Genesi di un mito
Dal cemento di Betondorp al simbolismo del 14: come è nata la leggenda di Johan Crujiff. Un'icona non solo calcistica, ma anche culturale, comportamentale.
di Alec Cordolcini - Rivista Undici
di Alec Cordolcini - Rivista Undici
25 marzo 2016
Nel 1976 alla Jaap Edenhal di Amsterdam Bob Marley tenne il suo primo concerto in Olanda, e al termine dello show chiese di poter conoscere Johan Cruijff. La stella olandese si negò. I due non si sarebbero mai incontrati. Marley e Cruijff sono due icone epocali molto simili, pur appartenendo a due ambiti totalmente diversi, perchè entrambi hanno agito da Santo Graal per il loro Paese, regalandogli l’immortalità. Oggi come tra cento anni, la Giamaica è il reggae e l’Olanda è il calcio totale. Due piccoli stati hanno conquistato il mondo.
Parlare di Cruijff non significa parlare solo di calcio, ma anche di storia, cultura, architettura. L’evoluzione di un Paese costruito non da Dio, ma dagli olandesi (così un famoso proverbio locale), rimasto per decenni all’avanguardia per liberalismo e filosofia progressista. Spazio e cooperazione, i Paesi Bassi nemmeno esisterebbero senza questi due concetti. «Trascorrevano un sacco di tempo a parlare di spazio», ricorda Barry Hulshoff, campione d’Europa con l’Ajax dal 1971 al ’73. «Cruijff ne era ossessionato, gli spazi in campo dove dovevamo muoverci, quelli nei quali invece avremmo dovuto rimanere fermi. Era architettura applicata a un campo da calcio: crea lo spazio, occupa lo spazio, organizza lo spazio». Ma, come ha evidenziato David Winner nel suo splendido Brilliant Orange, era anche una questione di cooperazione. Coniugare la creatività individuale con la disciplina collettiva è stata la chiave di volta sulla quale l’Ajax di Cruijff e Rinus Michels ha costruito i propri successi.
Una compilation di giocate immortali
Ma non va sottovalutato il contesto nel quale la rivoluzione del calcio totale è germogliata. L’Olanda ha vissuto il suo personale '68 nel 1966 attraverso il movimento dei Provo (dal francese provocateur), gruppo anarco-surrealista fondato dallo studente Roel van Duyn in chiave anti-potere. Una versione hippy e naif degli odierni antagonisti, con tanto di presentazione di una lista alle elezioni comunali della città di Amsterdam nel 1967 (lo slogan era “Vota Provo e fatti una risata!”), che seppur di breve durata, rivestì un ruolo importante nel contaminare la società olandese con i germi del liberalismo. Cruijff è arrivato nel momento giusto. «La grande lezione che Johan Cruijff ci ha dato» ha scritto il giornalista Hubert Smeets, «è che nello sport, per raggiungere un obiettivo, è necessario combinare individualismo e collettivismo. In un certo senso è quello che predicavano i Provo negli anni Sessanta riguardo alla società. Poi però si sono persi; il collettivismo è sfociato nel comunismo, l’individualismo nell’edonismo. Solo Johan Cruijff è stato capace di bilanciare al meglio le due cose».
Con Cruijff il calciatore ha smesso di essere semplicemente un atleta per diventare un personaggio a tutto tondo. Un divo, un punto di riferimento, una macchina da soldi. Anche in questo caso sono due gli elementi chiave di tale evoluzione: l’ambiente che ha fatto da background all’infanzia del nostro, e l’incontro con la personificazione dello stereotipo appiccicato agli olandesi fin dal XVII secolo: quello del mercante. Cruijff è cresciuto nel Watergraafsmeer, un quartiere orientale di Amsterdam conosciuto anche come Betondorp, villaggio di cemento. Era lui stesso a ricordare come giocando per le strade di questo quartiere, non ci si rendesse nemmeno conto di essere in città, e nemmeno alla periferia di essa. Il Watergraafsmeer è stato costruito a cavallo tra gli anni 20 e i primi 30, in piena crisi post guerra Mondiale. Il De Meer, il vecchio stadio dell’Ajax, era diviso da Betondorp solo da una strada, la Middenweg (letteralmente, Via di Mezzo). Il piccolo Cruijff quindi poteva raggiungere l’impianto a piedi in cinque minuti. Si può insomma dire che sia nato in casa Ajax. I genitori di Cruijff erano emigrati a Betondorp dallo Jordaan, un’altra roccaforte popolare di Amsterdam sita al centro della città e caratterizzata da edifici fatiscenti e pessime condizioni igieniche.
