"Goat" Manigault - Il Re è morto, evviva il Re



«Sono un uomo ricco. Basta guardare le mie braccia. Tutti i miei soldi li ho nelle vene».

È finito sul New York Times, e non poteva che finirci da quel re che è sempre stato. Re del quartiere, dell’eroina, del playground. Nell’edizione di venerdì 16 giugno 1989, esce un articolo intitolato «A Fallen King Revisits His Realm». Il re caduto rivisita il suo regno. 

«Se non centri bene la vena, il braccio si gonfia. Noi li chiamiamo “misses”». Perse. Come le palle in campo, come le occasioni di una vita che non si poteva rimettere in piedi.

Il weekend precedente Earl “The Goat” Manigault, «il più talentuoso atleta dei playground newyorchesi a non avercela mai fatta nella NBA», era tornato a casa. Notare la sottigliezza: atleta, non giocatore. E fa tutta la differenza del mondo.

All’epoca, Manigault viveva sotto la soglia di povertà a Charleston, South Carolina. E in quell’occasione era tornato alla sua vera casa, «il parco tra la 98th Street e Amsterdam Avenue dove una volta era così popolare che nel 1977 i residenti giocavano il torneo intitolato a suo nome mentre lui era detenuto alla Bronx House of Detention per porto d’armi abusivo e spaccio di stupefacenti».

Quasi venticinque anni dopo, la sua leggenda era rimasta intatta. Anzi, se possibile, persino stratificata dal mito. «Qualcuno deve pur fallire» argomentava nel pezzo del NY Times l’ormai 44enne The Goat, scivolando nel fatalismo prima ancora del parlare di sé in terza persona. «Per ogni Michael Jordan, c’è un Earl Manigault. Non tutti possiamo farcela. Qualcuno deve fallire. E quel qualcuno ero io». 

Mentre riattraversa quel campetto, posto a pochi isolati da dove era cresciuto, tutti lo salutano. Ammiratori e vecchi amici lo chiamano Goat, il vecchio soprannome affibbiatogli alla junior high school da un insegnante che non riusciva a pronunciarne bene il cognome: “Mani-Goat”. Per gli altri era ed è semplicemente “Legend”, o Goat. Due volte comodo, come acronimo di Greatest Of All Time e perché Earl saltava davvero come una capra di montagna.

Di persona, non è neanche tanto grosso: 1,82 x 78 kg. Mentre attraversa il campetto, sigaretta che penzola dalla bocca, T-shirt scolorita e pantaloncini blu, tiene in mano una lattina di birra in un sacchetto di carta marrone e ogni tanto sorseggia con la cannuccia. Cammina anche un po’ curvo. La mistica però quella sì rimane intatta. «Giocava come un 2.04», ricordano i più anziani.

Loro c’erano a quei tempi. Quando dominava il Rucker Tournament di Harlem e schiacciava contro gente che ce l’aveva fatta nei pro’, come Connie Hawkins e Lew Alcindor (non ancora diventato Kareem Abdul-Jabbar), e quelli che invece no: come Joe “The Destroyer” Hammond e il compianto Herman “the Helicopter” Knowings.

Come possono dimenticare quella volta in cui, per vincere una scommessa di 60 dollari, schiacciò all’indietro per 36 volte in fila?

«La sua capacità di giocare come un 2.04 era incredibile» racconta Gene Williams, uno degli organizzatori del Rucker Tournament che contro Manigault aveva giocato al liceo. «Era un giocatore fenomenale. Ed è ancora una leggenda anche per i ragazzini di oggi».

Quando ragazzino era lui, faceva il fenomeno alla Benjamin Franklyn High School prima di essere espulso dalla scuola, al quarto e ultimo anno, per aver fumato marijuana nello spogliatoio. Accusa peraltro da lui sempre negata. 

Preso il diploma da penultimo della classe, al Laurinburg Institute, prep school del North Carolina nella quale giocò un anno, si ritrovò a scegliere fra diverse borse di studio.

I reclutatori dei maggiori college gli stavano dietro, e per tutta la città si sprecavano leggende sulle schiacciate e stoppate che in quel periodo dispensava sui playground di Harlem tra la 129th Street e Seventh Avenue e tra la 155th e Eighth Avenue. Earl però temeva di non farcela con gli impegni accademici di un college rinomato e così scelse la Johnson C. Smith University, ateneo in prevalenza nero di Charlotte, North Carolina. Durò meno di un anno. In classe faticava e in palestra non andava d’accordo con l’allenatore. «Fu allora che toccai il fondo», ammette Goat, «e incominciai a incasinarmi con la “dama bianca”». Manigault, mai sfiorato dal pensiero di tornare al college, aveva ormai capito che il basket non lo avrebbe mai portato più in là del playground. 

Ben presto la dipendenza da eroina gli sarebbe costata oltre 100 dollari il giorno. E pur di procurarseli andò a rubare pellicce in quartiere alla moda di Manhattan. Qualche volta gli spacciatori gliela davano gratis, «perché ero Goat, e non volevano che andassi rubare». 

La dama bianca, però, gli stava erodendo l’unica certezza che lo aveva sempre fatto sentire intoccabile: il dominio su un campetto da basket. In una partita al Rucker Tournament del 1965 perse l’equilibrio e cadde due volte, una scena pietosa che l’allontanò dal basket e l’avvicinò alla strada, dove l’intero quartiere dopo averlo indicato si voltava dall’altra parte nel vederlo mentre, strafatto, annuiva in modo patetico ai passanti.

