QUEL 25 APRILE DI 49 ANNI FA (1994)

di Massimo Fini, 1994

Non ne posso più delle opposte retoriche, antifasciste e fasciste, che ogni anno, e in particolare in questo, si scatenano intorno al 25 aprile. Non ne posso più perché, a sommar queste retoriche, sembrerebbe che l'Italia e gli italiani abbiano vissuto, cinquant'anni fa, chissà quale epopea straordinaria ed eroica, anche se tragica e dilaniante. Non è così. 

Nel periodo 1940-45, per la verità, e anche oltre, l'Italia e gli italiani (a parte le solite, rare, nobilissime eccezioni, su cui poi si son gettati tutti i profittatori dell'una e dell'altra parte per farsi belli sulla pelle e sul coraggio di pochi) hanno scritto alcune delle pagine più ignominiose della loro storia. Il 10 giugno del 1940 l'Italia entra in guerra a fianco dei tedeschi, contro Francia e Inghilterra. Nel suo discorso tenuto il 25 aprile a Torino Norberto Bobbio, riprendendo un diffuso luogo comune, ha affermato che si trattava di «una guerra imposta e ingiusta». Se fosse ingiusta, non so (sono diventato abbastanza vecchio per sapere che le guerre sono giuste o ingiuste a seconda di come vanno a finire), certamente non fu imposta. Basterebbe riascoltare il discorso del 10 giugno di Mussolini, con quel terribile sottofondo sonoro della piazza che inneggia alla guerra («guerra, guerra!») prima ancora che il Duce l'abbia dichiarata, per rendersi conto che c'era ben poco di imposto. Ma ammettiamo pure (anche se così non era) che, quel giorno, in piazzale Venezia ci fossero solo truppe cammellate, agit prop, fanatici fascisti e che il resto del Paese fosse contrario. Ebbene, era proprio quello il momento di manifestare, di scioperare, di boicottare, di darsi alla macchia e alla resistenza clandestina, di attaccare il regime dall'interno, anche con la violenza, anche con il terrorismo, per rendere noto che c'erano perlomeno degli italiani che non volevano la guerra e soprattutto non la volevano al fianco dei tedeschi. In fondo chi erano e che cosa fossero i nazisti lo si sapeva benissimo già allora (e comunque non se ne sapeva certamente di più nell'autunno del '43, quando alcuni italiani cominciarono a ribellarsi ai nazi, la conoscenza degli orrori dei lager viene dopo). Invece il 10 giugno del '40, e nei giorni successivi, non scoppiò nemmeno un petardo. Perché gli italiani, nella stragrande maggioranza, erano in perfetta sintonia col ributtante cinismo di Mussolini che aveva dichiarato: «Ci bastano poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace». 

Come iene e come sciacalli volevamo gettarci sugli avanzi lasciati dall'esercito tedesco in quel momento vittorioso in tutta Europa. Come iene e come sciacalli ci buttammo sulla Francia agonizzante. Come iene e come sciacalli aggredimmo l'apparentemente inerme Grecia («spezzeremo le reni alla Grecia»). Ma avevamo sbagliato i nostri calcoli. Non avevamo previsto che gli inglesi, popolo vero, avrebbero resistito ad oltranza alle armate, ma anche alle lusinghe, di Hitler. Così Mussolini e uno Stato maggiore di generali felloni, irresponsabili e criminali mandarono i nostri ufficiali e i nostri soldati, male armati e peggio equipaggiati, allo sbaraglio nei Balcani, in Africa e, soprattutto, in Russia, dove a dar loro il colpo di grazia li aspettava, come se già non bastasse Stalin, un altro genere di iena, tipicamente italiana, Palmiro Togliatti. Il 10 luglio del '43 gli Alleati sbarcano in Sicilia. Nonostante le roboanti dichiarazioni di Mussolini («fermeremo gli americani sul bagnasciuga»), l'isola è conquistata in due giorni. È stata la mafia ad aprire le porte agli invasori, con conseguenze pesantissime che pagheremo in seguito e che paghiamo ancora oggi. La guerra è perduta. 

