Tour Zerosedici, voglia di grandeur
Centotreesima edizione del Tour de France, attesissimo - come sempre - per le storie che svilupperà e l'uno-due con Rio. Amaury, la società che questo kolossal l'organizza, panem et circenses, al solito ha preparato una sceneggiatura avvincente. Tre settimane all'insegna della grandeur e dei giganti della strada
di SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo
Basti pensare alla partenza da Mont Saint-Michel, l'isolotto della Normandia circondato dalle lune della marea, e l'arrivo della prima tappa in quel di Utah Beach. Laddove gli Alleati, settantadue anni fa, sbarcarono per liberare quelle terre dai nazifascisti. In tempi di Brexit, l'eutanasia del Regno Unito di oggi fa ancora più sensazione: su quelle spiagge ci sono ancora le impronte delle ossa dei militari inglesi.
Il Tour de France, in una realtà mediatica sempre più liquida e sfuggevole, impone invece una narrazione. Anche politica: non è questa la sede per sviluppare il tema, ma ASO si sta mangiando l'UCI.
Lo Zerosedici è un ricciolo classico: percorre la nazione in senso antiorario e dunque prevede prima i Pirenei e poi le Alpi. La tradizione insegna che il settore pirenaico sarà d'attesa e quello alpino decisivo. In mezzo, a mo' di totem, il Mont Ventoux, guglia solitaria della Provenza. Con la novità di una sezione svizzera che sposterà parecchio nella generale. I presupposti per un luglio torrido ci sono tutti.
Grande Boucle che per la maglia gialla annuncia soprattutto un duello, più una serie di variabili, magari impazzite. Chris Froome contro Nairo Quintana.
Il Team Sky, completissimo, uno squadrone (Geraint Thomas, Landa, Poels, Kiryienka), opposto a una Movistar d'assalto (Valverde, Moreno, Anaconda), schierata stavolta intorno al Condor.
Il braccio di ferro, in una competizione che - in particolar modo prima delle montagne - è impossibile da controllare, avrà dinamiche spossanti. Potrebbe essere la vernice, storica, di un colombiano che certificherebbe lo zenit di un movimento dominante o il tris del britannico che si affiancherebbe a leggende (Thys, Bobet e LeMond).
Noi, dovessimo scommettere (...), propenderemmo per la prima soluzione. Le nove tappe d'alta montagna, frazioni complesse altimetricamente con GPM in serie, paiono favorire uno scalatore resistente come Quintana, piuttosto che il keniano bianco. Straordinario negli arrivi "secchi", un po' meno nella successione di salite: quest'anno, nel cuore del Tour, il solo traguardo alla Froomie ci sembra il Monte Calvo dalui già spianato nel 2013.
Logico che la sfida non si decida solo sulle vette: l'abbrivio è zeppo di trabocchetti. I possibili ventagli della tre giorni nella Manica, con i pericoli della Saint-Lô - Cherbourg en Cotentin con un finale da classica (un drittone al 14% a 1500 metri dall'arrivo). L'approccio all'insù nel centro della Francia, la Limoges-Le Lioran, il quinto dì: delle sei salite affrontate, il Puy Mary e il Col du Perthus sono i primi veri esami per i favoriti. Infine due cronometro belle toste: il 15 luglio, con il Ventoux del giorno prima nelle gambe, la Bourg Saint-Andéol - La Caverne du Pont-d'Arc, 37 chilometri e mezzo che premiano i wattaggi e la tecnica di guida del mezzo. La tappa numero diciotto, Sallanches-Megève, una cronoscalata che termina in discesa (sic), tratti al 17% e un passaggio sulla collina di Domancy resa celebre, amarcord, dal trionfo mondiale di Bernard Hinault (1980).
Il terzo uomo è Alberto Contador, all'ultimo (?) giro di giostra e pericolosissimo: uno che ama sorprendere, tatticamente, attaccando da lontano. Il Pistolero, comunque vada, sarà una garanzia per lo spettacolo.
Gli altri?
