FOOTBALL PORTRAITS - Henry, il fantastico Titì (2006)


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Assieme a Ronaldinho è la prima superstar del calcio mondiale. All’Arsenal lo legano un contratto che scadrà nel 2007 e una riconoscenza lunga sette anni. Se il capitano andrà via, il club dovrà trarne il massimo

di CHRISTIAN GIORDANO, Guerin Sportivo

Da che parte cominciare? Henry è con Ronaldinho il numero uno al mondo, per quanto possa avere senso buttar lì classifiche individuali, e fra ruoli diversi, in uno sport di squadra. Allora tanto vale raccontarla dall’inizio la storia di un centravanti fantastico e atipico, per arrivare alla fine, ancora tutta da scrivere, di una stagione magica: per la prima finale di Champions League del suo Arsenal e per i record realizzativi strappati ai bomber all-time dei Gunners, Ian Wright in assoluto (185 reti in 287 gare dal 1991 al 1998) e Cliff Bastin in campionato (159 gol nel 1929-39). L’uno il 18 ottobre con la doppietta del 2-0 di Praga contro lo Sparta in Champions League, l’altro il 1° febbraio nel 2-3 interno col West Ham. 

Thierry Daniel Henry nasce nel sobborgo-dormitorio di Les Ulis – 30 mila anime ad alta percentuale di immigrati strette a sud di Parigi, non lontano dall’aeroporto di Orly – il 17 agosto 1977. Un anno prima i genitori, Antoine e Marylese (originaria della Martinica), avevano lasciato l’isola caraibica di Guadalupe, la maggiore delle Piccole Antille francesi, per cercare una vita migliore. Lo Stato assegna loro un minuscolo bilocale nelle colate di cemento che dagli anni 60, per la pericolosità delle strade e la mancanza di parchi pubblici, fanno della periferia una sorta di ghetto. Che però ha due eccellenti campi di calcio (uno ridotto) e la pista di atletica, che a Thierry ricorda lo zio campione francese sui 400 ostacoli. Un paradiso per Antoine, estremista del pallone, un’insidia per Marylese, timorosa che il pargolo pensi più a quello che ai libri, anche se Thierry accontenta entrambi, in campo e sui banchi. Il padre lo porta in continuazione sui campetti del posto e alle partite, e presto il ragazzino dimostra doti superiori alla media dei pari età e el fratello maggiore Wily – oggi autista della metropolitana a Parigi – che gioca in una squadra riservata a neri e arabi. 

A sei anni Thierry entra nei pulcini del CO Les Ulis, allenati da Claude Chezelle – una vaga somiglianza col celebre Hercule Poirot della giallista Agatha Christie – al quale papà Antoine predice che il proprio figliolo vestirà il Bleu della Francia. «È difficile per i ragazzini mantenere la concentrazione e forse sono stato un po’ soffocante con Thierry – ammette Antoine – Ma sentivo che dovevo spingerlo al massimo. Ero così determinato nel fargli avere le migliori opportunità che persi il lavoro. Facevo la guardia di sicurezza e arrivai tardi a un cambio di turno dopo averlo accompagnato in macchina a una partita. Quando mi presentai, due ore dopo, venni licenziato». 

Chezelle ricorda di come «Antoine non si perdesse una partita del figlio. Thierry aveva il talento, ma l’ambizione era del padre». Henry conferma, e quella che oggi è per lui una passione sfrenata ieri rasentava la costrizione: «Dire che mio padre mi spingeva è un eufemismo. Il calcio quasi non mi attirava». La scuola, di vita prima che di calcio, inizia lì. Nei campionati giovanili dei dintorni di Parigi ci sono tanti giovani africani privi del certificato di nascita e i club talvolta li schierano nelle squadre coi più piccoli. «Thierry giocava contro dei giganti che cercavano di dargliele – ricordava il padre anni fa – Erano quelle situazioni a dimostrarmi che un giorno avrebbe avuto i cosiddetti, come diciamo noi, per sfondare». 

