SAGAN, IL MONDO DI PETER
Viaggio nel mondo del nuovo campione iridato. A guidarci sono il suo scopritore Enrico Zanardo, il suo team manager Roberto Amadio e il procuratore Giovanni Lombardi
di Giulia De Maio (TUTTOBICI, novembre 2015)
Krynica Zdroj, Polonia, 10 agosto 2009: Alessandro Ballan vince sotto il diluvio la sua unica corsa in maglia iridata. Un’oretta più tardi, in un anonimo hotel che ospita diverse squadre entra un gruppetto di ragazzi. Uno di loro, cappellino da rapper in testa, si avvicina e in una strana lingua chiede di Stefano Zanatta, il diesse della Liquigas. Non era un tifoso in cerca di autografi, come invece poteva sembrare. Anzi nel giro di qualche minuto la firma l’avrebbe messa lui sul suo primo contratto da corridore professionista. Inizia così l’avventura nel ciclismo che conta di Peter Sagan, attuale campione del mondo.
Ma andiamo ancora più indietro nel tempo. Per conoscere il ragazzo che veste la maglia iridata, riavvolgiamo il nastro fino alle sue prime pedalate. «Ho seguito le orme di mio fratello Juraj, che ha iniziato a correre e vincere fin da ragazzino. Ho cominciato a pedalare verso i 4 anni per divertirmi, a gareggiare a 9 quando l’allenatore di Juraj, un giorno mentre tornavamo da una sua gara che ero andato a vedere, mi ha proposto di provare. In inverno mi allenavo con gli sci di fondo, d’estate con la bici. Come sono andate le prime corse? Le ho vinte quasi tutte, ma dopo 3-4 anni volevo smettere per dedicarmi solo alla discesa libera o al downhill che mi sembravano più divertenti. I miei parenti mi hanno impedito di prendere quella strada perché ritenevano queste discipline troppo pericolose e una bici da discesa era troppo costosa per le possibilità della mia famiglia, così ho proseguito con la mtb (in questa specialità nel 2008 ha vinto il campionato del mondo, il campionato europeo e il campionato nazionale nella categoria junior, ndr) e la strada».
Alla prima gara
«A Bratislava, la capitale della Slovacchia. Staccai tutti e arrivai con un relativo vantaggio a braccia alzate tutto solo. Ero davvero piccolo, ero nella categoria mini. Si dice così? (sorride, ndr). Ho una foto troppo buffa che immortala quella prima vittoria: avevo un casco che sembrava un elmetto da guerra e un completino che mi stava larghissimo perché la squadra non aveva a disposizione divise a misura di bambino, scarpe da ginnastica e la bici che con papà avevo comprato al supermercato e colorato di verde metallizzato».
Ai suoi sogni
«Da bambino non avevo chissà quali progetti. Ho studiato informatica all’Istituto Tecnico Amministrativo. A 11 anni ho frequentato un corso di recitazione, insomma qualche lezione per sentirmi un attore, ma è stata un’esperienza molto breve... Fosse durata di più, magari oggi vivrei a Hollywood! A parte gli scherzi, prima il ciclismo per me era un semplice hobby, da qualche anno è diventato il mio lavoro e mi ritengo molto fortunato perché posso vivere della mia passione».
«Da bambino non avevo chissà quali progetti. Ho studiato informatica all’Istituto Tecnico Amministrativo. A 11 anni ho frequentato un corso di recitazione, insomma qualche lezione per sentirmi un attore, ma è stata un’esperienza molto breve... Fosse durata di più, magari oggi vivrei a Hollywood! A parte gli scherzi, prima il ciclismo per me era un semplice hobby, da qualche anno è diventato il mio lavoro e mi ritengo molto fortunato perché posso vivere della mia passione».
Alla sua famiglia, che gli ha permesso di inseguire ciò che desiderava e di diventare l’uomo che è oggi.
«In primis devo dire grazie ai miei genitori (Peter è l’ultimo dei quattro figli di mamma He lena, che fino a qualche anno fa mandava avanti un piccolo supermercato a Zilina, e papà Lubomir che aveva un ristorante-pizzeria sempre nella cittadina slovacca che si trova sul confine polacco: Milan di 36 anni, Daniela di 34 e Juraj di 26, ndr) e ai miei fratelli, in particolare al più “vecchio” che per me è sempre stato un modello e a Juraj che per motivi di età e lavoro ha condiviso con me tutti i momenti importanti della mia vita, anche sportiva. Un pensiero devo mandarlo anche ai miei allenatori in Slovacchia che sono riusciti a farmi migliorare, a chi mi ha permesso di prendere parte alle corse fuori dal mio paese dove la concorrenza era maggiore e so prattutto a chi mi ha portato in Italia».
