Lo spazio olandese



Un estratto da Brilliant Orange, il capolavoro di David Winner sul calcio olandese.

«Cos’è Dio? Dio è lunghezza, altezza, larghezza, profondità.»
- San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), da Interior Light di Jan Dibbets

L’unico vero pilastro del calcio olandese è lo spazio. Altre nazioni e altre culture calcistiche possono aver prodotto migliori cannonieri, talenti individuali più folgoranti, squadre più affidabili ed efficienti in termini di trofei vinti. Ma nessuno ha mai immaginato o strutturato il proprio gioco in modo così astratto, architettonico e con uno stile così calibrato come gli olandesi.

Il Calcio Totale era basato su una nuova teoria di flessibilità spaziale. Come Cornelis Lely nel Diciannovesimo secolo aveva concepito e realizzato l’idea di creare nuovi, giganteschi polders[9], e di alterare le dimensioni fisiche dell’Olanda sfruttando le dighe e la nuova tecnologia a vapore, così Rinus Michels e Johan Cruijff sfruttarono le capacità di una nuova generazione di giocatori per cambiare le dimensioni del campo da gioco. Il Calcio Totale, tra le altre cose, era una rivoluzione concettuale basata sull’idea che l’estensione di qualunque campo da calcio fosse flessibile e potesse essere modificata dalla squadra che ci giocava. In fase di possesso, l’Ajax – e più avanti la nazionale olandese – puntava a rendere il terreno di gioco il più ampio possibile, distribuendo il gioco sulle fasce e approfittando di ogni corsa e movimento per aumentare e sfruttare lo spazio a disposizione. Quando perdevano palla lo stesso modo di ragionare e le stesse tecniche venivano impiegate per distruggere lo spazio altrui. Pressavano in profondità nella metà campo avversaria, cercando di impadronirsi della palla, tenevano la linea di difesa dieci metri all’interno della propria metà campo e facendo un uso aggressivo della trappola del fuorigioco comprimevano ulteriormente gli spazi. Quando vide Cruijff giocare per la prima volta, David Miller del Times rimase incantato da quel «Pitagora in scarpini», eppure tutti in squadra dimostravano di condividere lo stesso approccio fluido alla struttura e alle dimensioni del campo.

Non si trattava di un’esplorazione astratta e giocosa della prospettiva sul modello, per dire, di M.C. Escher. In parte, era una cosa istintiva. Ma era anche basata su calcoli matematici e studiata con il pragmatico obiettivo di massimizzare le capacità atletiche­. «Parlavamo di spazio sempre in senso pratico», ricorda Ruud Krol: «Quando difendevamo, le distanze tra di noi dovevano essere molto ridotte. Quando attaccavamo, ci allargavamo e usavamo le fasce. Il nostro sistema era anche una soluzione a un problema di natura fisica. La tua forma doveva essere al cento per cento, ma come fai a giocare novanta minuti e mantenere tutte le energie? Se io, che sono terzino sinistro, corro per settanta metri sulla fascia, non va bene che debba tornare indietro per altri settanta metri alla mia posizione iniziale immediatamente. Perciò, se il mio posto viene preso dall’interno sinistro, e l’ala sinistra retrocede a coprire la sua posizione a centrocampo, allora le distanze si accorciano. Se devi fare 70 metri avanti e indietro per 10 volte, in totale sono 1400 metri di corsa. Se riesci a fare in modo di correrne solo 1000, ti ritroverai di 400 metri più fresco. Questa era la filosofia». Detto altrimenti, in un certo senso non importava quale «posizione» venisse affidata a un giocatore: era la stessa posizione di gioco a determinare quando e come i giocatori si sarebbero dovuti spostare nella partita. Ogni giocatore effettuava calcoli rapidi e precisi in modo che ogni manovra risultasse la più efficiente in termini di spazio occupato ed energie spese. Krol continua: «Quando difendevamo, cercavamo di mantenere l’avversario sulla linea mediana. Per noi la cosa fondamentale non era tanto proteggere la nostra porta, quanto attaccare la linea mediana. Per questo applicavamo il fuorigioco. Non ti conviene tornare di corsa in difesa, dato che stai cercando di risparmiare energie. Invece di correre 80 metri indietro e 80 in avanti, è meglio correrne solo 10 in ogni direzione. Così sono 20 metri invece di 160. Quando diventammo più esperti e mettemmo a punto il sistema, ci capitava spesso di segnare una o due reti nei primi cinque minuti, a quel punto gli avversari si demoralizzavano e noi potevamo giocare la nostra partita. Ci lasciavano spazio».