Ma noi pensiamo di uscirne nel nostro solito modo furbesco, all'Italiana. Cacciato Mussolini, il nuovo premier, il maresciallo Badoglio, un vecchio arnese corresponsabile della disfatta di Caporetto e responsabile di avere usato armi chimiche in Etiopia (cosa che nemmeno Hitler ha fatto né farà mai), dichiara: «La guerra continua al fianco dell'alleato tedesco». Ma intanto trattiamo di nascosto con gli angloamericani. L'8 settembre viene firmato l'armistizio. Il Re, Badoglio, i generali (secondo una collaudata tradizione della classe dirigente italiana, l'«armiamoci e partite» che inizia dalla prima guerra mondiale e arriva fino alle ignobili lettere che Aldo Moro scrisse dal carcere delle Brigate Rosse), fuggono da Roma e, in un pigia pigia indecente e impudico, si imbarcano a Pescara sulla corvetta Baionetta per mettersi in salvo a Brindisi. Non solo Roma (dove ci saranno alcuni episodi di commovente, ma disperata, resistenza) è abbandonata in balia dei tedeschi, ma l'intero esercito italiano, senza ordini, senza direttive, senza più capi, è lasciato allo sbando. È il «tutti a casa» con cui crediamo, in un primo tempo, di cavarcela. Ma non sarà così. Perché avevamo pugnalato alle spalle l'alleato tedesco. 

Quando si giudica il comportamento dei tedeschi in Italia, noi non dovremmo dimenticare, per onestà, che li abbiamo traditi nel momento in cui erano impegnati in una lotta, sbagliata che fosse, per la vita e per la morte. Ciò non giustifica alcuni efferati eccidi commessi (a cominciare da Marzabotto), in spregio non solo delle pur crudeli leggi di guerra ma anche del più elementare senso di umanità, dai reparti speciali delle SS e che hanno disonorato l'esercito tedesco. Ma, se ci riesce di fare uno sforzo di equanimità – capisco che è estremamente difficile, perché si tratta di mettersi anche nei panni altrui –, noi dobbiamo ammettere che, nel suo complesso, il comportamento dell'esercito tedesco in Italia, date le circostanze, non fu così infame come viene unanimemente dipinto e che avrebbe potuto essere anche peggiore. Per non far saltare i ponti storici di Firenze i tedeschi, in ritirata, hanno perso decine di migliaia dei loro uomini. Con ciò, lo ripeto, non intendo giustificare in alcun modo neanche un solo delitto commesso dalle SS in Italia, voglio solo dire che una qualche esca alla ferocia tedesca, quando c'è stata, l'abbiamo data anche noi, col nostro comportamento ambiguo, ondivago, opportunista, furbesco, prima alleati nel momento della forza, poi avversari quando la Germania era ormai in ginocchio. Anche se poi la vendetta tedesca si abbatté, come sempre accade, su degli innocenti, su civili inermi. 

Quel che io rigetto è che, attraverso le opposte retoriche, si finisce per considerare responsabile di ciò che è avvenuto in Europa, in particolare in Italia, un unico demonio: Adolf Hitler. Qualche colpa l'abbiamo anche noi. Il 12 settembre, Otto Skorzeny e un asso dell'aviazione tedesca, il capitano Gerlach, «liberano» Mussolini prigioniero al Gran Sasso. Portato a Monaco, al cospetto di Hitler, Mussolini accetta di essere capo di uno Stato fantoccio, controllato dai tedeschi, la Repubblica di Salò. In questo modo Mussolini pone le basi per la guerra civile e si assume così l'enorme ed irrevocabile responsabilità degli errori che ne seguiranno, compreso quello di cui egli stesso, a piazzale Loreto, sarà vittima. Da questo momento alcuni italiani si danno alla macchia e alla lotta partigiana per combattere il nazifascismo e per riscattare, armi in pugno, il plebiscitario consenso che i loro connazionali, e forse anche essi stessi, avevano dato al fascismo. Altri italiani accorsero invece sotto le bandiere di Salò per un proprio, diverso, e forse malinteso, senso dell'onore. Entrambi cercavano un riscatto morale. Purtroppo a costoro, in tutti e due i campi, si mescolarono altri personaggi che approfittarono di un conflitto senza regole, qual è sempre una guerra civile, per appagare i propri istinti sadici, di violenza gratuita, di innata volgarità. 

