FOOTBALL PORTRAITS - Lamptey nel buio, il re a cui rubarono la corona


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Nii Lamptey è stato uno dei tanti "nuovi Pelé" che si è perso nel buio, tra raggiri di agenti, magia nera e talento dissipato.

4 novembre 2015 - Christian Giordano, in esclusiva per Ultimo Uomo

Il bacio della morte

Nella gara di apertura del Mondiale Under-16 1989, davanti a 6500 spettatori sperduti nell’immenso Hampden Park di Glasgow, si affrontano Scozia e Ghana. È il 10 giugno 1989: finisce 0-0. Tra le Black Starlets, le stelline nere, gioca uno scricciolo col numero 8 che nessuno riesce a tenere. In distinta figura come Nii Odartey Lamptey. Ufficialmente ha quattordici anni, il che in Africa, e in tempi di test ossei FIFA ancora inimmaginabili, non significa che li avesse davvero. Nel Gruppo A il Ghana del CT brasiliano Paulo Luis Campus cade 1-0 col Bahrain e impatta 2-2 con Cuba, uscendo così da terza classificata nella prima fase. Il girone se lo aggiudicherà la Scozia, poi sconfitta in finale ai rigori dall’Arabia Saudita. Pelé è l’ambasciatore del torneo: spetta a lui nominarne l’MVP. Gli bastano pochi lampi di quell’antilope travestita da bambino per premiarlo con il videoregistratore dello sponsor JVC.

La maledizione del “Pelezinho”, del piccolo Pelé, ne ha colpiti tanti: Freddy Adu, “Foquinha” Kerlon, Robinho e Neymar, forse l’unico con le spalle, per quanto strette, adatte a sopportarne il peso di Atlante.

Ma il vero “bacio della morte”, a Nii (significa “Re”) Lamptey, arriva due anni più tardi. Edson Arantes do Nascimento lo investe «mio naturale successore» in occasione del Mondiale giovanile di Montecatini. Lamptey è ancora in età per il torneo, nel frattempo diventato U-17, e lo vince da co-capocannoniere (4 gol) battendo 1-0 la Spagna in finale, al Franchi di Firenze. Al brasiliano Adriano, inteso come Gerlin da Silva e non l’ancora imberbe Leite Ribeiro, va la Scarpa d’oro; a Lamptey, dalle mani di sua maestà Pelé, il premio di miglior giocatore. È il 31 agosto 1991, e nulla sarebbe stato più come prima.

Il 16enne Lamptey aveva oscurato un promettente azzurrino suo coetaneo (tale Alessandro Del Piero) e due argentini più piccoli che di strada ne avrebbero fatta: il figlio d’arte Juan Sebastián Verón (1975) e Marcelo Gallardo (1976), future icone, rispettivamente, di Estudiantes e River Plate. Era nata una stella.


Il contesto

Pur essendo nato il 10 dicembre 1974 a Tema, porto sul Golfo di Guinea a 25 km a est della capitale Accra, è però a Kumasi, la seconda città del paese, che dagli otto anni, dopo il divorzio dei genitori, Lamptey vive la sua infanzia violata di abusi; non sessuali, ma non per questo meno traumatici. Il padre, alcolista violento, lo punisce spegnendogli sulla pelle mozziconi di sigarette o prendendolo a cinghiate. Sono violenze che Nii racconterà più volte, mostrando le cicatrici. Seppure più protettiva, anche la madre lo picchia. Pur di non tornare a casa, sta fuori tutto il giorno «a giocare a pallone, e quando tornavo, erano botte; o non mi davano da mangiare se non andavo a fare provviste d’acqua. Certe notti dormivo per strada, sotto una macchina o in un chiosco, e il giorno dopo ricominciavo». Sono ferite mai rimarginate, e sviscerate nel 2008 in un’intervista di Jonathan Wilson per l’Independent.