Pennellato il Peter bambino, possiamo tornare alla sua storia più recente in cui c’è tanto azzurro.
«L’arrivo nel vostro paese nel 2008 non è stato per niente semplice. Non parlavo la vostra lingua e non capivo niente, alla sera andavo a dormire con il mal di testa perché passavo le giornate concentrato a cercare di apprendere almeno qualche parola. Dopo tre mesi in “casetta” con i ragazzi della Marchiol ho imparato la lingua (anche un po’ di veneto) e mi sono sbloccato, da lì è stato tutto più facile».
«L’arrivo nel vostro paese nel 2008 non è stato per niente semplice. Non parlavo la vostra lingua e non capivo niente, alla sera andavo a dormire con il mal di testa perché passavo le giornate concentrato a cercare di apprendere almeno qualche parola. Dopo tre mesi in “casetta” con i ragazzi della Marchiol ho imparato la lingua (anche un po’ di veneto) e mi sono sbloccato, da lì è stato tutto più facile».
Per farci raccontare il mondo di Peter Sagan abbiamo chiesto aiuto a tre uomini che sono stati e sono fondamentali per la sua crescita: chi l’ha scoperto, chi l’ha introdotto al professionismo e chi lo consiglia tutt’oggi.
Enrico Zanardo, lo scopritore
Al suo primo anno da juniores, Peter disputò i mondiali su strada in Messico e si piazzò quarto alle spalle del terzetto italiano composto da Ulissi, Ratto e Favilli. In quell’occasione fu notato da Enrico Zanardo, ex tecnico della Pasta Montegrappa, a cui il promettente slovacco era stato segnalato da amici di lungo corso. «Alcuni amici me ne avevano parlato fin da quando era allievo. Conoscevo bene Kamil Hatapka, che quando c’era ancora la Cecoslovacchia era il CT della Nazionale, e successivamente è diventato vicepresidente del Parlamento slovacco. Ha sempre avuto un debole per il ciclismo e mi ha coinvolto per far ripartire l’attività nel suo paese. Creai un team GS3 (l’attuale corrispettivo oggi sarebbe una Continental) per lanciare i giovani più interessanti del Paese. Da allora sono passati parecchi anni ma tra noi è rimasto un rapporto di stima reciproca, così all’apparire di questo talento me l’hanno in qualche modo affidato, dandomi fiducia per costruire un percorso adatto a lui per arrivare al professionismo».
Al suo primo anno da juniores, Peter disputò i mondiali su strada in Messico e si piazzò quarto alle spalle del terzetto italiano composto da Ulissi, Ratto e Favilli. In quell’occasione fu notato da Enrico Zanardo, ex tecnico della Pasta Montegrappa, a cui il promettente slovacco era stato segnalato da amici di lungo corso. «Alcuni amici me ne avevano parlato fin da quando era allievo. Conoscevo bene Kamil Hatapka, che quando c’era ancora la Cecoslovacchia era il CT della Nazionale, e successivamente è diventato vicepresidente del Parlamento slovacco. Ha sempre avuto un debole per il ciclismo e mi ha coinvolto per far ripartire l’attività nel suo paese. Creai un team GS3 (l’attuale corrispettivo oggi sarebbe una Continental) per lanciare i giovani più interessanti del Paese. Da allora sono passati parecchi anni ma tra noi è rimasto un rapporto di stima reciproca, così all’apparire di questo talento me l’hanno in qualche modo affidato, dandomi fiducia per costruire un percorso adatto a lui per arrivare al professionismo».
Tutto è nato con il Mondiale di ciclocross a Treviso.