Negli anni Settanta, per il resto del mondo questo approccio risultava sconcertante. Dave Sexton, l’ex allenatore inglese del Chelsea e del Manchester United che aveva studiato insieme a Rinus Michels e che verso la metà degli anni Settanta cercò di emulare il Calcio Totale con i suoi Queens Park Rangers, ricorda:[10] «Con il loro pressing e la loro rotazione, gli olandesi creavano spazio dove prima non c’era. Tutti gli altri ancora giocavano secondo schemi rigidi, con traiettorie dritte e posizioni fisse. L’approccio olandese era diverso. Michels non me ne parlò mai in termini teorici e non ce ne fu bisogno, perché se avevi a che fare con il mondo del calcio capivi subito di che si trattava. La sua idea era che, invece di muoversi su linee rette, i giocatori cambiassero posizione. Questa cosa di per sé consentiva alla squadra di aumentare notevolmente lo spazio a disposizione e creare problemi ai difensori avversari: se l’ala olandese si muove verso l’interno del campo, cosa deve fare il terzino destro? Seguirlo o restare dov’è? Se lo segue, lascia un buco dove presto si paleserà il terzino destro olandese. Ma se non lo fa, l’ala prenderà palla a metà campo, e voltandosi troverà un corridoio nella parte centrale».

L’artista Jeroen Henneman è convinto che questa consapevolezza spaziale sia figlia del linguaggio utilizzato dalla squadra: «A un livello inconscio il calcio ha sempre avuto a che fare con lo spazio. I buoni giocatori sono sempre quelli che, nello spazio a disposizione, trovano istintivamente la posizione per ricevere la palla. Ma il grande cambiamento nel calcio olandese avvenne quando queste idee diventarono parole, quando Cruijff e Michels iniziarono a parlarne. Nessuno prima di allora aveva utilizzato questa prospettiva. Spostando l’attenzione sullo spazio, e cominciando a parlarne, diedero vita a qualcosa che c’era sempre stato ma che nessuno aveva mai notato. Fu questa la loro grande invenzione: concentrarsi su determinati aspetti del gioco. Prima, la gente parlava in continuazione di moduli: 2-3-5 o 4-2-4 o quel che era. Ma d’un tratto Cruijff diceva: “Se c’è un’azione offensiva e questa persona corre verso un lato del campo, si porterà dietro un difensore, e creerà spazio per il centrocampista che può inserirsi e segnare”. Il fatto che ne parlassero aprì una prospettiva completamente nuova con cui guardare al calcio».

«Discutevamo tutto il tempo di spazio», dice Barry Hulshoff. «Cruijff parlava sempre di dove far correre i giocatori, dove farli restare fermi, quando non si muovevano. Era tutta questione di creazione e occupazione dello spazio. Una sorta di architettura del campo da gioco. Il punto era il movimento, ma tutto partiva dallo spazio, dalla sua organizzazione. Deve esserti chiaro perché costruire un’azione dalla fascia sinistra o da quella destra comporti un tipo di movimento diverso rispetto a una costruzione dal centro. In difesa, se giochi contro tre punte, i due difensori centrali costruiranno l’azione. Se gli attaccanti sono due, allora l’azione si sviluppa dalle fasce, e così via». Alla base dell’Ajax di Louis van Gaal, nella metà degli anni Novanta, c’era una variante simile ma velocizzata di questo approccio. «Parlavamo in continuazione di velocità di palla, spazio e tempi», spiega Gerard van der Lem, ex braccio destro di van Gaal. «Dov’è che c’è più spazio? Dov’è il giocatore che ha più tempo a disposizione? È lì che dobbiamo giocare la palla. Ogni giocatore doveva comprendere l’intera geometria dell’intero campo da gioco, e il sistema nella sua interezza».