«Già a otto anni c’erano società in lotta per prendermi. Un giorno, dal campo mi riporta a casa un poliziotto, e quando mia madre l’ha visto s’è spaventata a morte. Ma lui le spiegò di essere lì perché la sua squadra mi voleva». Uno così solo il calcio poteva salvarlo. Certo è che non dobbiamo perdere di vista il contesto: Ghana, Africa subsahariana occidentale, anni ’80.

Lamptey cresce nelle giovanili del Cornerstone, piccolo club di Kumasi. Sua madre, ad Accra, va a stare dal suo nuovo uomo. Nii per un po’ rimane col padre, poi lo segue con la matrigna, a Kumasi. Da indesiderato. «Si era risposato, e io ero un problema. La sua seconda moglie non mi voleva. Mio padre me le dava, ma io c’ero abituato e neanche piangevo più. Così si fumava una sigaretta e me la spegneva addosso».

Senza l’approvazione del padre se ne va di casa per la foresteria dei Kaloum Star. È un club musulmano e per giocarci, lui, di famiglia cattolica, deve convertirsi all’islam. Il padre non vuole saperne, e gli abusi di casa si trasferiscono al campo. O in moschea, dove ogni volta che lo becca a pregare si mette a fare scenate, minacciando lui e gli altri fedeli. L’altro problema, che lo perseguiterà per la vita, è la scuola. «Non avevo istruzione. Vent’anni fa, neanche riuscivo a esprimermi. La mia scuola è stata il calcio», ha spiegato a Ian Hawkey in Feet of the Chameleon, con Africa United di Steve Bloomfield e Scusate il ritardo di Filippo Maria Ricci il top dei libri sul calcio africano raccontato sul posto.

L’odissea del ragazzo cui tutti pronosticavano un futuro, a volar bassi, da miglior giocatore africano della sua generazione, comincia lì, a Kumasi, nel 1989. Poche settimane dopo l’esperienza del Mondiale scozzese.

Lamptey è in ritiro con la Nazionale giovanile del Ghana, e tiene ben stretto un biglietto da visita lasciatogli dall’agente di Stephen Keshi, difensore dell’Anderlecht e capitano—nonché futuro CT—della Nigeria. L’agente voleva ottenerne la procura, «i dirigenti federali volevano farlo arrestare, io li pregai di non farlo e quando se ne andò mi lasciò il suo biglietto». Il passaporto per la libertà.

Il vero passaporto, quello valido per l’espatrio, glielo avevano confiscato, a lui come ai suoi compagni, gli stessi dirigenti cui aveva chiesto aiuto per andare all’estero a costruirsi un futuro. Nii si sente—ed è—in trappola. E allora progetta la fuga. Mette insieme i premi guadagnati al Mondiale U-16 del 1989, e cerca di raggiungere Lagos. È il 15 agosto 1989.


Fuga dal cuore di tenebra

«Non dissi niente a nessuno, neanche ai miei genitori. Presi i pochi soldi che avevo e andai alla stazione degli autobus, lì incontrai un tassista diretto in Nigeria. Gli dissi che ero senza passaporto e che volevo andare a Lagos. Mi rispose che se potevo pagarlo mi avrebbe portato facendomi passare per suo figlio».

In linea d’aria Accra dista da Lagos 555 km: su strada sono 680. Una smacchinata lungo il confine col Togo, tra villaggi in mezzo alle foreste e strade principali i cui pedaggi, fissati dai boscaioli locali, vengono esposti accanto a un numero sinistramente alto di bare, esibite all’esterno delle loro falegnamerie.

La frontiera di Lomé e i due confini del Benin, cuscinetto fra Togo e Nigeria, Lamptey li attraversa rannicchiato dietro il sedile del guidatore «o scendendo dalla macchina per nascondermi fra i cespugli. Un inferno, non lo auguro a nessuno». Arrivati a Lagos, Nii consegna al tassista il biglietto da visita e si fa portare a casa dell’agente, che gli fa trovare un falso passaporto nigeriano spuntato chissà come. Keshi, che gli aveva parlato solo per telefono e non vedeva l’ora di abbracciarlo, lo fa passare per suo figlio e insieme s’imbarcano per Bruxelles.