Il Thibaut Pinot ammirato tra Criterium Internazionale e Romandia sarebbe quasi da corsa, quello un po' appannato del recente Tour de Suisse affonderebbe al primo scossone. Romain Bardet, se citiamo Pinot non può mancare il suo più acerrimo rivale, assicura più continuità e combattività rispetto al corridore dell'Alta Saona; ma vanta meno esplosività e potenziale. Tejay Van Garderen, a proposito dell'ossessione gialla, dovrà decidersi a compiere l'ultimo salto di qualità: potrà pure dividere la pressione di co-capitano - alla BMC - con Richie Porte. Un altro con tanti punti interrogativi sulla sua tenuta (psicofisica) nella terza settimana.
La strana coppia Nibali-Aru merita uno spazio a sé.
Divisi in casa da tempo, correranno insieme la Festa di luglio prima del ricco approdo arabo (nel 2017, in Bahrain) del siciliano. La gestione-Astana, terza super équipe di questo Tour, dei due campioni italiani avrà qualcosa della sit-com: Nibali e Aru si detestano cordialmente, questa primavera, ai margini di un'intervista della Gazzetta dello Sport a Nibali, il siciliano si espresse senza troppa diplomazia ("Fabio si arrabbia spesso, diventa irascibile... Non chiede nulla, non ti tiene in considerazione"). Il risultato, fatto sparire in cinque minuti netti per evitare un caso, fu un tweet velenoso del sardo contro il messinese. Al di là delle inconciliabili ambizioni, Nibali da battitore libero (sempre che si accontenti di qualche giornata di gloria) è un bel rebus per gli avversari, Aru punta almeno alla maglia bianca di miglior giovane.
Il resto è ricchissimo contorno: il miglior corridore del plotone, l'iridato Peter Sagan, tenta di aggiudicarsi la quinta classifica a punti consecutiva (!), Dan Martin verificherà il sogno di competere con Froome e Quintana; Warren Barguil, al pari di Wilco Kelderman, Diego Rosa, Adam Yates e Julian Alaphilippe (un fenomeno), ha un test per un futuro coi grandi. Il livello, altissimo, si conferma nei cacciatori di tappe e negli sprinter (Boasson Hagen, Van Avermaet, Rui Costa, Dumoulin, Degenkolb, Kittel, Greipel, Kristoff, Cavendish, Matthews).
Grande Boucle con un generoso sconfinamento in Svizzera, tre dì compreso il secondo riposo a Berna. La città federale celebrerà Fabian Cancellara, uno dei migliori atleti di sempre dello sport elvetico nonché il più forte corridore rossocrociato dai tempi di Koblet e Kubler. L'ultimo Tour di Spartacus coincide con l'ultimo della IAM Cycling e la (sparuta) pattuglia di svizzeri ci terrà a mettersi in evidenza.
Michael Albasini, per esempio, si adatta alle frazioni più complicate dell'incipit. Sottolineiamo che la diciassettesima tappa, Berna-Finhaut Emosson, che si correrà interamente - il 20 luglio - sul territorio della Confederazione, potrebbe spostare gli equilibri della contesa. La Forclaz, uno dei passi storici, prima dell'ascesa conclusiva verso la diga di Emosson: 10,4 chilometri impegnativi, con gli ultimi ben al di sopra del 10% di pendenza media.
Alcune Feste di luglio col sei finale, nel dopoguerra, sono state epiche e imprevedibili. La teoria del caos o giù di lì.
Il 1956 è ricordato come il Tour più folle (e divertente): si impose Roger Walkowiak - forse il vincitore con meno curriculum nella storia della gara - sfruttando una fuga-bidone e una serie incredibile di circostanze.
Dieci anni dopo, un'altra edizione matta (...) con Lucien Aimar che beffò il solito, sfortunato, Raymond Poulidor; la regia del golpe (?) fu di Jacques Anquetil, rivale acerrimo di Pou Pou. Jacquot avrebbe pagato lo sgarbo, l'ennesimo, qualche settimana più tardi al Nürburgring in occasione del Mondiale.
Zerosei altrettanto fuori di testa: Oscar Perero trionfò a bocce ferme, acclarata la positività dell'ex postino (armstronghiano) Floyd Landis, autore di un assolo straordinario quanto sospetto nel tappone di Morzine. Successe di tutto, compreso il fatto che Pereiro rientrò in classifica grazie a una maxifuga nella Béziers-Montèlimar. Vinta da un irresistibile Jens Voigt, motrice dell'azione e compagno di squadra di Kloden che, facendo i conti della serva, perse il giallo di appena 32".