Il campo da calcio ha la stessa forma e le stesse dimensioni in qualunque parte del mondo, eppure nessun altro aveva mai concepito il calcio in questo modo. Allora perché gli olandesi sì? La risposta potrebbe essere che gli olandesi concepiscono lo spazio del loro calcio in modo innovativo, creativo e astratto perché per secoli hanno dovuto farlo in ogni altro ambito della propria vita. A causa del suo paesaggio insolito, l’Olanda è una nazione di nevrotici dello spazio. Da un lato quello che hanno non è neanche lontanamente sufficiente. I Paesi Bassi sono uno dei territori più affollati e rigidamente organizzati della terra. Lo spazio è un bene di inestimabile valore, e per secoli in Olanda si è sfruttato e conteso ogni singolo centimetro quadrato di ogni singola città, campo o polder. La terra è controllata come si conviene per una questione di sopravvivenza nazionale. Il sistema idrico olandese deve essere regolato con precisione perché più del cinquanta per cento del paese è al di sotto del livello del mare. Nella parte occidentale del paese, l’intero paesaggio è opera dell’uomo – dalla strabiliante rete di canali, dighe e corsi d’acqua alle imponenti difese marittime in Zelanda, al grande porto di Rotterdam, al gigantesco aeroporto Schiphol e all’antica compattezza di città notevolmente articolate. Ampie parti del paese furono letteralmente trascinate fuori dal mare e prosciugate impiegando tecniche di costruzione di dighe e sistemi di drenaggio vecchie di secoli. Come recita un vecchio detto: «Dio creò il mondo, ma gli olandesi crearono l’Olanda».

La terra che gli olandesi crearono per se stessi è davvero molto particolare. «Viviamo in un groviglio perfetto di artificialità», dice l’influente architetto paesaggista Dirk Sijmons. «Cos’è natura e cos’è artificiale? Non è facile dirlo. Il paesaggio è un’astrazione nel senso che è composto solo da punti, linee e superfici, come un dipinto di Mondrian. Viviamo in una sorta di mega-struttura abitata sotto il livello del mare. È una forma degenerata di natura, ma allo stesso tempo un paesaggio bellissimo».

Scorgere questo paesaggio per la prima volta, dal finestrino di un treno o di un’auto, può essere ipnotico: una processione senza fine di campi e fossi di drenaggio precisi e rettangolari, canali rettilinei, filari di alberi ordinati. Nel suo libro del 1977, Planned Landscapes, il fotografo Ger Dekkers evidenziava le strutture di «prospettiva, accumulo, isolamento, ritmo, serialità» sottese a questo tipo di campagna. L’antropologo britannico Mark Turin ha scritto delle sbalorditive differenze tra la Gran Bretagna e l’Olanda che si possono notare da un aereo. «Sorvolando le paludi dell’Anglia Orientale, quella parte delle Isole Britanniche che da terra ricorda più da vicino l’Olanda, non si vede altro che un caos sconclusionato, una campagna divisa e ridivisa nei secoli in sezioni sempre più illogiche». L’Olanda, per contro, sembra «un mondo di pace e ordine, criterio e buon senso, do-ve le forme si incastrano e ogni pezzo combacia alla perfezione. Una terra in cui le strade costeggiano le proprietà e le fattorie, invece di attraversarle… un paese-basso, la cui lotta costante contro l’invasione delle acque è in qualche modo intrecciata alla sua etica protestante di ordine e controllo».

Per di più, gli immensi cieli a cupola e le sconfinate distese di terra piatta, geometricamente ordinata, hanno reso gli olandesi agorafobici. In assenza di montagne naturali – o anche solo di colline degne di questo nome – gli olandesi ne hanno costruite di proprie sotto forma di case alte, dotandole di scale spaventosamente ripide e strette. Le scale olandesi sono uno shock per gli stranieri. Tra gli esempi più estremi ci sono quelle dei caseggiati di età edoardiana nella parte occidentale di Amsterdam. Sulla Tweede Helmersstraat ci sono scale che rendono allettante l’idea di scalare la facciata settentrionale dell’Eiger: rampe a strapiombo salgono quasi in verticale per cinque piani, con a stento lo spazio sufficiente per poggiarsi ai gradini, e pianerottoli minuscoli lungo il percorso. La spiegazione più comune per queste strutture straordinarie è che la mancanza di trombe ampie o di ascensori aiuti a risparmiare spazio vitale prezioso. Eppure anche le vecchie fattorie olandesi hanno scale ripide, e persino nell’Amsterdam Arena le scale sono nettamente più ripide e con gradini più stretti rispetto a quelle in Gran Bretagna o nel resto del continente. Turin, che divide il proprio tempo tra una casa sui canali ad Amsterdam e l’Himalaya nepalese, riconosce in tutto ciò il «trauma dello spazio olandese», e lo stesso discorso vale per i tram cittadini, curiosamente angusti, i treni, e gli aerei, che a malapena lasciano spazio per le gambe dei passeggeri che sono statisticamente i più alti al mondo. «L’assoluta abbondanza di superfici orizzontali nella vita rurale di tutti i giorni fa sì che le persone ambiscano a qualcosa di più verticale», dice. «È come se gli olandesi compensassero la soverchiante vastità del proprio cielo e del proprio orizzonte fabbricandosi spazi piccoli e scomodi in cui stringersi». Al contrario, Turin nota che tra le montagne dell’Himalaya le persone compensano la «verticalità oppressiva» costruendo case il più possibile basse e piatte.