Sul documento, la foto è quella giusta, il nome no: è stato ribattezzato Stephen Keshi junior. «Quando l’agente lo chiamò per dirgli che ero a Lagos, sentii Keshi urlare di gioia», ricorda Nii, allora 14enne. «Non lo dimenticherò mai, è stato un padre per me, sin da quando a 14 anni persi i miei genitori».

Hawkey questa storia se l’è sentita raccontare dal protagonista ad Accra, dove Lamptey vive e gestisce le due scuole che lui ha fondato. La Golden Lions Soccer Academy, una delle centinaia di academy sparse dentro e fuori la capitale; e la Glow Lamp International School, istituto che Nii spera possa fornire ai bambini ghanesi quell’istruzione che a lui tanto è mancata. «L’istruzione è tutto, per questo ho deciso di impiegare i miei soldi in questa scuola. Mi rende felice».

In Feet of the Chameleon, Hawkey racconta di come ancora Lamptey sorrida del sotterfugio usato per fuggire dal Ghana, ma anche di quanto non ne vada orgoglioso. «Quando arrivai al centro tecnico dell’Anderlecht non erano sicuri che fossi io il vero Lamptey. Dalle immagini viste in tv mi credevano più robusto. Discussero con Keshi e gli dissero: “Non è lui”. C’erano tutti là, i dirigenti, persino il presidente, ma i miei primi due tocchi li convinsero che ero io il vero Lamptey». Piccolo di statura e di ossatura robusta, il Lamptey ragazzino è però flessuoso, veloce e dotato di un tempismo particolarmente morbido nel colpire al volo di destro. Lo staff dell’Anderlecht si convince: le immagini viste in tv concordavano con quelle prodotte lì, live, davanti ai loro occhi, da quel “Stephen Keshi junior”.

Uno degli sliding door della carriera di Lamptey: il Ghana è in vantaggio contro il Brasile nella finale del Mondiale U-20 in Australia. Lamptey parte in fuga solitaria: viene fermato con un fallo, e da quell’azione partirà la rimonta dei verdeoro.

Grazie ai contatti che la “Volpe argentata” Michel Verschueren, ex trainer diventato dirigente, ha con il governo belga, dal consolato ghanese di Bruxelles arriva presto un passaporto valido. Burocrazia in corsia preferenziale, così come l’anno dopo per altre due perle nere classe ’74: Yaw Preko e Isaac Asare. L’Anderlecht blinda Lamptey 16enne con un quinquennale. «Non ricordo per quanti soldi, ma erano pochi» ricorda lui, che perde a stretto giro prima il padre e poi la madre. «Ma non m’importava. Io volevo solo giocare. I soldi veri ho cominciato a farli quando firmai un contratto con Adidas. Fu nel 1991-92, dopo la mia prima stagione nell’Anderlecht. Un’ottima stagione».

Per la gioia del suo sponsor, quell’estate—a 17 anni e già arretrato a centrocampo—è protagonista con la Under-23 che conquista il bronzo all’Olimpiade di Barcellona.

In anni di sacchismo imperante, crollato con l’URSS pure il collettivistico “laboratorio” del colonnello Valeriy Lobanovskyi e della sua Dinamo Kiev, per tutti il calcio del futuro, quello del Duemila, sarà africano.

Gli agenti europei piombano come cavallette. Al Torino di suoi ex compagni ne arrivano tre, ufficialmente come fattorini: l’ala Emmanuel Duah, autore del gol alla Spagna nel Mondiale U-17 a Firenze ’91, e i difensori Mohammed Gargo e Samuel (Sammy) Kuffour. In FIGC però non la bevono, o almeno fanno finta: e aprono un’inchiesta sul cosiddetto “Affare Ghana”. Era, quello, il Torino di Gian Mauro Borsano presidente e Luciano Moggi dg.