Manigault fu arrestato per possesso di droga nel 1969, l’anno in cui Lew Alcindor (che nel 1971 cambierà legalmente il nome in Kareem Abdul-Jabbar) firmò il suo milionario contratto da matricola dei Milwaukee Bucks della NBA. Nei diciotto giorni nelle Tombs – nomignolo colloquiale dell’allora Manhattan House of Detention, carcere municipale sulla 125th Street nel quartiere Five Points, l’attuale Civic Center a Lower Manhattan – lottò contro istinti suicidi e tossicodipendenza. Trasferito alla Green Haven, prigione newyorchese di Stormville, scontò 16 mesi della condanna a cinque anni.

Nel 1970, ormai 25enne, ebbe la sua unica chance a livello professionistico. Bill Daniels, proprietario degli Utah Stars della American Basketball Association, la lega concorrente alla NBA, aveva letto di lui nel libro The City Game, inarrivabile bibbia del settore scritta da Pete Axthelm e appena pubblicata dalla Harper's Magazine Press. Daniels gli concesse un provino, ma il fisico di Earl Manigault non era più quello di The Goat.

«Lo accompagnai io all’aeroporto quando volò nello Utah – ha raccontato al NY Times Willie Mangham, suo ex compagno alla Benjamin Franklyn HS – Ma per lui era troppo tardi. Il suo fisico ne aveva passate troppe. Non aveva più il passo».

A suo dire rimasto pulito da anni, Manigault andò a battere cassa dai boss della droga per il suo torneo, il Goat Tournament, che si giocava all’angolo fra la 98th Street e Amsterdam Avenue, poi noto come Goat Park. «Dissi loro che dovevano restituire qualcosa alla comunità. E non potevano dire di no a Goat». 

Goat però ci ricascò. Ricominciò a farsi di eroina e una sera d’estate del 1977, con la prima giornata del Goat Tournament cancellata per la pioggia, Manigault salì in macchina con degli amici alla volta del Bronx. «Avevamo un piano per un colpo da 6 milioni di dollari, ma ci scoprirono. Pensavano fossi il capo, e mi beccai due anni». Quale fosse il piano, Earl non l’ha mai rivelato, ma dopo due anni fra la Bronx House of Detention e la prigione statale di Ossining – la famigerata Sing Sing di tanti film, per intenderci – prese i due più piccoli dei suoi sette figli e se ne tornò a Charleston, nel South Carolina, per stare il più lontano possibile dalla grande città e soprattutto dalle tentazioni della droga. «Non volevo che i miei figli diventassero più drogati di me». 

Mai sposatosi, mai avuto un’occupazione a tempo pieno, viveva nella casupola con i due figli e tirava avanti con lavoretti qua e là come imbianchino, falciando prati o dando una mano nella manutenzione di parchi e giardini pubblici della zona.

A corroborare il mito di re buono, e al contempo a sfatare quello di un Goat esclusiva icona di poveri e neri, provvede nientemeno che un cattedratico. Stephen F. Cohen, direttore del programma di studi russi alla Princeton University e autore di vari saggi su politica e storia dello sport dell’Unione Sovietica, conobbe Manigault a fine anni sessanta e da allora sarebbero rimasti amici. Ex residente nel quartiere, e per sua stessa ammissione malato di basket, Coehn era rimasto colpito dalla dolcezza di Goat e dal modo con cui sorrideva ai bambini o raccontava barzellette ai suoi ammiratori. «Earl era del tutto privo di meschinità – ha raccontato al NY Times il prof – E se mai ha fatto del male a qualcuno, quel qualcuno è se stesso. È questa la tragedia. Viveva in quelle strade malfamate come fosse un re in esilio. Campava grazie alla solidarietà dei suoi ammiratori. Ha avuto anche delle offerte di lavoro, ma le ha sempre lasciate stare perché non si è mai dovuto preoccupare di nulla».

Il buon carattere di Manigault era – col basket – un altro motivo per il quale la gente del quartiere lo trattava con rispetto, per non dire deferenza. Nonostante i ripetuti fallimenti restava una sorta di monarca, un sovrano fra i due isolati che collegano il Goat Park al Frederick Douglass Playground sulla 100th Street. 

Nel giugno ’89 però Manigault qualcosa di cui preoccuparsi l’aveva eccome: la salute. Due operazioni al cuore, compreso l’intervento di chirurgia correttiva di due valvole nel febbraio precedente, che gli avevano lasciato due enormi cicatrici e portato via un bel po’ della poca resistenza rimastagli. Tornato al campetto, ogni tanto mostrava barlumi dell’entica brillantezza, ma le sue partitelle non duravano più di cinque minuti e quando gli chiedevano di schiacciare, rispondeva con un sorriso. Le gambe ancora muscolose gli consentivano pur sempre di tirare a canestro ma dopo un quarto d’ora doveva sedersi su una panchina per rifiatare e massaggiarsele. Le gambe che un tempo lo avevano fatto re non erano più le stesse. 

Su quelle gambe, però, a differenza delle braccia, non c’era traccia di “misses”. «Quando nelle braccia non trovavo più la vena, ero tentato di cercarla sulle gambe. Io però adoravo le mie gambe. E per quanto facesse male, cercavo sempre un altro punto nelle braccia».

Quasi nove anni dopo, il 15 maggio 1998 al Bellevue Hospital Center di New York, ad abbandonarlo sarà proprio quel cuore per cui in tanti lo avevano adorato. 

«Ho deluso migliaia di persone, ma non ero un bluff. E c’è stato un tempo in cui davo alla gente quel che voleva».

Goat. Greatest Of All Time.

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