Dalla seconda guerra mondiale in avanti gli olandesi si sono impegnati anima e corpo in una serie di piani nazionali, i Ruimtelijke Ordeningen, o Atti Nazionali di Pianificazione Territoriale. Qualcosa di simile ai vecchi piani quinquennali sovietici, con la differenza che questi si concentrano unicamente sull’utilizzo dello spazio e tracciano le linee guida cui ogni autorità locale e municipale nei Paesi Bassi deve attenersi. Maarten Hajer, professore di politiche pubbliche all’Università di Amsterdam, spiega che gli olandesi hanno cominciato a sviluppare le proprie dottrine di pianificazione già nel XII secolo. «Tendiamo a credere di aver inventato l’idea di pianificare l’utilizzo del territorio. I nostri problemi con l’acqua indussero un’azione politica collettiva che ci permettesse di costruire dighe. Una cosa del genere non la si fa da soli. Non facciamo che ripetere come l’origine della democrazia olandese risieda nella costruzione cooperativa delle dighe».

Gli olandesi furono anche tra i primi a progettare e implementare una rigida separazione tra le loro città, affollate e compatte, e le sgombre aree rurali. In principio fu sviluppata per ragioni militari, durante la guerra d’indipendenza con la Spagna nel XVI secolo. In anticipo di quattrocento anni sul concetto tipico del Calcio Totale di comprimere lo spazio da difendere, quando gli spagnoli attaccavano, gli olandesi rendevano (letteralmente) il proprio territorio il più piccolo possibile inondando i terreni agricoli tra le città murate. Anche dopo aver ottenuto quella vittoria politica e militare, l’Olanda continuò a svilupparsi come un paese di città compatte circondate da una campagna verde e spaziosa. Si possono trovare immagini esplicative di questo principio in un classico illustrato per bambini intitolato The Cow Who Fell in the Canal degli americani Phyllis Krasilovsky e Peter Spier. Il libro apparve per la prima volta nel 1957, il periodo in cui i pianificatori stavano sviluppando l’idea della «deconcentrazione concentrata» (spostare persone dalle grandi città affollate in nuove cittadine altrettanto affollate, costruite su terreni appena ricavati dal piccolo mare artificiale, l’IJsselmeer). Il libro racconta la fantasiosa storia di Hendrika, una mucca da latte dell’Olanda del Nord che è «annoiata dalla vita nella fattoria e vorrebbe vedere la città di cui ha tanto sentito parlare». Un giorno, il suo desiderio viene esaudito quando dal suo prato soffice e rigoglioso inciampa e finisce in uno dei canali adiacenti. Trova una zattera e galleggiando si allontana, superando i fienili, le case, i mulini a vento e i tulipani della placida e piatta campagna olandese, finché non approda nella movimentata città. In mezzo a tutti quei palazzi alti e bizzarri, l’apparizione di Hendrika (Una mucca! Nel canale! Su una zattera!) genera scalpore. Seguita da una folla entusiasta, muggendo di felicità, la mucca saltella impettita sul selciato, sbircia nelle finestre, e per dispetto mangia un cappello di paglia al mercato del formaggio di Alkmaar (di fatto abbastanza vicino al vecchio stadio dell’AZ Alkmaar, l’Alkmaarderhout, un dettaglio che nella storia è stato misteriosamente omesso). Alla fine, il proprietario di Hendrika, il signor Hofstra, ripristina l’ordine (e l’equilibrio tra città e campagna) riportandola a casa al suo pascolo e regalandole un grazioso cappello di paglia con sopra un fiocco rosso. «Un cappello non si mangia», le dice, «un cappello si indossa». (Regole, regole… Gli olandesi hanno regole per tutto.)