«Sì, nel 2008 la Slovacchia doveva venire a correrlo, ma non avevano tanti mezzi, così mi chiamarono per avere un supporto. Peter arrivò il giorno prima della gara accompagnato solo dal papà e da un meccanico, finì con l’argento al collo. Quel giorno ebbi un’ulteriore conferma delle sue potenzialità, anche senza strutture intorno sapeva dimostrarsi un vero talento. Mi colpì il suo porsi di fronte alla situazione con orgoglio e determinazione, quasi spavaldo. Già a 18 anni aveva questo carattere, che è il suo marchio di fabbrica e manifesta con entusiasmo nel suo modo di fare ciclismo. Oltre a delle evidenti doti fisiche, possedeva quella consapevolezza e autostima fondamentali per affermarsi. Quello stesso anno sono stato in Slovacchia e, con le possibilità della squadra nazionale, abbiamo cercato di offrirgli un calendario di livello con il quale si è subito dimostrato a suo agio. Si è messo in mostra in gare prestigiose come Corsa della Pace, Giro d’Istria e Lunigiana. L’ho segnalato ad Amadio, visto che ero legato alla Liquigas da un legame di amicizia e conoscenza antica. Roberto aveva vinto nell’85 il campionato del mondo nell’inseguimento a squadre, io all’epoca allenavo Martinello e di quel quartetto faceva parte anche Lombardi, che tornerà più avanti nella storia di Peter a chiudere il cerchio».
L’avete fatto crescere senza mettergli fretta.
«Sì. Completata l’attività tra gli juniores, è passato al Gs Dukla Trencin, squadra di riferimento del suo Paese nella quale avrebbe corso per una stagione prima di passare nella massima categoria. Aveva bisogno di crescere a livello internazionale, io lo seguivo in Italia come diesse, ma come struttura faceva riferimento alla squadra dilettantistica Marchiol. Veniva preparato da Paolo Slongo, anche lui mio ex corridore, alloggiava nella foresteria del team. Intanto gli trovai due sponsor per finanziare viaggi e corse in Italia e gli cercavo casa nella zona dove venivano organizzati i Liquigas Camp. Ero molto fiducioso e mi sono esposto parecchio per lui, ma ho sempre avuto prudenza nel fare esternazioni esagerate sul suo conto. Ricordo che un giorno una persona che lavorava per un’agenzia che lo stava già seguendo lo definì in mia presenza il più forte corridore al mondo. Mi sembrava azzardato da dire a un ragazzino di 17 anni. Ne ho visti tanti di valore perdersi per strada così come al contrario ho visto atleti acerbi che ci hanno messo del tempo a esplodere. Lui è stato bravo a sviluppare le sue qualità e a circondarsi di persone fidate, che gli hanno permesso di far emergere il suo talento».
Sarà stato conteso da molte squadre...
«Ha ricevuto diverse proposte di contratti da grandi team, non era passato inosservato al primo anno da Under. Per certo lo volevano Riis e Bruynel, Lefevere gli aveva anche fatto dei test che però non avevano dato valori eclatanti... La Liquigas gli ha dato fiducia offrendogli un contratto al minimo, rivisto dopo pochi mesi alla luce del fatto che fin dalle prime corse aveva dimostrato qual era il suo valore. Dopo i primi risultati in Australia al Tour Down Under, ho convinto Roberto a mettergli a fianco il fratello e ho preso loro un appartamento all’interno di una villetta di due pensionati a Cima d’Olmo (TV). E qui ha vissuto finché non si è trasferito a Montecarlo. Peter nella Liguigas dell’epoca ha avuto la fortuna di trovare il supporto tecnico e umano ideale per un diamante grezzo quale era lui. In quella squadra è stato forgiato al meglio, sono felice di averlo spinto per questa formazione. Gli anni trascorsi in maglia verdeblù sono stati fondamentali per la sua crescita, dispiace molto pensare che non abbiamo più una squadra del genere. Speriamo presto possa rientrare sulla scena perché è una mancanza enorme per il ciclismo italiano».
Qual è la sua forza?
«Oltre alle qualità naturali, il talento puro è quello che fa la differenza, ha una marcia in più a livello caratteriale e comportamentale. Sa stare in equilibrio tra l’essere un ragazzo giovane che vive la sua età con spensieratezza e la professionalità necessaria in un mondo nel quale i dettagli vanno curati con estrema attenzione. È esuberante, spigliato, agonista fin nel midollo, ad andare in bici si diverte, vive la soddisfazione di fare qualcosa che gli piace da morire. Peter è una macchina da guerra, è uno che azzarda, improvvisa, esce dagli schemi anche tattici. A inizio carriera questo era un suo limite, l’ha fatto sbagliare, ma gli ha permesso allo stesso tempo di aggredire corse mitiche nonostante avesse di fronte a sé campioni blasonati. L’istinto qualche volta l’ha tradito, ma sta raggiungendo il giusto equilibrio tra l’estro e l’esperienza del vero campione. La sua carta vincente è la creatività, qualità che l’ha fatto diventare un personaggio esemplare pur restando semplice».