Lamptey invece si era affidato ad Antonio Caliendo, un personaggio semi-mitologico in quell’epoca pionieristica per la figura dei procuratori, a metà tra il mercante e l’avventuriero.

Catapultato in Belgio 15enne, Nii per regolamento non poteva ancora giocare da professionista. Aad de Mos, l’allenatore arrivato sulla scia dei successi col piccolo Malines (vittorioso in Coppa delle Coppe ’88), lo mette comunque sotto contratto. E siccome l’Anderlecht, a Bruxelles, conta almeno quanto il re, la legge è presto cambiata. Abbassato il limite di età, compiuti i 16 anni Lamptey gioca e segna in massima divisione: 9 gol in 30 partite di campionato, 10 nelle prime 11 in biancomalva, compresi quello all’esordio (suo il 3-1 al Club Bruges, da subentrato a venti dalla fine) e l’inutile 2-3 alla Roma nel ritorno dei quarti di Coppa UEFA 1990/91.

Con l’Anderlecht scende in campo 17 volte in tre competizioni, segna 8 gol. In squadra ci sono l’olandese van Tiggelen, eurocampione 1988, e “papà” Keshi in difesa; là davanti gente come Gert Verheyen, il brasiliano Luís “Lulù” Oliveira e il belga Marc Degryse. Il 29 aprile ’91 debutta con gol anche in Nazionale maggiore, 2-0 al Togo nelle qualificazioni di Coppa d’Africa. «Vederlo giocare è un sogno», scriverà Caliendo vent’anni dopo nell’autobiografia Nessuno prima di me.

Nel 1993 è al PSV Eindhoven, comunque un passo avanti. Nel club della Philips bolla 10 volte in 22 gare, giocando da mezzapunta.

Altra stagione e altro trasferimento, secondo Lamptey imposto da Caliendo. Nii arriva in Inghilterra, all’Aston Villa di Ron Atkinson, che poi, l’anno seguente, se lo porta al Coventry City. «Non sapevo dell’ingaggio alla firma», ricorda Nii. «Me lo disse l’allenatore, e me lo pagarono direttamente negli uffici del club. Due settimane dopo, il mio agente si presentò in sede per ritirare i soldi. Gli risposero che li avevano già versati al giocatore. E lui si arrabbiò moltissimo con me».

Forse perché nell’accordo di rappresentanza l’attuale patron del Modena Caliendo, allora noto come “mister otto per cento”, s’era riservato una percentuale del 25 su ogni futuro trasferimento del suo assistito. Così almeno narra Lamptey: «Per raccontarle tutte non basterebbe un libro, ma come faccio a scriverlo se non so neanche scrivere una lettera». Sul suo presunto semianalfabetismo molto s’è favoleggiato, ma nel 2008 Brian Oliver del Guardian gli ha fatto un test: come si scrive il cognome del tuo ex agente? Risposta: C-O-L-E-H-D.

A questo punto devo fare una piccola digressione. Nell’estate ’92, Lamptey era, come i dirigenti dell’Anderlecht, ospite del “Mammut” a Modena, tennis club con piscina, ristorante e centro fitness tuttora di proprietà di Caliendo. Rossano Donnini, modenese doc e memoria storica del calcio estero sul Guerin Sportivo, era fra gli invitati alla serata ed era appena rientrato dal “Riccardo Facchinetti”, torneo per i Seconda categoria che si giocava al mitico TC Cerlongo di Goito, nel mantovano. Donnini riconosce Lamptey per averlo visto in campo quel gennaio, nella Coppa d’Africa che il Ghana aveva perso ai rigori in finale contro la Costa d’Avorio (Nii aveva segnato il secondo). Per l’Italia a coprire l’evento c’era pure la RAI, con un giovane inviato neo-assunto: Stefano Bizzotto. «Lamptey era piccoletto, sull’1,70», rievoca Donnini, «Ma con cosce enormi e movenze feline. Sembrava davvero un piccolo Pelé».