Se i pianificatori hanno sempre saputo come comprimere – e difendere – lo spazio, che dire del contrario? Quanto sono stati bravi gli olandesi, per utilizzare le parole di Dave Sexton, a creare spazio dove prima non c’era? Per farla breve: si sono ingegnati parecchio. Oltre ad aver drenato mari, laghi, paludi e simili, gli olandesi vantano un’abilità tutta loro di elaborare forme meno tangibili di spazio. Il padiglione dei Paesi Bassi all’Expo 2000 era intitolato «Holland Schept Ruimte» («L’Olanda crea spazio»). Nel sito dell’esposizione, ad Hannover, la nazione più pianeggiante d’Europa aveva il padiglione più alto: una struttura straordinariamente ingegnosa di quaranta metri progettata dallo studio MVRDV di Rotterdam, che gioca con alcuni dei cliché olandesi più comuni. La posizione del paese, in parte al di sotto del livello del mare, era rappresentata da un grande lago artificiale sul tetto; più in basso, alberi enormi si ergevano al centro di una struttura aperta sui lati. Nel piano interrato c’erano delle dune di sabbia. L’obiettivo di questo edificio era dare risalto al talento degli olandesi nella «creazione di spazio per nuovi ambienti, nuove soluzioni, nuova terra e natura, nuove idee e stili di vita». L’ideatore del progetto, il professor Michiel Schwartz, spiega che i Paesi Bassi sono un «un paese progettato ad arte» che prospera grazie a una «libertà progettata ad arte», culturale e personale.

«Come può un paese piccolo come l’Olanda, una delle nazioni più affollate della terra, avere dello spazio da offrire?», si chiede. «La risposta consiste nella capacità degli olandesi di creare nuovo spazio – non solo in senso letterale, sotto forma di nuove terre sottratte al mare, ma anche sotto forma di nuove strutture politiche, di nuovi patti sociali e nuove relazioni tra società, tecnologia e natura. Questa capacità dà luogo a una serie di ibridi sorprendenti: quello che appare come naturale – la terra, ad esempio – è in realtà artificiale, e spesso ciò che è prodotto dell’uomo finisce per interconnettersi con la natura. Questo principio è alla base del concetto olandese di maakbaarheid, ossia l’abilità di dare forma, plasmare e controllare ogni aspetto dell’ambiente fisico e sociale… la convinzione che un paese possa essere pianificato e costruito, dal suo ambiente fisico alla sua vita sociale e culturale». La terra è stata bonificata e l’acqua incanalata, dice, e gli olandesi hanno anche creato «gli spazi culturali per nuovi stili di vita e di libertà d’espressione che sono unici al mondo. La mano dell’uomo è visibile in ogni aspetto della vita olandese, dal modo di rapportarsi alla natura e all’ambiente, all’ideazione delle proprie istituzioni culturali, all’attenzione nei confronti di una costruzione del consenso democratico. In Olanda l’ampiezza del cielo e l’apertura mentale vanno di pari passo». Con sedici milioni di persone concentrati in uno spazio fisicamente ridotto, gli olandesi hanno optato per una politica di apertura, ospitalità e multiculturalismo. «Il carattere aperto dei cittadini dei Paesi Bassi è frutto di una lunga tradizione», spiega Schwartz, citando «la storica propensione degli olandesi a fornire spazio e riparo a minoranze e comunità oppresse. Il modo in cui gli olandesi interpretano le relazioni sociali sembra riflettere l’ampiezza tipica del paesaggio. In Olanda alla libertà è riservato uno spazio inimmaginabile in altri paesi democratici – basti pensare ai matrimoni gay, o alle politiche di liberalizzazione delle droghe, o a come la gente possa scegliere consapevolmente di ricorrere all’eutanasia». Gli olandesi, inoltre «lasciano ampio spazio all’espressione della cultura – lo testimonia il grande supporto del governo alle arti e l’elevato numero di artisti nei Paesi Bassi. Ma c’è anche spazio per il divertimento e la gezelligheid, le attività ricreative, affari speciali di tipo immateriale». Han van der Horst, autore di The Low Sky, un libro molto popolare che punta a spiegare l’Olanda agli stranieri, dice che «la tolleranza è diventata una seconda natura» per gli olandesi. Inoltre, in termini di approccio all’autorità e all’ordine costituito la cultura olandese rimane unica: «Anche la società ha le sue uiterwaarden, prati irrigui vicini alle dighe, dove gli amministratori trovano impossibile imporre qualsiasi tipo di ordine».