Sei orgoglioso di averlo lanciato?
«Io sono schivo, non voglio prendermi alcun merito, ma dentro di me ho la soddisfazione di aver visto le aspettative mie, e di chi in qualche modo me lo ha affidato, confermate. Sono felice per lui perché è un ragazzo trasparente e buono, caratteristica per me fondamentale. Io l’ho sostenuto come ho potuto, vederlo vincere in tv il mondiale mi ha fatto avvertire un groppo allo stomaco e scendere qualche lacrima. Conosco la sua storia, so quanta strada ha fatto per arrivare sul tetto del mondo, quindi ho condiviso la sua emozione. Speriamo che questo traguardo sia solo il preludio di una grande carriera e che si conservi a lungo così com’è».
Roberto Amadio, il team manager
Arriva la prima corsa del 2010, il Tour Down Under, e Sagan in maglia Liquigas nella prima tappa si stampa contro le transenne in volata. Braccio sinistro a brandelli, ricucito sul posto con trenta punti di sutura. Peter sul lettino ha solo una domanda per il dottore: “Io domani start?”. Parte, va in fuga con Armstrong e finisce quarto. Non ha ancora 20 anni. E meno di due mesi più tardi, ad Aurillac, terza tappa della Parigi-Nizza, centra la prima delle sue 75 vittorie.
Arriva la prima corsa del 2010, il Tour Down Under, e Sagan in maglia Liquigas nella prima tappa si stampa contro le transenne in volata. Braccio sinistro a brandelli, ricucito sul posto con trenta punti di sutura. Peter sul lettino ha solo una domanda per il dottore: “Io domani start?”. Parte, va in fuga con Armstrong e finisce quarto. Non ha ancora 20 anni. E meno di due mesi più tardi, ad Aurillac, terza tappa della Parigi-Nizza, centra la prima delle sue 75 vittorie.
Ricordi la prima volta che l’hai conosciuto?
«Certo - risponde Roberto Amadio -. L’ho incontrato quando aveva 19 anni. Era già un ragazzo con le idee molto chiare, mi stupì perché era la prima volta che avevo a che fare con un neoprof che aveva già uno staff di persone che lo seguivano, un’agenzia che ne curava interessi e immagine, mi è parso molto concreto. Dopo un anno con i dilettanti in Italia, ha fatto il grande salto nel mondo del professionismo con noi nel 2010. Ci siamo subito resi conto che era un fenomeno, ricordo la telefonata di Mariuzzo dall’Australia: “Questo va davvero forte, dobbiamo pensare a un discorso a lungo termine”. Dopo metà anno stavamo già trattando per un prolungamento di contratto perché volevamo proseguire assieme la strada intrapresa. Abbiamo subito trovato l’accordo perché Peter è un ragazzo a cui non serve raccontare storie, ha sempre saputo dove voleva arrivare e come riuscirci».
Che cosa ha imparato alla vostra corte?
«A essere un professionista, la nostra era una squadra nella quale, grazie ai direttori sportivi, al personale, allo staff si insegnava come si fa il corridore, la lista dei ragazzi nati con noi che si sono affermati a livello mondiale è lunga. Nibali ha corso con noi sette anni, oltre a lui basti pensare a Kreuziger, Oss, Quinziato... I risultati che Peter sta ottenendo sono nelle sue qualità ma un po’ di merito è giusto tributarlo a chi gli ha dato fiducia all’inizio e lo ha sostenuto al meglio, senza spremerlo. Per lui abbiamo impostato un programma adeguato. Nei primi due anni non ha partecipato a nessun grande Giro, lo abbiamo gestito come un ventenne promettente qualunque, al di là delle sue evidenti qualità. Non ce ne siamo approfittati per spingerlo subito a ottenere risultati importanti, ma abbiamo optato per una crescita graduale che gli permette ora di avere davanti a sé ancora molti anni ad alto livello. L’unico rammarico sia mio sia suo - ne abbiamo parlato anche al mondiale visto che eravamo nello stesso hotel - è che ci è mancata la vittoria di una classica con la maglia Liquigas Cannondale. Ci siamo arrivati vicini al Fiandre e alla Sanremo ma per vincere le corse monumento serve esperienza e anche un pizzico di fortuna; comunque con noi è cresciuto e ha ottenuto i primi risultati da campione. Sia per noi sia per lui i cinque anni trascorsi insieme, dal 2010 al 2014, hanno rappresentato un’esperienza importante e positiva».