All’occhio del cronista non era però sfuggita una disarmante naïveté. E soprattutto la benché minima percezione di ciò che lo circondava. «Succedevano talmente tante cose alle mie spalle, sin da quando, essendo io troppo giovane per firmare, un agente era venuto ad Accra per ottenere la procura dai miei genitori. Nella mia carriera c’è sempre stata gente pronta a tradirmi, solo per badare ai propri interessi». Lodevole eccezione, il vecchio Atkinson. Quello che gabbò Caliendo versando l’ingaggio sul conto di Lamptey. «Big Ron è sempre stato buono con me».

Caliendo aveva già adocchiato Lamptey al mondiale U-17 a Montecatini, ma l’Anderlecht, complici i buoni uffici di Keshi, aveva bruciato tutti, Rangers e Vasco da Gama in primis. “Lo Squalo”, nick affibbiatogli da colleghi e addetti ai lavori, non è però uno che molla. In Nessuno prima di me scrive: «Per la procura del ragazzo servono 300mila dollari, che pago perché questo mi avrebbe permesso in seguito di aprirmi la strada per prendere anche altri due giocatori del Ghana, ovvero Kuffour e Duah. […] Nel 1993 lo trasferisco al PSV per sostituire Romário (passato al Barcellona, ndr). Dopo un paio di mesi mi contattano i dirigenti dicendomi di venire subito in Olanda. Il ragazzo ha speso ventimila dollari di telefono nell’albergo dove alloggiava. In pratica il suo stipendio di un mese. Lamptey, bugiardo, mi assicura che si tratta di un errore, ma quelli dell’hotel non hanno dubbi. Così dico ai dirigenti della squadra olandese di trattenergli dalla busta paga duemila dollari al mese per i successivi dieci mesi, in modo da saldare il debito. Il mese successivo il club mi manda a chiamare di nuovo. È allora che scopro che si è fidanzato con una modella africana che è il doppio di lui, sia nel fisico sia all’anagrafe, e che è pure andato a vivere con lei. Quando vado a casa loro, non posso che constatare che lei non esce praticamente mai dal letto. E così a causa sua Lamptey si ritroverà già con due figli viventi e uno morto. Logicamente, il PSV non vuole rinnovargli il contratto. Così lo porto in Inghilterra, e appena lo vede Ron Atkinson, allenatore esperto e di successo, mi dice subito che Nii è un fenomeno».


Globetrotter

Lamptey arriva in Inghilterra a 19 anni con già 38 presenze e 8 gol in Nazionale, ma anche evidenti sintomi di burnout. Sin dalle giovanili il suo straordinario talento aveva spinto la federazione a pressioni e richieste sempre più pesanti: a 13 anni gioca negli U-20, a 14 il Mondiale con gli U-16. A 16 è già in Nazionale maggiore. Per non parlare degli impegni con le squadre di club.

In Premier League soffre gli alti ritmi e il gioco più fisico, non trova mai la necessaria continuità, è spesso infortunato e in più la sua ultima stagione è interrotta dalla Coppa d’Africa 1996, chiusa con l’espulsione in semifinale, persa 3-0 col Sudafrica padrone di casa. È la sua ultima partita ufficiale con le Black Stars. A soli 21 anni.

Eppure con i “Villans” qualche lampo l’aveva mostrato. Non in campionato (solo 10 presenze), ma in League Cup: tre gol al Wigan Athletic, uno all’andata in casa, due al ritorno.

Per Caliendo «anche in quel caso il ragazzo inizia alla grande. Ma dopo due mesi mi chiamano i dirigenti dell’Aston Villa. È arrivata la sua donna, e lui non rende più. L’anno dopo, il passaggio al Coventry City. Anche lì le cose non vanno bene. Allora lo porto al Venezia, poi al Palermo. Alla fine scelgo l’Argentina. Anche lì, fin dal primo allenamento ne sono entusiasti. E lo ricoprono d’oro: villa da favola, macchina, autista, personale di servizio. Poi, però, tempo un mese, Lamptey comincia a soffrire di nostalgia per la moglie (nel frattempo si è sposato) e per i figli. Quando lei lo raggiunge, è la fine. In pratica gli fa fare sesso dalla mattina alla sera e lo svuota di energie. Non riesce più a correre e a giocare. Mi chiama il presidente (Ángel Pedro Malvicino, ndr) e mi supplica di portarlo via. Gli rispondo che possono liberarsene tranquillamente, perché nemmeno io voglio più avere a che fare con lui. So che è stato in Arabia e anche in Cina, ma ovunque ha retto i primi due, tre mesi e poi è crollato. Un vero peccato. Un talento sprecato».

I tifosi del Coventry City gli hanno intitolato il Nii Lamptey Show, podcast satirico settimanale sugli alti e soprattutto bassi dell’essere “Sky Blues”.

Durante il loro burrascoso rapporto, Nii e Gloria hanno perso, ancora infanti, due dei loro cinque figli: Diego in Argentina nel 1997 per una rara malattia polmonare; Lisa, anche lei a quattro mesi, per insufficienza respiratoria, mentre Nii era al Greuther Fürth (1999-2001), in Germania, dove lo aveva portato il nuovo agente, tedesco come Otto Pfister, suo ex CT al Mondiale U-17, che glielo aveva raccomandato. In Zweite Bundesliga però Nii non si ambienta, i compagni rifiutano di dividere la stanza con lui, lo choc culturale è proibitivo e il gioco, anche lì, troppo fisico. Dopo 5 gol in 36 gare è tempo di migrare.

In quanto all’Argentina, era stato il giocatore a spingere per andarci, ma al Boca Juniors del suo idolo Maradona. Il club xeneize però non poteva tesserarlo per via delle norme sugli stranieri, e così lo ha parcheggiato all’Unión Santa Fe. In Argentina nasce Diego, un chiaro omaggio, ma nasce prematuro, di otto mesi. E sta male. Solo nella capitale possono salvarlo. Nii non se la sente di lasciare Gloria da sola a Buenos Aires e per due mesi e mezzo vive fra cliniche e ospedali con Diego in terapia intensiva. Non basterà. E siccome la miseria umana non ha fine, le autorità del Ghana negano per la piccola salma il nulla osta per il rimpatrio.

«Dopo la morte di Diego non potevo restare in Argentina. Chiamai l’Anderlecht: “La situazione è questa, voglio tornare”. Il vicepresidente mi rispose: “Il tuo cartellino non è più nostro, è di Caliendo”. Caliendo mi cedeva a mia insaputa. Dopo la morte di Diego volevo solo tornarmene a casa, e quel tizio mi costringeva a firmare per lui. Rifiutai. Mi è andata bene, altrimenti sarei rimasto con lui non so fino a quando».

Rimarrà invece inappagato il sogno di Bernard Tapie di schierare nel suo Marsiglia i due Pelé ghaniani, Abedi e Lamptey, che ancora oggi non si parlano. «Lui sa perché», dice Nii. All’ex torinista, papà di Ibrahim, Jordan e André Ayew, però non serba rancore. A luglio 2015 l’Aston Villa, suo vecchio club, gli ha chiesto referenze su Jordan, candidato a rimpiazzare Christian Benteke ceduto al Liverpool. «Mi hanno chiesto che progressi può fare nei prossimi cinque anni. Gli ho detto: “Ha statura, passo, talento. Prendetelo, in due, tre anni diventerà un top anche in Premier”».

Tra i miti urbani nati intorno a Lamptey, in campo e fuori, ce ne sono un paio che meritano di essere sfatati.

Al Palermo, in B, dove arriva dopo una triste esperienza al Venezia (5 spezzoni di gara, nessuna rete, uno dei tanti folli investimenti di Zamparini), leggenda vuole che Ignazio Arcoleo gli preferisse “Ninuzzo” Barraco, trequartista siciliano classe ’64.