Nel 1989 Henry passa all’US Palaiseau, club di una cittadina vicina. Dopo averlo visto farsi male in uno scontro, il padre si precipita in campo per protestare con l’arbitro, ne nasce un parapiglia e il match viene sospeso. Tra il Palaiseau e Antoine il rapporto finisce lì. Il fatto insolito è che assieme al ragazzo viene via anche il tecnico Jean-Marie Panza, che Henri – un po’ come Del Piero con Vittorio Scantamburlo nelle giovanili del Padova – considera tuttora il suo mentore. 

Chezelle sostiene che quel giunco color ebano, con la pettinatura afro e l’espressione a metà fra l’ironico e l’angelico, ereditata dalla madre, «aveva lo stesso modo di calciare in porta, di interno, che ha oggi. Quando lo vedo in tv è come se rivedessi in versione adulta le cose che faceva da bambino». E secondo Antoine, la precisione nelle conclusioni è frutto delle ore trascorse dal figlio a studiare al videoregistratore le giocate di Marco van Basten, idolo di infanzia di Thierry. 

Gli scout locali si allertano, ma per primo arriva Thierry Pret, osservatore della squadra semi-pro del Viry-Châtillon, che all’epoca ha la reputazione di miglior club dove far sviluppare i giovani talenti parigini. Pret chiede ad Antoine il permesso di reclutare il promettente 13enne e, ottenuto lo scontatissimo semaforo verde, lo schiera negli Under-15. Subito dopo il trasferimento del ragazzo, i genitori si separano. Marylese si trasferisce nella vicina Orsay nel tentativo di iscrivere il figlio minore all’Alexander Fleming College. Thierry frequenta l’istituto per un po’, ma la testa è sul terreno di gioco. E a ben donde, visto che in 26 gare segna 77 reti. 

Quello stesso anno, lo nota uno scout del Monaco, Arnold Catalano, folgorato dal 6-0 che ne porta per intero la firma. Non gli fa nemmeno il provino, come prassi imporrebbe, e lo tessera seduta stante. «Thierry non è mai stato il prototipo del giocatore che se ne sta in area a segnare gol – dirà poi Catalano – È così difficile da fermare perché partecipa al gioco prima di crearsi da solo lo spazio per andare in gol». La velocità e la freddezza sottorete le aveva già, ma «se capiva di non essere in giornata, non ci dava dentro più di tanto». Fu Wenger a instillargli quello che Catalano chiama «il piglio del professionista». 

Subito prima del 14° compleanno, Thierry è fra i 25 selezionati per il Centre Technique National “Fernand-Sastre” di Clairefontaine-en-Yvelines, infallibile fucina federale a 50 km a sud-est della capitale. Come chiunque approdi a certi livelli, trascura la scuola e si concentra sul calcio. Idem per gli illustri compagni che faranno carriera, il coetaneo William Gallas in difesa e i più giovani Louis Saha (‘78) e Nicolas Anelka (‘79), compari di merende in attacco e fuori del campo, e l’allora mezzapunta Patrice Evra, un ‘81 cui fa da chioccia. Per via dello scarso rendimento scolastico Henry rischia però di farsi scappare l’Académie, tanto che Claude Desseau, direttore dell’Istituto Nazionale Calcio, ricorda che «per prenderlo dovemmo convincere il preside che eravamo di fronte a un super giocatore. Alla fine, acconsentì a fare un’eccezione. Poi Thierry prese sul serio gli studi e riuscì anche nella sua istruzione». 

Nei due anni a Clairefontaine, Henry era ritenuto dai tecnici un prospetto di valore, ma troppo grezzo per poter diventare una stella. Di lui piacevano la velocità e l’intelligenza (non solo calcistica: basta ascoltarlo), meno il trattamento di palla, le doti nel passaggio e realizzative, oggi il suo marchio di fabbrica, ma che allora tardavano a migliorare. 

Nel 1992 è al Versailles, ma al professionismo approda 17enne, nel Monaco di Arsène Wenger. L’alsaziano ha al centro dell’attacco un mangiapalloni come il brasiliano Sonny Anderson così si mette in testa un’idea meravigliosa: sfruttare sull’out la velocità e la tecnica, ormai iperaffinata, di quel cerbiatto dalle movenze felpate e l’istinto del bracconiere. Il 31 agosto 1994 lo fa esordire in Ligue 1, nella sconfitta interna per 2-0 col Nizza. Il futuro Titì gioca in tutto 8 gare e realizza 3 gol. Sembra stia per nascere una stella, invece la seconda stagione in biancorosso è mediocre. Stesso numero di gol ma con dieci gare in più. Wenger fatica a trovargli la giusta posizione, che dopo i primi primi, positivi riscontri si intuisce non essere all’ala. Intanto il ragazzo cresce, non solo fisicamente (ora è 1,88 x 83 kg). In campo, vince il premio di Giovane francese 1996, anno in cui segna alla Spagna l’1-0 che regala all’Under 18 il titolo europeo di categoria. Fuori, osservato dalle grandi del continente, ancor più fameliche per la vicina scadenza dell’apprendistato col Monaco, assume un procuratore. È il primo e forse unico grosso errore della carriera: sceglie un agente non iscritto alla FIFA il quale gli fa sottoscrivere due accordi. Prima con il Monaco poi quello, ben piu lucrativo, col Real Madrid (all’epoca allenato da Fabio Capello, suo grande estimatore). Il club monegasco si appella e vince facile. Multone da 1200 milioni di lire per i merengue e per Henry, che impara la lezione: «Ero un ragazzo, e mal consigliato, per questo non ho più il procuratore». 

Thierry firma un’estensione pluriennale nel gennaio 1997 e alla terza stagione esplode. Va a segno 9 volte in 36 partite e i biancorossi, nel frattempo affidati a Jean Tigana – Wenger è andato a raccogliere yen al Grampus Eight Nagoya prima di ripetersi con le sterline dell’Arsenal – vincono il campionato. In estate va ai Mondiali Under 20 in Malesia, ma la Francia esce nei quarti perdendo ai rigori contro l’Uruguay. L’11 ottobre, al Félix Bollaert di Lens, Aimé Jacquet lo fa debuttare in nazionale A, nel 2-1 in amichevole sul Sudafrica, come esterno sinistro nel tridente con Pires a destra e Guivarch’ unica punta davanti al trequartista Djorkaeff (poi rilevato nel ruolo da Zidane, che giocherà la ripresa al posto di Pires). Per Henry è la prima di una striscia aperta di 76 maglie tricoloeur, bagnate da 31 reti e dai titoli euromondiali di Francia 98 (capocannoniere, ma non titolare in finale) e BelgiOlanda 2000. Ma nei coqs, avrà spesso alti e bassi. A 20 anni è capocannoniere del mondiale vinto in casa e a 22 si conferma miglior marcatore dei campioni europei (tre reti), eppure per Roger Lemerre (sulla panca dei Bleus nel 1998-2002) è un’ala. Henry bucherà il mondiale nippocoreano, dove si noterà per l’espulsione contro l’Uruguay. Si rifarà a Euro 2004, segnando 6 reti in 7 gare nelle qualificazioni e, nella fase finale, le due alla Svizzera che valgono i quarti. 

Nell’anno del mondiale casalingo, i galletti e ancor di più il Monaco vivono dei suoi gol. Il club punta al bis in patria e a fare strada in Champions League. Morale: le troppe pressioni, e il feeling forse mai trovato con Tigana (del cui esonero dell’anno successivo, si vocifera, sarà uno degli artefici), ne minano il rendimento: in 30 gare di campionato bolla 4 volte. Va meglio in Europa, dove i suoi 7 centri valgono la semifinale contro la corazzata Juventus (4-1 al Delle Alpi, 3-2 al Louis II). Per qualcuno si tratta dell’ennesimo mezzo grande giocatore che sparisce quando più conta, etichetta che si porterà dietro a lungo. Diverso il parere dei dirigenti juventini, che si innamorano, senza riuscire a riprodurle in bianconero, delle giocate sciorinate in serie dal tandem offensivo dei monegaschi: con Le Prince, il principe, che fila sull’out e mette in mezzo per David Trezeguet, che fa l’unica cosa che sa fare: gol. 

La Juventus però non è il Monaco. Nella Torino bianconera arrivare secondi è un fallimento, e la squadra che Carlo Ancelotti eredita da Marcello Lippi “fallisce” due volte filate, anche se a punteggi-record, 71 e 73. Henry arriva nel gennaio 1999 e partecipa a metà della prima campagna, limitata al campionato perché in Champions League, essendo già sceso in campo col Monaco, non può giocare. Il tempo di aspettarlo non c’è, anche se lui ce la mette tutta per ambientarsi. Impara prima l’italiano, rimasto fluente, che la strada per arrivare al Comunale. Memorabile, al primo giorno di allenamento, la strada inforcata contromano alla guida della sua Porsche nera. L’unico pezzo di Francia, assieme ai gatti Cookie e Jungle (che lo seguiranno anche a Londra) e alla fidanzata di allora, Sabrina, che si porta in Italia. La gioia di giocare, invece, rimane oltralpe e c’entra il giusto coi 3 gol (doppietta alla Lazio all’Olimpico, l’altro alla Roma) in 16 presenze, 12 delle quali da titolare. Ancelotti crede in lui ma è vittima dell’equivoco tattico che ha contraddistinto la prima parte della carriera di Henry e lo schiera esterno alto. Si salutano, senza rancore. Il dg Moggi & C. «Con Ancelotti non ho mai avuto problemi, né con Lippi. Carlo non voleva cedermi ma i dirigenti volevano Marcio Amoroso, l’Udinese chiedeva me come contropartita. Rifiutai, perché era una mancanza di fiducia della Juventus nei miei confronti. Ho chiesto di andarmene e furono d’accordo». Così a giugno raggiunge il padre putativo Wenger all’Arsenal, fresco di Double, dove per 17 milioni di euro (300 mila meno di quelli sborsati per portarlo a Torino) sostituisce Anelka. Ai tempi, pare l’ennesimo colpaccio del “re del mercato” e oltremanica si ironizza sulle casse di Highbury dissestate da quel presuntuoso Frenchman dalla puzza sotto il naso. 

Il resto è cronaca. Anche se gli inizi, più in campo (8 gare senza gol) che fuori, non sono facili. Thierry parla subito inglese, non si lamenta mai delle botte o della pioggia, e riesce nell’impresa più grande per un francese in Inghilterra: farsi amare da tutti, tifosi, stampa, addetti ai lavori. Poi dal gol-vittoria al Southampton è tutto in discesa. In marzo segna 5 volte in 8 match e finisce la Premiership con 17 reti in 31 presenze. L’Arsenal chiude a 18 punti dietro il Manchester United campione e a Copenhagen perde 4-1 ai rigori la finale UEFA contro il Galatasaray (0-0 ai supplementari). Nel gennaio 2003 è il piu veloce bomber nella storia dei Gunners a segnare, in appena 180 presenze, il 100° gol col club. 

Oggi, vive uno status da semidio mai sceso sotto i 22 gol a stagione. Abita in una magione da 6 milioni di sterline sulle verdi colline di Hamstead, la zona Nord di Londra scelta da intellettuali e artisti per l’atmosfera ben diversa da quelle del West End e dei village a ovest. La divide con Nicole Merry, modella e attrice di Croydon, nel Surrey, sposata il 5 luglio 2003, e la loro figlia Téa, nata il 27 maggio 2005. Galeotto fu il set del celebre spot da un milione di sterline di una casa automobilistica transalpina il cui slogan-tormentone vede Henry chiedere ripetutamente quale sia il corrispondente inglese di «va-va-voom». 

Henry è il prototipo del fuoriclasse moderno: duttile e completo, fisico e tecnico, leader in campo e diplomatico davanti a taccuini e telecamere («anche quando vedo non vedo», il commento a caldo dopo la semifinale di ritorno di Champions League a Villarreal), vita privata tenuta al riparo da occhi indiscreti. Insomma, l’anti-Beckham. Mai una polemica, un eccesso, una parola fuori posto, se non quelle, doverose e inevitabili, contro le sparate razziste fatte dal futuro Ct spagnolo Luis Aragonés che spronava il pupillo José Antonio Reyes ad emergere nei Gunners: «Dígale al negro que usted es mejor. Dígaselo de mi parte». 

Di lui i media si occupano solo per parlare di mercato o, al più, della campagna antirazzismo “Speak Up, Stand Up” che alla multinazionale americana dell’abbigliamento sportivo è forse costata, perché il giocatore non si è sentito abbastanza coinvolto, il mancato rinnovo della sponsorizzazione (sottoscritta nel 2001 con un quadriennale da 9 milioni di sterline) e il conseguente passaggio alla concorrenza. Ecco, di quella ne avrebbe parecchia qualora andasse al Barcellona – come giura un attendibile operatore di mercato qual è Umberto Branchini – o al Real Madrid, disposto a offrirgli 12 milioni di euro lordi l’anno, 3 più dell’Arsenal. Sarebbe l’ultima sfida, ma se ci sarà si potrà cominciare a raccontarla non prima del 17 maggio e non oltre il 9 giugno. 

Prendere Henry è come acquisire una multinazionale, e chi ci prova sa a che cosa va incontro, nel bene e nel male. Con una specifica: il giocatore è meno avido della media dei suoi pari status, quindi per convincerlo non baserà il mero dio denaro. Anche perché con quello è a posto con gli sponsor. Ha appena lasciato la Nike per la Reebok (leggi: adidas, che l’ha assorbita per 3,8 miliardi di dollari), presto girerà un mega-spot per la Pepsi ed è già il volto maschile per l’Inghilterra di Estée Lauder. Complice la campagna inglese per l’auto Renault Clio, ha messo su famiglia. Quasi ovvio che davanti ai 9 milioni di euro lordi l’annooffertigli per il rinnovo dal gm dei Gunners, David Dein, il francese abbia nicchiato, e non solo perché al netto del meno esoso fisco spagnolo (-15%) pesano assai più i 12 messigli sul piatto dal presidente madridista Fernando Martín che nel frattempo si è però dimesso.

Henry ha già annusato sul posto i miasmi del calcio italiano e ne è fuggito con la stessa, proverbiale velocità che esibisce in campo. Sognarlo all’Inter è lecito, come giocare al Fantacalcio. Occhio però perché si scrivevano le stesse cose 20 milioni di euro e un’estate fa per Veira alla Juventus. Ci sono delle differenze, però: “Titì” è integro e relativamente giovane, pretende garanzie tecniche (intese come compagni all’altezza e progetto tattico adeguato) e… una società. Da mesi si sussurra che in pole position ci sia il Barcellona che è già un Dream Team con Ronaldinho e Messi accanto a Eto’o. a meno di non credere, e cedere, ai 60 milioni offerti dal Chelsea di Roman Abramovich per far volare il nigeriano dipinto di Blues anziché di blaugrana.

Champions League o no, Thierry potrebbe però restare dov’è: in fondo, a Londra nord sta da re. I Gunners potrebbero spuntare 12-15 milioni, ma solo in teoria, vista la possibilità di svincolo a parametro (5 milioni secondo le norme FIFA, che danno la facoltà del recesso unilaterale per chi è fuori dalla fascia protetta), cui difficilmente un possibile acquirente rinuncerebbe. Il miglior modo di saldare il debito di riconoscenza potrebbe proprio essere continuare a indossare la maglia biancorossa numero 14. Allora sì che quella artigianale del Barça consegnatagli al “Madrigal” dal pacifico invasore solitario resterebbe un pezzo unico. A proposito di magliette e di multinazionali: facciamo un giochino. Arsenal, Barcellona e Inter sono Nike, Real Madrid è adidas. Henry è Reebok (cioè adidas), per la quale dal 1° agosto sarà testimonial della campagna I Am What I Am, io sono quel che sono. La proprietà transitiva non vale, ma dovendo puntare un euro…
Guerin Sportivo n.18, 2 maggio 2006


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