Sapevi che un giorno sarebbe diventato campione del mondo?
«Sì, ma non perché io sia un veggente. Il suo talento è lampante. Stiamo parlando di un corridore che può vincere qualsiasi tipo di corsa, dalla Sanremo alla Liegi: sì, può arrivare a far sua anche la “decana delle classiche” perché con gli anni è migliorato in salita, ricordiamoci che ha vinto al California una tappa che presentava una salita in cui le bici montavano il 27... Non ha limiti, il suo futuro dipende tutto dagli obiettivi che si porrà, sta a lui averli chiari in testa e darsi sempre nuovi stimoli. Il suo unico limite può essere se stesso, ma la voglia di vincere non gli manca quindi sono più che fiducioso che lo aspetti un futuro importante. Al mondiale tifavo Italia perché tra gli azzurri c’erano tanti miei corridori, avevo la speranza che ce la facessero, ma l’azione di Peter ha reso felici tutti. Ne avevamo parlato nei giorni precedenti, vedere trasformate in azione le sue parole, è stata una bella soddisfazione. Chapeau».
È riconoscente?
«Molto, pensate che anche ora che la nostra squadra non esiste più a fine stagione ci ritroviamo tutti. Quando gli ho detto che il 29 ottobre i miei ex diesse assieme al personale e ad alcuni atleti ci saremmo riuniti per una partita di calcio e una cena e sarebbe stato bello averlo con noi, mi ha subito risposto “ci sarò”.
Nonostante l’avventura del nostro team sia finita continuiamo questa tradizione di fine anno che dimostra quanto quel gruppo speciale è rimasto legato. Peter, al di là delle maglie verdi e delle vittorie conquistate, è una persona molto intelligente, con la quale si può affrontare qualsiasi argomento. È particolarmente curioso, quando arrivò in Italia ci poneva un sacco di domande, chiedeva anche le cose più banali. Ha un’intelligenza superiore alla media ed è proprio piacevole starci insieme. Sono veramente felice che tra tutti gli impegni conseguenti alla vittoria della maglia iridata abbia trovato una giornata per stare con noi, che rappresentiamo una fase importante della sua carriera. Gli auguro davvero il meglio per il futuro, se lo merita».
Giovanni Lombardi, il procuratore
Ad attendere Sagan, una volta tagliato il traguardo di Richmond, c’era anche Giovanni Lombardi, professionista dal 1992 al 2006, olimpionico nella corsa a punti e vincitore di quattro tappe al Giro d’Italia e due alla Vuelta a España, che da sei stagioni cura gli interessi del campione slovacco. Il “Lomba” è l’uomo che Peter ha scelto come suo manager, a cui affida i suoi interessi e la sua immagine ed è, tra le nostre tre guide, quella che meglio può raccontarci il Sagan adulto.
Che impressione hai avuto quando l’hai visto per la prima volta?
«Ho capito che tipo era al prologo della Parigi Nizza 2010 in cui si piazzò quarto. Andando alle corse ho avuto modo di parlarci e di conoscerlo meglio, all’epoca lavoravo con Ivan Basso e altri suoi compagni di squadra perciò è stato naturale che mi avvicinassi a lui. Abbiamo deciso di lavorare insieme nell’inverno 2010, prendemmo questa decisione a Cancun, in Messico, dove eravamo per un “criterium con le stelle” a fine stagione».
Quanto è cresciuto in questi anni?
«Moltissimo. Ha solo 25 anni ma è un uomo maturo, per certi aspetti rimane un ragazzino nella vita privata, ogni tanto fa qualche stupidata, ma è un ragazzo concreto. Negli ultimi anni è maturato in modo evidente, non solo fisicamente.