«Aveva ottime potenzialità e si vedevano», ricordava l’allenatore nel 2012 a Gaetano Mocciaro di Tuttomercatoweb, «Però si doveva integrare nel nostro calcio. Invece voleva dribblare tutti e andare in porta, fare il Pelé della situazione. Aveva bisogno di ambientarsi, la mia idea era dargli qualche mese di tempo per adattarsi. Se avesse seguito i miei consigli, magari avrebbe fatto come Marco Materazzi qualche anno dopo: arrivò nel mio Trapani dal Marsala, gli diedi sei mesi per sgrezzarsi, divenne titolare e da lì partì la sua favola».

L’altro falso storico, tutt’altro che favoloso, riguarda il Lamptey tornato povero e costretto a guadagnarsi da vivere guidando un taxi ad Accra. L’equivoco è forse nato da una storia simile alla sua, quella di Ben Wilson. A 16 anni Wilson raggiunse all’Anderlecht i connazionali Lamptey, Sam Johnson e Yaw Preko prima di trasferirsi in Francia, al Bastia. Anche per l’ex rifinitore del King Faisal sembrava scritto un futuro tra i grandi. Invece è finito nell’oblio, e deve ringraziare Muntari Sulley, che gli ha pagato l’operazione post-infortunio a una gamba, se oggi, per vivere, può guidare un taxi a Kumasi.


Scandali e maledizioni

A fine gennaio 2014, scoperto grazie a un test segreto del DNA che i tre figli viventi avuti con Gloria non erano suoi, Lamptey è tornato notizia globale, specie dopo il suo pianto in diretta nazionale a un’emittente di Lagos, Sports Radio 88.9 Brila FM.

A rendere lo scenario se possibile ancora più lampteyiano sono i dettagli scandalistici. I presunti tradimenti di lei, secondo Nii più volte perdonata. L’ultimo, da lui ammesso poi sconfessato via Twitter, con Elikem Kumordzi, primo rappresentante del Ghana al Grande Fratello africano. Il tutto con tanto di guerra social tra la 46enne Gloria e Pokello, la nuova fidanzata di Elikem.

A chiedere il divorzio e il 50% del patrimonio però è stata Gloria, secondo la quale era stato il marito, sterile, a spingerla all’inseminazione artificiale. Linea difensiva crollata, visto che, un anno dopo i tre dibattimenti in tribunale, Nii si è fidanzato e dalla nuova compagna ha avuto il suo primo figlio naturale.

Si è poi saputo che Nii non voleva pagare, per la figlia maggiore Latifa, allora 19enne, la retta dell’esclusiva università estera scelta da Gloria: 26.000 sterline annue per tre anni. «Io a scuola non ci sono andato, e non volevo accadesse anche a loro. Per questo li ho mandati nelle migliori scuole del Ghana, versando rette da 3.000 dollari a semestre».

Dietro, come sempre, c’è dell’altro. Gloria, ex concorrente di Miss Ghana, è figlia di Christian Kofi, che era stato braccio destro di Kwame Nkrumah, detto l’ “Osagyefo” (il redentore), che fu presidente del Ghana e fra i padri della decolonizzazione e del panafricanismo. «L’ho conosciuta nel ’94, quando ero al PSV. Ai miei familiari non piaceva. Quelli del Kaloum Star volevano farmi sposare un’altra donna, ma io non ne sapevo niente. E cominciarono a farmi tutta una serie di cose. La gente diceva che Gloria stava con me per i miei soldi. Quando mia madre morì, dissero che era successo a causa sua, che non mi ero preso cura di lei, ma io ho fatto tutto quel che ho potuto per i miei. A mia madre ho comprato casa e macchina, non le ho mai fatto mancare niente».