Il paesaggio olandese ha anche plasmato il modo in cui gli olandesi vedono il mondo – e, naturalmente, la loro opinione sul calcio. Rudi Fuchs, direttore dello Stedelijk Museum di Amsterdam, nonché uno dei più influenti critici e storici dell’arte del paese, sostiene che ogni nazione e cultura godano di una propria prospettiva. «Gli psicologi negano che tali differenze esistano, ma è una cosa evidente nell’arte e nella cultura [olandese]. Chiedi a un qualsiasi olandese di disegnare l’orizzonte e lui ti traccerà una linea dritta. Se lo chiedi a qualcuno dello Yorkshire o della Toscana o di qualunque altro posto, ti ritroverai balzi e colline. Un blu scandinavo sarà freddo e metallico, del tutto diverso da un blu italiano. La pittura italiana è piena di colori caldi tendenti al rosso; quando il rosso compare nelle opere di un artista nordico come Munch, è come sangue nella neve». Oltretutto, queste differenze di origine climatica e geografica si riflettono inevitabilmente nel calcio. «Il catenaccio somiglia a un dipinto di Tiziano – morbido, seducente e languido. Gli italiani ti accolgono, ti seducono, ti cullano in un morbido abbraccio, e fanno gol che sembrano pugnalate. Gli olandesi costruiscono schemi geometrici. In un quadro di Vermeer, la perla luccica. Si può dire, in effetti, che il luccichio della perla sia l’essenza stessa di Vermeer. L’intero dipinto confluisce in questo dettaglio, così come nel calcio ogni cosa porta al colpo di testa di van Basten. Agli inglesi piace correre e darsele. Quando Gullit provò a trapiantare questa arte tipicamente olandese al Newcastle, stava tentando l’impossibile. Era destinato a fallire».

Per dare un senso alla vasta piattezza della propria terra, dice Fuchs, gli olandesi misero a punto un metodo per calibrare le distanze dall’orizzonte, calcolando lo spazio risultante e prestando un’attenzione meticolosa a ogni oggetto presente all’interno di esso. L’arte olandese sviluppò così un approccio straordinariamente preciso e riverente alla propria realtà. Lo scrittore francese del Diciannovesimo secolo Eugène Fromentin ne parla nel suo I maestri del passato, uno studio sull’arte olandese del Secolo d’oro:[11] «Ogni oggetto, per l’utilità che offre, dovrebbe essere esaminato nella sua forma e disegnato prima di essere dipinto. In questo senso niente è secondario. Un paesaggio con le sue distanze, una nuvola con i suoi movimenti, un’architettura con le sue leggi della prospettiva, un viso con la sua fisionomia, i suoi tratti distintivi, le sue fuggevoli espressioni, una mano con i suoi gesti, un indumento con le sue pieghe naturali, un animale con il suo portamento, il suo sistema scheletrico, le caratteristiche più importanti della sua razza». Fuchs sviluppa ulteriormente quest’idea: «Per gli olandesi prendere le misure è un’inclinazione naturale, un istinto. Misuriamo lo spazio con calma, in modo molto preciso e poi lo ordiniamo nel dettaglio. È così che gli olandesi vedono le cose, il loro approccio allo spazio: una cura selettiva per il dettaglio. Per noi è una cosa naturale, istintiva. Lo vedi nei nostri quadri, nella nostra architettura e perfino nel nostro calcio. Anche nel calcio olandese è tutta questione di misurare lo spazio con estrema precisione».

Fuchs lascia intendere che tutta la pittura olandese, dai tempi di Van Eyck a quelli di Mondrian, sia insieme una meticolosa rappresentazione delle cose osservate e una forma di paesaggio. A proposito della pittura paesaggistica del Diciassettesimo secolo, Fuchs ne evidenzia l’«architettura» e «l’attenta disposizione degli oggetti nello spazio […] la logica chiara dell’organizzazione e della misurata progressione in uno spazio profondo e ordinato». Oggetti, le relazioni spaziali tra essi e ciò che li circonda sono esplorate con riverente e minuziosa attenzione per ogni dettaglio. Secondo Fuchs tutto ciò aiuta a spiegare perché «gli olandesi mostrino un’istintiva deferenza per “l’architetto in campo”, colui che coglie il quadro complessivo in ogni sua componente. Ci piace avere una visione d’insieme, un controllo su ciascun dettaglio. Un Johan Cruijff o un Danny Blind, che concepiscano il quadro generale della partita. Gli olandesi hanno un modo particolare di vedere lo spazio, il paesaggio. Cruijff ne è un esempio, e tutti lo ammirano per la sua comprensione innata della geometria e dell’ordine sul terreno di gioco».