Pavé, cemento, distese di pietre e ghiaia, i magazzini del porto: erano questi i terreni di gioco sui quali era possibile far correre il pallone. Una palestra fondamentale per il giovane Cruijff, perché «giocare su terreni così malmessi e in spazi poco appropriati mi ha costretto a velocizzare pensiero e azione». Ma non erano solo povertà e drammi (la morte del padre quando aveva 12 anni) ad aver segnato Cruijff, ma anche un fisico gracilissimo che, una volta fatto il suo ingresso nell’Ajax, gli aveva causato non pochi problemi. A 15 anni non riusciva a battere un calcio d’angolo, o meglio, se calciava con tutta la potenza che aveva in corpo riusciva a mettere la palla sul primo palo, non di più. Il tecnico dell’Ajax Vic Buckingham, assieme ai suoi assistenti, studiò un preciso programma – o meglio, una terapia – per rinforzare quello scricciolo di ragazzo: pesi alle caviglie, esercizi di potenziamento della muscolatura inferiore, lunghe sessioni ad allenare il sinistro. Ma fu durissima. A 17 anni, nel suo famoso debutto in prima squadra contro il GVAV Groningen, gli successe una cosa della quale, a suo dire, non ha mai smesso di vergognarsi. Venne liberato solo davanti al portiere, ma il tiro che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere una fucilata imparabile sotto la traversa gli uscì con la potenza di un retropassaggio che finì docile tra le braccia dell’estremo difensore, che non dovette nemmeno tuffarsi per pararlo.
Poi Cruijff ha conosciuto il mercante, ovvero il suocero Cor Coster, l’uomo che lo ha reso ricco. Self-made man, aveva iniziato vendendo orologi nei bar e di Amsterdam e al Waterlooplein (il mercato delle pulci cittadino), importando la merce nascondendola nel serbatoio della sua auto dalla Svizzera. Coster è stato un pioniere del mestiere di agente dei calciatori, introducendo per primo in Olanda i concetti di gestione economica dell’atleta e di sfruttamento dell’immagine. Quando conobbe Cruijff, che aveva una relazione con la figlia Diana Margaretha “Danny” – bellissima, fisico e sguardo da modella nonché perfetta espressione dell’upper class di Amsterdam, nei modi e nello stile – la prima domanda che gli fece fu quanto soldi avesse sul conto in banca. Gli venne risposto che lui non sapeva nemmeno cosa fosse un conto in banca. Se Danny aveva trasformato il marito in un divo, curandone il look (nuovo taglio di capelli, abiti «veri, non i cenci che indossava prima» – così parlò il suocero), Coster lo ha convertito alla religione del denaro, partendo dalle basi, come calcolare il netto dal lordo. Non propriamente la cosa in cima ai pensieri di un ventenne prodigio cresciuto in semi-povertà e che nel giro di un paio d’anni aveva cambiato lato della città, passando dal quartiere popolare di Betondorp al lusso di una villa in Herman Heijermansstraat. Fu di Coster l’idea delle interviste a pagamento, così come di altre iniziative collaterali di sfruttamento dell’immagine, come il contratto stipulato con il De Telegraaf, al quale era stato venduto un pacchetto che prevedeva dichiarazioni esclusive a fine partita e una colonna fissa sul quotidiano (che ha mantenuto fino all’ultimo), oppure la richiesta all’Ajax del 10% dell’incasso di un’amichevole, perché «gli spettatori sono venuti allo stadio per vedere Cruijff».