Nii, per riconciliarsi col padre, si è anche riconvertito al cattolicesimo. Ma quando ha perso i genitori, a seppellirli c’era solo lui. I fratelli non hanno voluto accollarsi le spese. E non gli hanno mai perdonato d’aver sposato una donna di altra etnia: i Lamptey sono Ga, Gloria è Fanti—e non si parlano. Ancora oggi Nii crede che almeno in parte il suo fallimento sia questione di Juju, che gli europei scambiano per magia nera, ma che invece ha più a che fare con le religioni tradizionali dell’Africa occidentale. Già quando Lamptey andò in Europa, gli dicevano: «Vedremo se giocherà ancora in Nazionale, vedremo proprio». E nonostante le tre Coppe d’Africa disputate (1992, 1994, 1996), Lamptey con le “Black Stars” rimarrà un’eterna incompiuta. «Me l’hanno portato via (il talento, ndr). E fa male. A volte mi chiudevo nella mia stanza e non facevo che piangere».


Mai più altri Nii

Oggi, chi lo riconosce quando lo incontra in genere gli si rivolge in due modi. «Alcuni di quelli che giocano all’estero mi ringraziano perché, dicono, ho aperto loro le porte per l’Europa». Per altri, la sua è la perfetta parabola dello sfruttamento dei giovani calciatori africani. Sono storie come la sua ad aver indotto la FIFA a proibire il trasferimento internazionale di giocatori minori di 18 anni.

Ma più che leggi e regolamenti, a fare da monito ai 400 studenti della scuola da lui fondata ad Accra sono i muri della biblioteca. Le pareti sono tappezzate di ritagli di quando era il ragazzo prodigio del football mondiale: intere paginate rosa della Gazzetta dello Sport, articoli in francese e in spagnolo ai tempi dell’Olimpiade di Barcellona. Le aule invece portano il nome dei 10 paesi di 4 continenti in cui ha giocato: Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Italia, Argentina, Turchia (MKE Ankaragücü), Portogallo (União Leiria), Germania, Cina (Shandong Luneng), Emirati Arabi (Al Nasr), Sudafrica (Jomo Cosmos); Australia (Mondiale U-20) e Brasile (lì, nel 1996, la sua ultima in Nazionale: 8-2 in amichevole per la canarinha).

Ritiratosi nel 2007 come primo ghanese tornato a giocare in patria, dal 2009 è assistente allenatore nel Sekondi Eleven Wise. E come proprietario-istruttore della sua scuola calcio, Lamptey—che ha pure una fattoria, ma non un taxi—è ancora nel suo mondo. Se mai dovesse capitarvi di guidare lungo le strade da cui Nii scappò 14-enne verso la Nigeria, noterete una serie infinita di cartelli, a volte mal scritti, di “Football Schools” o “Soccer Academies”.

Contro queste fabbriche di sogni, talvolta gestite da chi sostiene di lavorare per conto del Signore, Nii ha ancora voglia di lottare. «Il calcio lì è solo business. Se vuoi portarci un ragazzo, devi spendere. Ti portano via i soldi, e magari neanche ti danno quel che ti spetta. È l’istruzione il più grande regalo che puoi fare a un figlio».

Oggi il suo orgoglio è Frank Opoku Acheampong, “il Messi ghanese”, un ’93 diplomatosi alla sua Glow Lamp School che vent’anni dopo ne sta ripercorrendo il cammino: da Accra all’Anderlecht.

In ufficio, nella sua scuola, sulle colline Aburi a nord-est della capitale, c’è un cartello con un proverbio imparato in Cina: «Se la vita non ti dà quel che vorresti, rallegrati d’essere vivo. E se non puoi ottenerlo, goditi quel che hai».

Anche oggi che sa leggere e scrivere, “il nuovo Pelé” Nii Odartey Lamptey non avrebbe saputo dirlo meglio.


Christian Giordano (Senigallia, 1970), è giornalista professionista e telecronista di Sky Sport e Fox Sports. È stato coautore dei testi di “Federico Buffa racconta” (Sky Sport).


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