GIRO 1987 - Bravo Roche ma chi inseguiva?


di MARIO FOSSATI,
la Repubblica © - 16 giugno 1987

NON è stato un Giro d'Italia dei più veri e nemmeno dei più belli. Assolutamente. E' stato il Giro d'Italia di un corridore, Stephen Roche. L'irlandese ha meritato la vittoria ampiamente. Che io sappia - e di giri ne ho veduti troppi per non accorgermene - tenuto conto dell'ambigua morale ciclistica, del realismo che la ispira, dei sacrifici, degli interessi mercantili che l'accompagnano, non c'è stato alcun vincitore di Giro che non abbia meritato il suo giro. Il ciclismo è brutale. L'incidente, diceva un vecchio censore, è ritenuto un'aggravante, come l' ubriachezza, non già un'attenuante. 

Binda ha corso un Giro (pare) senza rimetterci una gomma e Pavesi diceva che in quella sua navigazione tranquilla per monti, pianure e valli non ci poteva essere stata soltanto fortuna ma anche stile, leggerezza di mano, prontezza di riflessi. 

Se vai a casa come è toccato a Defilippis (che nel '62 venne ripescato nella notte a Torino e riportato alla partenza: il Giro lo vinse il suo compagno Balmamion) o abbandoni in uno sbalzo d' umore, in segno di protesta (Coppi, nel '55, nei confronti di Magni) hai tradito soltanto una crisi di nervi. Hai commesso un peccato mortale difficilmente perdonabile. 

Se, come è accaduto a Visentini, che era il cavallo più fino di questo Giro, rinunci a difendere una sconfitta, che al Giro può essere anche quotidiana, semplicemente violi una norma fondamentale dei Giri (e dei Tour), questa: il gioco non è mai fatto. Una corsa a tappe è un confronto di caratteri. 

Perché non lo ritengo un Giro dei più belli? Henry Desgrange era solito dire che una corsa a tappe è un confronto incerto di essenze certe: l'essenza certa è la natura, i grandi passi alpini e pirenaici, la pianura assolata; l'essenza incerta sono i corridori, gli uomini, che battono il drago, il despota, che hanno ragione dei terreni dannati, che qui definiscono la loro qualità. 

La geografia di questo Giro, che non era omerica ma benissimo scelta (ricucendo gli assegni delle sedi di tappa capita anche di azzeccare un percorso) è stata subìta, non popolata dai corridori. Le difficoltà non sono state affrontate dai concorrenti del Giro, essi se ne sono liberati alla meno peggio, a volte, anche adattandosi al mezzuccio, perché no?, vile e sleale dell'arrivo in tempo massimo. C'erano montagne - di quelle che rappresentano la pienezza del monte, leggi arrivi in salita - buone per fare il vuoto, ma gli arrampicatori erano soltanto capaci di uno schizzetto, valido per il traguardo dell'apposito gran premio; c' erano ondulazioni leggere, saliscendi intagliati per i mezzofondisti. C'erano percorsi lunghi che i maratoneti avrebbero potuto sposare. Non mi pare che roventi battaglie vi siano esplose sopra. Chi è squagliato in solitudine verso la vetta (Bernard, fuori classifica, a Madesimo, Van der Velde a Sappada e a Canazei) puntava a un successo settoriale. Il caso nudo, brutale del combattimento non c'è stato. 

La cornice anche se vieppiù maledettamente sconciata (i verdi dovrebbero chiedere la targa di ammissione al seguito del Giro e confutare, la sera, agli arrivi di tappa, il politico di turno che si dice un benefattore dell'umanità e altri non è che un volgare guastatore del paesaggio) era più preziosa che non la tela, leggi la corsa che racchiudeva. 

