarazzandosi di Texas-San Antonio (91-66), New Mexico (78-56), Iowa (78-68) e Gonzaga (64-58). Contro Ohio State, conducevano di uno a metà gara prima di vincere 64-58 sulla scia dei 24 punti di Richard Hamilton, il loro giocatore più versatile nonché miglior marcatore stagionale.

Duke nell’anno aveva tirato col 51% di media e tenuto gli avversari al 39%. Cifre che in finale gli Huskies avrebbero quasi ribaltato. Trovandosi per la prima volta in una gara tirata, i Blue Devils sembravano aver perso la testa, gettandosi spesso sul primo tiro disponibile anziché quello a più alta percentuale o meglio selezionato. Eppure, all’intervallo guidavano 39-37. Poi salirono in cattedra le (fior di) riserve di Connecticut, che segnarono più della tanto decantata panchina di Duke. Il resto ce lo mise Hamilton, top scorer della gara (27 punti) e della Final Four (145), di cui fu strameritato Most Oustanding Player. Dall’altra parte Brand, che al college poteva permettersi di giocare centro, prese 13 rimbalzi ma appena 8 tiri, segnandone cinque. Merito della marcatura di Jake Voskuhl, e dei puntuali aiuti dell’ala Kevin Freeman. «Non sapevo mai da dove arrivava il raddoppio», dirà a giochi fatti Brand, futura promessa mai del tutto mantenuta nella NBA.

La guardia Trajan Langdon infilò 25 punti, ma i suoi compagni avevano le polveri bagnate e così la percentuale di realizzazione dei Blue Devils toccò il minimo stagionale, 41%. Gli Huskies invece trasformarono il 52% dei propri tentativi, ma si giocò comunque punto a punto sino alla fine. A 4’07” dal termine il punteggio era di 68-pari. Fu allora che, durante un time-out, svelerà poi la guardia Khalid El-Amin, «io e Richard [Hamilton] ci guardammo l’un l’altro e ci dicemmo: “È ora di vincere”».

Con due tiri liberi e uno da tre Hamilton trascinò UConn al +5, ma un personale di Chris Carrawell e una tripla di Langdon riportarono Duke a -1. El-Amin colpì in sospensione su Brand, ma William Avery trasformò i due dalla lunetta, e dopo un tiro sbagliato di El-Amin, i Blue Devils avevano la palla con 20 secondi da giocare. Ma di lì a poco il tenace Moore azzeccò la giocata difensiva della vita. «Avevo sentito Coach K gridare a Trajan [Langdon] “Go get the ball and take him” - racconterà Moore - Non avrei potuto chiedere di meglio: avere uno da fermare. Mi scappò un sorrisetto, sapevo che non avrebbe segnato. La mia voglia di vincere avrebbe prevalso».

Langdon fintò per cercare un pertugio verso il canestro o almeno lo spazio per un jumper, ma Moore gli restò addosso e lo costrinse a commettere infrazione di passi, a 5.4” dallo scadere. Duke fece subito fallo su El-Amin, che dalla lunetta mise i due del 77-74 Huskies. A 5.2” dall’ultima sirena. A quel punto, anziché chiamare time-out e optare per un ultimo tentativo da tre, Langdon prese palla sulla rimessa e corse in avanti, provando a liberarsi per il tiro. Ma prima ancora di riuscirci perse equilibrio e il pallone gli schizzò via, trascinandosi dietro le residue speranze dei Blue Devils. Il punteggio non cambiò più. E il secondo anno El-Amin aveva vinto la battaglia più difficile in una carriera che, da pro, gli avrebbe riservato 50 presenze coi Chicago Bulls nella NBA, prima di un lungo girovagare fra CBA, Francia, Turchia, Ucraina e ancora Turchia.

UConn era la prima a vincere il titolo NCAA da debuttante alla Final Four dai tempi di Texas Western, nel 1966. E quella giocata al Tropicana Field di St. Petersburg, Florida, fu la prima finale, dal 1965, che contrapponeva le squadre che, per l’intero anno, erano state in testa al ranking nazionale, Duke a est e UConn a ovest.

Davide aveva abbattuto Golia, si scrisse senza troppa fantasia. «I ragazzi volevano Duke - gioirà Calhoun - Volevano sfidare i migliori e batterli, e ce l’hanno fatta». Un decennio prima dei vacui slogan elettorali scimmiottati oltreatlantico, Sports Illustrated sintetizzò il concetto titolando con l’immancabile quanto efficace gioco di parole: «Yes, UConn». I panni del piccoletto con la fionda ammazza-giganti gli stavano forse un po’ stretti, ma se c’era qualcuno che poteva indossarli, quelli erano gli Huskies del ’99.
CHRISTIAN GIORDANO ©

Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio