Kubler, Le Pedaleur de Charme
di SIMONE BASSO
Il Giornale del Popolo, 24 luglio 2013
Ferdinand Kubler compie i suoi primi novantaquattro anni. Figura mitologica dello sport svizzero, classe 1919 (la stessa di Fausto Coppi), e ultima testimonianza dell'era dei Giganti. Era, quel ciclismo, un racconto omerico, orale e scritto, dal fascino ineguagliato: la vecchia Europa scavalcava in bicicletta le macerie del secondo conflitto mondiale. Gli eroi di quell'immaginario erano iconici e riconoscibilissimi.
Un "Sei Nazioni" (Italia, Francia, Belgio, Svizzera, Olanda e Spagna) o poco più: ci sovviene che fu proprio la guerra, con le sue tragedie, a cristallizzare lo scenario per almeno un decennio. Mezza generazione di potenziali ciclisti crebbe denutrita.
La Svizzera, nel suo isolamento fortissimamente voluto, sviluppò un movimento che avrà un paragone solamente con gli anni ruggenti - i Novanta - dei Richard, Rominger, Zulle, Dufaux, Gianetti eccetera. Appunto, accanto ai dioscuri Kubler e Koblet c'erano Hans Knecht e Leo Weilenmann, Fritz Schaer e Carlo Clerici. Ferdi, tra i grandi, appartenva alla stirpe di Magni, Schotte e Ockers: grande campione quantitativo, martellante, esuberante, opposto ai fuoriclasse che mostravano il quid (indescrivibile) dell'eccezionalità. Coppi, Bartali, Koblet, Bobet e Van Steenbergen possedevano qualcosa di regale.
Kubler divenne Kubler piano piano, affiancando la pista alla strada, e rivelandosi prima in casa, poi nelle sfide internazionali. Nel 1942, al Tour de Suisse, staccò tutti nella seconda tappa, quella che portava a Bellinzona, indossando una maglia oro che portò fino al traguardo finale di Zurigo.
Completo, agguerrito, su ogni terreno; a volte troppo aggressivo, irrazionale, nella condotta di gara, mise in scena un duello (casalingo) perfetto con l'altra K. Difatti i due condividevano nulla, nello stile e nella forma. Galassie opposte o quasi. La classe di Koblet aveva un cipiglio aristocratico: Hugo era bello, bellissimo, non solo quando sorrideva, con la miss al fianco, sul palco delle premiazioni. Era l'eleganza fatta corridore.
Nel periodo di massimo fulgore (1950-51) abitò, dal punto di vista atletico, la stessa stratosfera del Campionissimo Coppi. Però Le Pedaleur de Charme non ebbe mai il carattere, la volontà, del rivale. E il prosieguo delle loro esistenze, sofferta, breve, quella di Hugo, felice, di successo anche smessi i panni del ciclista, per Ferdi, li distinse definitivamente.
Kubler fu ieratico, di una continuità clamorosa all'apice, e assistette a tutto lo scibile di quell'evo. Vide da vicino la mostruosità del Coppi 1949, a Copenhagen e al Giro di Lombardia; osservò l'esplosione di Koblet al Giro d'Italia 1950; fu testimone diretto del miglior Louison Bobet di sempre (1954). Eppure vinse tantissimo e a ripetizione nel miniregno elvetico che si instaurò all'alba dei Cinquanta. I suoi trionfi nelle Ardenne furono fondamentali nell'erigere la fama (oggi monumentale) della Liegi-Bastogne-Liegi.
Il 1951 ne rappresentò lo zenit della carriera. Fece la doppietta Freccia Vallone-Doyenne, trionfò alla Roma-Napoli-Roma, in Romandia, al Tour de Suisse e al Giro del Ticino. Arrivò terzo, con qualche rimpianto, al Giro d'Italia.
Campione nazionale, si presento dunque al Mondiale di Varese da favorito. Al terzo giro del circuito la mossa-chiave: seguì un allungo dello strapotente Toni Bevilacqua e con Minardi, Voorting, Fraanhof, Redolfi, Wagtmans, De Feyter e Schwarzer diede vita alla fuga decisiva. Fiorenzo Magni, a tutta, si unì ai battistrada nel finale. Ma Kubler non ebbe problemi - in volata - a distanziarlo. Così indossò l'iride, lo sportivo rossocrociato più celebre del Novecento. Un gigante tra i Giganti.
Il Giornale del Popolo, 24 luglio 2013
Ferdinand Kubler compie i suoi primi novantaquattro anni. Figura mitologica dello sport svizzero, classe 1919 (la stessa di Fausto Coppi), e ultima testimonianza dell'era dei Giganti. Era, quel ciclismo, un racconto omerico, orale e scritto, dal fascino ineguagliato: la vecchia Europa scavalcava in bicicletta le macerie del secondo conflitto mondiale. Gli eroi di quell'immaginario erano iconici e riconoscibilissimi.
Un "Sei Nazioni" (Italia, Francia, Belgio, Svizzera, Olanda e Spagna) o poco più: ci sovviene che fu proprio la guerra, con le sue tragedie, a cristallizzare lo scenario per almeno un decennio. Mezza generazione di potenziali ciclisti crebbe denutrita.
La Svizzera, nel suo isolamento fortissimamente voluto, sviluppò un movimento che avrà un paragone solamente con gli anni ruggenti - i Novanta - dei Richard, Rominger, Zulle, Dufaux, Gianetti eccetera. Appunto, accanto ai dioscuri Kubler e Koblet c'erano Hans Knecht e Leo Weilenmann, Fritz Schaer e Carlo Clerici. Ferdi, tra i grandi, appartenva alla stirpe di Magni, Schotte e Ockers: grande campione quantitativo, martellante, esuberante, opposto ai fuoriclasse che mostravano il quid (indescrivibile) dell'eccezionalità. Coppi, Bartali, Koblet, Bobet e Van Steenbergen possedevano qualcosa di regale.
Kubler divenne Kubler piano piano, affiancando la pista alla strada, e rivelandosi prima in casa, poi nelle sfide internazionali. Nel 1942, al Tour de Suisse, staccò tutti nella seconda tappa, quella che portava a Bellinzona, indossando una maglia oro che portò fino al traguardo finale di Zurigo.
Completo, agguerrito, su ogni terreno; a volte troppo aggressivo, irrazionale, nella condotta di gara, mise in scena un duello (casalingo) perfetto con l'altra K. Difatti i due condividevano nulla, nello stile e nella forma. Galassie opposte o quasi. La classe di Koblet aveva un cipiglio aristocratico: Hugo era bello, bellissimo, non solo quando sorrideva, con la miss al fianco, sul palco delle premiazioni. Era l'eleganza fatta corridore.
Nel periodo di massimo fulgore (1950-51) abitò, dal punto di vista atletico, la stessa stratosfera del Campionissimo Coppi. Però Le Pedaleur de Charme non ebbe mai il carattere, la volontà, del rivale. E il prosieguo delle loro esistenze, sofferta, breve, quella di Hugo, felice, di successo anche smessi i panni del ciclista, per Ferdi, li distinse definitivamente.
Kubler fu ieratico, di una continuità clamorosa all'apice, e assistette a tutto lo scibile di quell'evo. Vide da vicino la mostruosità del Coppi 1949, a Copenhagen e al Giro di Lombardia; osservò l'esplosione di Koblet al Giro d'Italia 1950; fu testimone diretto del miglior Louison Bobet di sempre (1954). Eppure vinse tantissimo e a ripetizione nel miniregno elvetico che si instaurò all'alba dei Cinquanta. I suoi trionfi nelle Ardenne furono fondamentali nell'erigere la fama (oggi monumentale) della Liegi-Bastogne-Liegi.
Il 1951 ne rappresentò lo zenit della carriera. Fece la doppietta Freccia Vallone-Doyenne, trionfò alla Roma-Napoli-Roma, in Romandia, al Tour de Suisse e al Giro del Ticino. Arrivò terzo, con qualche rimpianto, al Giro d'Italia.
Campione nazionale, si presento dunque al Mondiale di Varese da favorito. Al terzo giro del circuito la mossa-chiave: seguì un allungo dello strapotente Toni Bevilacqua e con Minardi, Voorting, Fraanhof, Redolfi, Wagtmans, De Feyter e Schwarzer diede vita alla fuga decisiva. Fiorenzo Magni, a tutta, si unì ai battistrada nel finale. Ma Kubler non ebbe problemi - in volata - a distanziarlo. Così indossò l'iride, lo sportivo rossocrociato più celebre del Novecento. Un gigante tra i Giganti.
SIMONE BASSO
Pubblicato il 24 luglio 2013 da Il Giornale del Popolo
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