Pagelle per il Giro? Non esistono pagelle nel ciclismo. O sei un personaggio di spessore o non lo sei. Stephen Roche - l'unico cavallo di un Derby aperto a cavalli da corse a vendere o fuori distanza - ha interessato per una vicenda umana che l'ha coinvolto, nella stessa équipe, unitamente a Visentini. Due fratelli-nemici in seno alla Carrera. Roche e Visentini avrebbero dovuto fare corsa parallela, di quelle che non si intersecano. Poi - era il disegno dell'onesto accorto Boifava - sarebbe stato il percorso a fare la graduatoria. 

Visentini ha creduto che la tappa di San Marino, una specie di cronoscalata, con Roche distanziato di due minuti e quaranta secondi avesse emesso una sentenza senza appello. Roche non era affatto dell'avviso. L' atteggiamento di Roche per un suiveur esperto, era comprensibile. Un Giro e un Tour sono sempre stati un arrangiamento del destino. La morale ambigua del ciclismo appunto. Visentini, piccolo borghese ricco e perciò degno di rispetto (ha scelto il ciclismo come i giovin signori inglesi, un tempo, il canottaggio, ovvero la sofferenza dello sforzo) sa reggere al successo. La qual cosa ai poveri difficilmente riesce. 

Roche, di povere origini, quasi vecchio, che non ha molti anni davanti al manubrio per trasformarsi in un signorotto dublinese, non si fa intimorire dallo sbaraglio, dalle vie traverse che la corsa infila, dalla giungla che vi vive attorno (e di cui avrà fatto, un giorno, parte). Sentiva che la sua pedalata si faceva sempre più redditizia e non gli riusciva di comprendere per quale motivo l'avrebbe dovuta addolcire. La lotta solitaria per la vita, che aveva intrapreso, approdando a Parigi, una notte del febbraio dell'80, con una valigetta e in pullover, per imparare ciclismo, aveva trovato al Giro un'importante appendice. Rinunciare? L'amicizia con Schepers, suo uomo di fiducia, s'è approfondita. Chiuso in se stesso come un pugno, Roche s'apriva soltanto a Schepers: cercava e otteneva alleanze anche fuori dai confini della squadra. Non ci pensava il direttore sportivo. Ci avrebbe pensato lui a praticare conosciuti sentieri. Roche s'è infilato nelle incrinature della corsa di Visentini e ha preso il largo. 

Per Visentini - costretto all'abbandono per una brutta caduta alla penultima giornata - c' erano due disonesti in équipe, facilmente rintracciabili. Per Roche la morale di Visentini era borghese perbenismo. Quante volte nella vita Roche s'era sacrificato per altri e il sacrificio aveva avuto un valore soltanto sentimentale. La sua era la vendetta di Spartaco. Ha fatto alla fine presa sull'uomo della strada: Spartaco è passato dai fischi, dai pugni agli applausi. Ha riscattato un Giro tecnicamente (non organizzativamente) mediocre. 

Dovrei parlare della concorrenza a Roche. Ma quale? Le strattonate in avanti, misurate di Millar, in salita? Della qualità di Breukink, sì, un Visentini olandese, ancora verde. Gli sprazzi di Lejarreta, non mi hanno incantato. Sono stati tutti o quasi dei comprimari. Argentin correva a corrente alternata. Rosola e Bontempi, velocisti vittoriosi, centellinavano lo sforzo. Preferisco accennare a Giupponi che ha corso bene, con la regolarità un poco ottusa di un motore e a Giovannetti che ha molti cavalli a disposizione. Non li dobbiamo esaltare oltre misura. Cimini e Calcaterra possono avere un avvenire. Prima di scrivere di delusioni e di cambio generazionale bisogna che il cambio generazionale si verifichi. 

Dovrei parlare di Saronni, il cui impegno per tornare a galla merita rispetto e di Corti e di Baronchelli, ritirati. Ma perché parlare male degli assenti? Le forze fresche più attese, Bugno e Fondriest sono sparite, per acciacchi o malanni. Pazientiamo. "La Carrera dimostra che in Italia c' è il ciclismo migliore". Lo ha detto Marco Vitali, vincitore di tappa e studente della facoltà di filosofia all'università di Pavia, intruppato nel plotone.

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