Rivoluzione dei costumi, e ovviamente rivoluzione calcistica. I giocatori capaci di fare tutto, impostare, difendere e concludere, indipendentemente da quale fosse il loro ruolo. L’Ajax ha proceduto per triplette: prima con il tris in campionato (66-68, con la seconda stagione rimasta negli annali per i 122 gol segnati in 34 partite – record tuttora imbattuto in Eredivisie) e tre giocatori nelle prime quattro posizioni della classifica marcatori (con Cruijff a quota 33 reti), nonostante in Olanda non giocasse senza avversari, dal momento che c’era il Feyenoord di Ernst Happel, campione d’Europa nel 1970; quindi con il tris in Coppa Campioni (71-73), dove in due occasioni su tre sconfissero squadre italiane. «Le differenze con il nostro calcio» ricorda Rossano Donnini, storica penna del Guerin Sportivo, «con i rigidi schemi del gioco all’italiana, erano impressionanti. Troppo futuristico il calcio olandese, anche nei dettagli, con i giocatori che già allora portavano i numeri fissi e il 14 si identificava in Cruijff. Un calcio che non conoscevamo, e che tentammo maldestramente di imitare. Ma mancavano il talento, lo strapotere fisico, la mentalità, il senso di libertà e responsabilità dei calciatori olandesi». Non è un caso che l’Ajax iniziò a sgretolarsi quando gli ego cominciarono a prevalere in maniera troppo sfacciata sul gruppo. Ajax-Panathinaikos 2-0, Ajax-Inter 2-0, Ajax- Juventus 1-0: tre Coppe Campioni in tre anni, sollevate da tre capitani diversi, ovvero Velibor Vasovic nel 1971, Piet Keizer nel 1972 e Johan Cruijff nel 1973. Poi, nell’estate dello stesso anno, durante il ritiro precampionato dei lancieri, la rottura. All’hotel De Lutte, nei pressi del confine tedesco, ci fu una votazione. I giocatori dell’Ajax eleggevano il proprio capitano, chiaro segno che i tempi del generale Michels erano finiti, adesso in squadra regnava la democrazia, si discuteva, si decideva collettivamente. Dall’urna non uscì il nome di Cruijff, il chiaro favorito, ma Piet Keizer. Il messaggio era chiaro: Johan, sei il simbolo dell’Ajax, ma nello spogliatoio non comandi tu. La sera stessa Cruijff alzò il telefono e chiamò il suocero: «Telefona subito a Barcellona, io da qui me ne vado».
Piccolo excursus sulla genesi del mitico numero 14 (anni fa in Olanda usciva un mensile chiamato Nummer 14). Il numero di Cruijff all’Ajax è stato il 9 fino al 30 ottobre 1970, e così sarebbe stato anche a Barcellona dal ’73 al ’78. Ma quel 30 ottobre, partita casalinga contro il Psv, Cruijff tornava in campo dopo un infortunio. Il 9 lo aveva preso Gerrie Muhren, il giocatore che lo aveva sostituito nelle partite precedenti, e al momento del rientro Cruijff venne mandato in campo al posto di Dick van Dijk, quindi entrò con il 14. Quello era e quello è rimasto. Interessante quello che ha scritto Nico Scheepmaker nel suo “Cruijff, Hendrik Johannes, fenomeen”, sulla simbologia del numero 14: «JC è nato alle ore 14:00. Viveva in Scholeksterlaan al numero 14. La targa della sua auto era 14-14-TS. Il suo numero di telefono iniziava e terminava con il numero 14, ad esempio quando abitava a Vinkeveen era 14914».
Più volte è stato rimarcato come Cruijff sia stato tra i pochissimi fuoriclasse a vantare una carriera da allenatore di alto livello. Anche in questo caso, aldilà dei trofei messi in bacheca (3 con l’Ajax e 11 con il Barcellona, in blaugrana meglio di lui ha fatto solo Pep Guardiola), la sua grandezza risiede nell’aver lasciato un’eredità tangibile capace di generare ulteriori successi. Fin dal suo sbarco a Barcellona da giocatore, fu chiaro che Cruijff era destinato ad assumere un ruolo iconico che andava ben oltre quello del campione amato dai tifosi, capace di riportare la Liga in Catalogna dopo 14 anni. «Ho scelto il Barcellona e non il Real Madrid perché non avrei mai potuto giocare per una squadra associata a Francisco Franco». Epico un 5-0 inflitto dal “suo” Barcellona al Real a domicilio, altrettanto un gol con una rovesciata di tacco quasi dalla linea di fondo contro l’Atletico Madrid, ma per i tifosi lo fu ancor di più la scelta di chiamare il terzo figlio Jordi in un’epoca in cui l’uso della lingua catalana era proibita dal regime spagnolo. «Il Barcellona è più di un club, qui in Catalogna il calcio non è solo un presidente e un gruppo di giocatori, ma è parte integrante della società stessa. Negli anni Trenta fu il Barcellona stesso a farsi promotore presso il governo centrale di Madrid per l’autonomia della Catalogna. Difficile immaginare una cosa simile altrove».