Annate deliranti. Il 1996 di Bjarne Rijs e la fine del ciclo del Faraone Indurain, Epolandia Alta. Quando si rivelò l'Übermensch Jan Ullrich (che senza obblighi di gregariato avrebbe strabattuto il - capitano - danese) e piovve per una settimana e mezzo, che parve autunno, prima dei quaranta gradi all'ombra nel Midi. Ancor meglio il 1976, l'estate più calda del secolo: Lucien Van Impe, nella canicola, si mise in tasca la vittoria, verso il Pla d'Adet, con la fattiva collaborazione del grande Luis Ocaña.
Il 1986 è una delle stagioni iconiche del Novecento ciclistico. L'arrivo mano nella mano, all'Alpe d'Huez, di LeMond e Hinault; la faida interna a La Vie Claire, col Tasso e i francesi contro Greg e gli stranieri e il primo successo di un americano (e un extraeuropeo). Con la concorrenza, di lusso, di uno svizzero del Canton Soletta.
Urs Zimmermann è stato il tappista elvetico più forte della sua generazione. Fondista hors-catègorie, potente (proveniva dalla scuola della Cento Chilometri) e versatile. L'ottantasei fu l'apice di una carriera che non ebbe il premio che meritava, cioè la vittoria in una grande corsa a tappe. Duellò con un super - Sean Kelly - alla Parigi-Nizza; portò a casa, meritatamente, Critérium International, Dauphiné Libéré e il campionato nazionale.
Capitano di una squadra notevole, la Carrera di Davide Boifava, fu sfortunato nell'incrociare le sciabole con LeMond, Hinault e il gruppo Tapie: i "gregari" si chiamavano Hampsten, Bauer, Bernard eccetera.
Le Blaireau e il delfino, eterni litiganti, dovettero allestire un Trofeo Baracchi per distanziare - definitivamente - Zimmy. Lo staccarono nella discesa del Télégraphe, rischiando l'osso del collo, e isolandolo sul falsopiano (maledetto) che portava a Bourg d'Oisans (e all'Alpe). Il podio parigino, quel terzo posto, non avrebbe avuto continuità. Lasciò nella bufera del Passo Gavia - 1988 - l'occasione di vestire la maglia rosa del Giro. Poi, piano piano, declinò. Bipede complicato quanto intelligente e sensibile, vegetariano, ai tempi una primula rossa (sic), per lui - colla fobìa del volo - nel 1991 scioperò (compatto) l'intero plotone.
Nel giorno di riposo gli organizzatori, constatato il rifiuto di Urs di prendere l'aereoplano, lo squalificarono. La protesta dei corridori cancellò la decisione.
Il momentum di Zimmermann?
Sempre nel 1986, a settembre, al Giro del Lazio, in quegli anni la terza classica tricolore dopo i due Monumenti (Sanremo e Lombardia). Opposto alla crema dell'epoca, mise assieme settanta chilometri di volo solitario: dalle rampe di Rocca di Papa al Colosseo, passando sul pavè di Appia Antica. Un'impresa atletica da incorniciare.
Il Tour 2016 sarà, per la prima volta da quarantun anni, senza Lucien Blyau: l'omino ai bordi della strada che, di sua sponte, riforniva di bevande il gruppo. Mercoledì scorso, alla Halle-Ingooigem, Lucien - su una carrozzina - ha visto forse per l'ultima volta il passaggio di una corsa. "Da tempo non mi sentivo così bene" ha dichiarato il novantunenne, malato terminale.
Lucien era conosciuto da tutti i corridori: li aspettava, imperturbabile, nei tratti più difficili e gli passava le bibite fresche. E un po' di sollievo.
Quando ci chiedono perché amiamo il ciclismo, la risposta - semplicissima - è perchè ci sono i Lucien. O almeno sopravvivono. I personaggi, figli di un dio minore, biodiverso, che altrove sono stati (definitivamente?) rimpiazzati. Sostituiti da una corte di esibizionisti, di attori (del villaggio globale), di VIP rivolti verso le telecamere, di selfie. Talmente artificiali e colorati da indurre al daltonismo.
SIMONE BASSO, Il Giornale del Popolo
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