L'ho già scritto, e lo ripeto, la Resistenza, per chi vi ha partecipato con purezza di intenti, è stata un importante riscatto morale. Ma ha ingenerato due pericolosi autoequivoci. Il primo è che l'ltalia avesse vinto una guerra che aveva perso. Il secondo è che l'ltalia sia stata liberata dal giogo nazifascista dagli italiani, mentre invece è stata liberata dalle truppe del generale Eisenhower. Il 25 aprile del '45, quando gli Alleati sono ormai a pochi chilometri, Milano insorge. Mussolini, come da regola, è scappato. Dopo tante belle parole («se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi»), Mussolini si farà pescare in fuga travestito da soldato tedesco. Sarà il partigiano «Pedro», al secolo il conte fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle (di cui, non a caso, in questi giorni nessuno parla) a fermare con un'azione audacissima (disponeva di appena sette uomini) la colonna di trecento tedeschi in cui si erano nascosti il capo del fascismo e il suo seguito. Pedro catturò Mussolini e i gerarchi e li trattò con la pietà che sempre si deve, o si dovrebbe, ai vinti. 

Se la storia della Resistenza si fosse fermata lì, avrebbe chiuso in bellezza. Ma naturalmente, poiché siamo italiani, non poteva andare a finire così. Da Milano arrivarono, con divise nuove di zecca, i partigiani del colonnello Valerio, alias il ragioniere comunista Valter Audisio, che sulla base di un mai chiarito ordine del Cln strapparono, ai laceri partigiani di Pedro, Mussolini, la Petacci, i gerarchi e li fucilarono. Giorgio Bocca, per giustificare questo massacro indiscriminato, ha scritto sulla Repubblica (26/4) che «le responsabilità dei gerarchi fascisti erano quelle di criminali di guerra». Mi piacerebbe sapere che criminale di guerra fosse Claretta Petacci. Mi piacerebbe sapere che criminale di guerra fosse suo fratello, Marcello, al massimo un modesto profittatore di regime, come tanti altri. Mi piacerebbe sapere che criminale di guerra fosse Nudi, l'autista di Mussolini. O il capitano Calistri, il suo pilota personale. O Nicola Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista, che, in un empito romantico, si era unito, in articulo mortis, alla colonna degli sconfitti. Ma nemmeno questa carneficina indiscriminata bastò alla Resistenza. I cadaveri furono portati a piazzale Loreto e qui svillaneggiati, sputati, derisi. Delle donne pisciarono su questi cadaveri che poi furono impiccati per i piedi sulla famosa pensilina. 

Ma la cosa che a me, personalmente, fa più orrore, più dello scempio compiuto dalla folla sui cadaveri, è la mano cosiddetta pietosa che legò le gonne della Petacci perché non le ricadessero oltre il ventre. Perché in questo gesto ritrovo l'immonda ipocrisia italiana, l'eterna ipocrisia cattolica per cui si può fare tutto, uccidere, massacrare, esporre dei cadaveri al ludibrio della folla, ma le gambe di una donna, perdio, quelle devono rimanere pudicamente coperte. Giorgio Bocca, che nella sua «La Repubblica di Mussolini» ha definito lo scempio di piazzale Loreto «un atto rivoluzionario su cui si farà dell'inutile moralismo» (pag. 336), si è indignato perché Giampiero Mughini, in una trasmissione di Italia 1, ha parlato invece di «bassa macelleria». Ma queste non sono parole di Mughini, sono parole di Ferruccio Parri (che, se Bocca permette, ha qualche autorità in più come combattente del nazifascismo e come resistente), il quale definì l'indegno spettacolo di piazzale Loreto, appunto, una «macelleria messicana». E lo stesso Sandro Pertini disse, con voce strozzata, a Emilio Sereni, il rappresentante comunista del CIn: «Hai visto? L'insurrezione è disonorata». In ogni caso non furono né Parri, né Pertini, né, tantomeno, Sereni, a por fine allo scempio di piazzale Loreto. Fu un americano, il colonnello Charles Poletti, che ordinò ai capi del CIn di sottrarre i cadaveri di Mussolini e degli altri alla furia della folla e di portarli all'obitorio. Così la guerra italiana, cominciata con una vergogna, l'alleanza con i nazi, finiva con una ignominia, il vilipendio dei cadaveri degli sconfitti. 

Io non sono contrario alle celebrazioni del 25 aprile. Ma non posso in alcun modo considerare questa data come una festa. La vorrei, piuttosto, come un momento di raccoglimento in cui gli italiani rimeditino su se stessi, sulle proprie responsabilità, sui propri errori ed orrori, sui propri opportunismi e, soprattutto, sulla propria incommensurabile viltà, che il coraggio dei pochi, dei pochissimi, non riscatta. Anzi, aggrava.

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