In questo senso è stato un bene che il successo al mondiale sia arrivato adesso e non troppo presto, a inizio carriera avrebbe potuto costituire un boomerang perché non è semplice gestire la notorietà e la fama quando hai solo 20 anni. È cresciuto ma è rimasto semplice e genuino come è sempre stato e sempre sarà perché Peter è così, come lo vedete. Oggi è un uomo che ascolta e ha una dote incredibile: una memoria di ferro. Non dimentica nulla. Se nel 2010 gli ho fatto un discorso lui oggi è in grado di ripeterlo parola per parola. Per questo lavorare con lui è molto impegnativo, ma potete immaginare quanto mi stimoli».
Che rapporto ha con i soldi?
«Si è guadagnato tutto quello che ha e ne è giustamente orgoglioso. Proviene da una famiglia non agiata quindi dà il giusto valore a quanto guadagna ed è generoso. Dopo la conquista del mondiale il suo “peso” non cambia molto, guadagnerà qualcosa in più per qualche nuova sponsorizzazione e bonus contrattuale ma in termini di guadagno gli cambia poco o nulla: già prima era uno dei corridori più pagati. Il portafoglio non ha cambiato la persona, come tutti ama la bella vita ma non sperpera in chissà quali sfizi quello che guadagna. Nel suo tempo libero si diverte ad andare in giro in vespa, a giocare con il suo cagnolino Charlie e a stare con la sua fidanzata».
Katarina è una persona molto importante nella sua vita.
«Lei gli ha dato un grande equilibrio, sono felice che ormai più di due anni fa l’abbia conosciuta perché gli ha dato quella stabilità di cui aveva bisogno sia come uomo sia come atleta. Per Peter gli affetti sono molto importanti. Il legame con il fratello ne è un’altra prova. Potrà vincere qualsiasi gara al mondo, ma Juraj resta sempre il suo fratello maggiore, il suo punto di riferimento. Ha una grande influenza sulle sue decisioni».
Il momento-chiave di questa stagione?
«Di quest’anno ho due ricordi con lui: due serate. Una, finito il Tour of California, dopo una vittoria voluta, dal valore enorme per la sua stagione iniziata male con le classiche. Quel traguardo è stato la svolta che gli ha permesso di fare bene al Giro di Svizzera, di disputare un ottimo Tour, in cui è vero non è riuscito a vincere una tappa ma che è stato il migliore dei quattro da lui disputati. Anzi alla Grande Boucle ha dimostrato meglio che in tante altre occasioni chi è Peter Sagan: uno che, anche dopo tanti secondi posti, non si abbatte, lotta su ogni traguardo, anche se perde lo fa sempre a testa alta, vuole sempre vincere ma quando non riesce è capace di resettare tutto e ripartire, è un lottatore e non dà adito alle polemiche, sa quanto vale e, nonostante quello che dicevano, ha vinto tante gare. Corre per dimostrare che è sempre protagonista. Così ha fatto alla Vuelta in cui ha vinto una tappa e poi è stato mandato a casa da una moto. Quindi è arrivato il mondiale e la grande gioia, a cui è seguita una piccola festa.
Sono sempre stato convinto che fosse destinato a vincere gare importanti, abbiamo dovuto aspettare cinque anni perché vincesse il mondiale e ne è valsa la pena. A Richmond è stata una vera goduria, per come ha vinto la corsa e per come è stato festeggiato dal gruppo intero. Al Campionato del Mondo si è consacrato, ora deve proseguire su questa strada. Questa affermazione rappresenta l’inizio della seconda fase della sua carriera».
Ora quali obiettivi deve porsi?
«Per quanto riguarda l’aspetto sportivo, deve confermarsi al livello raggiunto. Deve continuare a dare spettacolo come piace a lui. “Quando da bambino andavo a vedere le gare mi aspettavo da chi vinceva un po’ di show e ora che mi trovo dall’altra parte mi sembra giusto cercare di strappare un sorriso a chi è venuto in strada ad applaudire me e gli altri corridori. È una forma di ringraziamento e mi diverte” dice sempre. Non deve perdersi nell’inverno, rischio che corrono tutti i corridori dopo una annata strabiliante, ma restare concentrato e presentarsi al meglio al via della nuova stagione per onorare la maglia iridata come sa fare. In ogni gara. Ogni giorno».
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