Nel suo eccellente “Senda de Campeones”, Martì Perarnau descrive in profondità l’evoluzione dello stile e della cantera del Barcellona, indicando tre nomi chiave: Laureano Ruiz (tecnico che fu preso nel ’72 dai catalani, e che impiantò i germi della Masia), Johan Cruijff e Pepe Guardiola, definiti rispettivamente “l’idea seminale”, “l’idea nucleare” e “l’update”. Il nonno, il padre e l’erede. «Come giocatore» si legge nel libro, «Pep è cresciuto con Cruijff, è arrivato in prima squadra con lui e con lui ha appreso tutti i concetti del calcio. C’era chi temeva che l’ego dell’olandese avrebbe potuto soffrire con gli esiti di Guardiola: è stato il contrario. Johann ha sempre riempito di elogi la scommessa evolutiva del suo erede». Con Cruijff il Barcellona mise in bacheca, tra il 1989 e il 1994, almeno un trofeo all’anno, restando a bocca asciutta solamente nel ’95 e nel ‘96, stagione quest’ultima conclusa con l’esonero deciso dal presidente Nunez il 18 maggio. C’è stato tutto Cruijff nelle otto stagioni alla guida del Barcellona: genialità, sapienza tattica, amore per un calcio offensivo e spettacolare (c’erano Ronald Koeman, Romario, Guardiola, Stoichkov, Micheal Laudrup, Zubizzarreta, Bakero a formare la formazione nota come il “Dream Team”) ma anche accuse, liti e feroci polemiche un po’ con tutti, giornalisti, allenatori, presidenti (il mai troppo amato Nunez), giocatori. Degli undici titolari che sconfissero la Sampdoria nella finale di Coppa Campioni del ’92 a Wembley, solamente tre non sono diventati allenatori. In totale sono 37 i giocatori allenati da Cruijff che hanno fatto il salto della barricata, tra cui il citato Guardiola, Koeman, Luis Enrique, Hagi, Stoichkov, Laudrup, Prosinecki.
«Non c’è soddisfazione migliore che essere acclamato per il tuo stile e il tuo gioco». Cruijff ha sempre dichiarato di avere un ottimo ricordo del Mondiale tedesco del 1974 a dispetto della sconfitta in finale contro la Germania Ovest. L’Olanda aveva giocato il miglior calcio, era stata la squadra più applaudita, lui era stato eletto miglior giocatore del torneo e la cosa gli bastava. Ricorda la storia della volpe e dell’uva? A ognuno la sua libera interpretazione. Rimane un dato singolare: un talento così fulgido «da non poter essere stato scoperto da chicchessia, perché uno così si scopre da solo» (così il ct olandese George Kessler il 7 settembre 1966 nel post-partita di Olanda-Ungheria, scoppiettante esordio con gol per il ragazzino di Betondorp) ha disputato solamente un Mondiale e un Europeo, un po’ perché prima della nomina di Michels come ct, l’Olanda a livello internazionale valeva come l’attuale Estonia, un po’ per scelte personali mai del tutto chiarite, vedi la rinuncia ad Argentina ’78, falsamente spacciata per una protesta nei confronti del regime dei militari. Una Nazionale poi mai ritrovata da allenatore, anche se ci andò vicinissimo alla vigilia di USA 94 (tutti i senatori della squadra, da Gullit – suo compagno di squadra nell’83-84 quando, all’ultimo anno da giocatore, Cruijff portò il Feyenoord a un clamoroso titolo, vendicandosi dell’Ajax che solo pochi mesi prima lo aveva scaricato ritenendolo troppo vecchio – a Rijkaard fino a Ronald Koeman), prima di incartarsi con la Federcalcio olandese (KNVB) su stipendio e premi partita, con i dirigenti federali che interromperanno le trattative con la motivazione – non ridete – che Cruijff si era rifiutato di presentarsi a una conferenza stampa indossando un blazer griffato KNVB.
All’età di 8 anni Cruijff era apparso nei cinema di tutta Olanda. Bimbo prodigio? No, semplicemente era stato scelto assieme ad altri nove ragazzi come testimonial di una marca di sigari, la Karel I. Un episodio doppiamente e inconsapevolmente profetico del suo futuro di uomo immagine, ma anche di accanito fumatore (prima) e testimonial di campagne anti-fumo (poi). Quel fumo che nel 1991 gli aveva provocato un infarto, dopo il quale aveva deciso di abbandonare il tabacco e, qualche anno dopo, anche la professione di allenatore. «Dal 1991 sono entrato nei tempi supplementari della mia vita», amava dire. Ma le frasi consegnate ai posteri sono davvero un’infinità. Per chi scrive la migliore è una risposta data ai giornalisti Fritz Barend e Henk van Dorp. «Ti è mai capitato di dire a qualcuno che aveva ragione?», gli chiesero. «E a chi avrei dovuto dirlo?».
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