Anche Jeroen Henneman individua un collegamento tra questo tipo di arte e il calcio olandese: «Storicamente, i pittori olandesi hanno sempre voluto ottenere un effetto particolare nelle loro opere, che sembrano lavori facili nonostante richiedano molto impegno. Guardando un dipinto di Mondrian o di Vermeer, si vede qualcosa di molto silenzioso, quieto, fresco e “spazioso”. Quando distanzi le cose, crei un effetto di tranquillità. Niente rumore. Tradurre questo effetto nel calcio significa rendere tutto più facile, perché c’è più spazio per ricevere la palla. All’epoca di Cruijff, i calciatori dell’Ajax iniziarono a cercare lo stesso effetto dei pittori. D’un tratto il calcio non era più una questione di prendersi a calci. Andavi a vedere le partite dell’Ajax e tornavi a casa con la sensazione di aver assistito a qualcosa di speciale, di cui solo tu ti eri accorto. Ma poi parlavi con altre per-sone e ti rendevi conto che tutti si sentivano allo stesso modo. Stava accadendo qualcosa di spirituale, era solo difficile scoprire esattamente cosa. Forse ha a che fare con il senso di bellezza che in Olanda viene associato al calcio. La bellezza è nello spazio e nel campo. È nell’erba, ma anche nell’aria che la sovrasta, dove i palloni possono avvitarsi, e curvare, e cadere, e muoversi come pianeti nel firmamento. Gli olandesi preferiscono studiare come battere qualcuno con la bellezza e l’intelligenza, piuttosto che con la potenza».

Henneman ne sa un po’ di pallone, ed è probabilmente l’unico scultore postmodernista ad aver influenzato il risultato di un importante match internazionale. Nel febbraio del 1977 andò a Londra con il suo amico Jan Mulder, un tempo grande centravanti dell’Ajax e dell’Anderlecht, a vedere l’Olanda sfidare l’Inghilterra a Wembley. Prima della partita, lui e Mulder andarono a trovare l’allenatore della nazionale Jan Zwartkruis e al capitano Johan Cruijff per far loro una proposta. «Ero un ammiratore di Jan Peters, un giocatore piuttosto singolare che al tempo era riserva dell’AZ ’67. Giocava non più di venti minuti, ma in ogni partita segnava uno o due gol. Dissi: “Jan Peters è in grandissima forma. Gli inglesi non hanno mai sentito parlare di lui. Mettetelo in squadra dall’inizio, non come sostituto, e vediamo cosa succede”. Ne parlammo a lungo e alla fine Cruijff e Zwartkruis dissero: «Ok, giochiamo con Peters dall’inizio”». L’Olanda vinse la partita 2 a 0, ma avrebbe potuto benissimo farne cinque. L’Inghilterra di Don Revie, in cui giocavano Kevin Keegan e Trevor Brooking, venne umiliata. E Jan Peters segnò entrambi i gol.

Magro, riflessivo e stravagante, Henneman vive e lavora nel centro di Amsterdam, in una casa a cinque minuti a piedi da Leidseplein. Come Vermeer e Mondrian prima di lui, si dedica all’esplorazione dello spazio e della luce. In uno studio sorprendentemente tranquillo, da cui può osservare la marea di ciclisti, jogger e pattinatori che si riversa incessante per il Vondelpark, mi mostra alcuni esperimenti che ha effettuato con una tecnica di pittura di sua invenzione. Ha prodotto una serie di tele con un pattern quasi identico: un insieme di tre linee spesse e scure circondato da varie sfumature di grigio. Ne osservo una. Non capisco. Il quadro mi sembra totalmente astratto. Non è affatto male, ma restano pur sempre tre linee spesse su sfondo grigio. Poi ci arrivo. Straordinario! La linea superiore è una luce, quella in mezzo un oggetto solido e l’ultima è l’ombra generata dall’interazione delle due. Ingegnoso ed enigmatico; una santa trinità di effetti ottici. L’illusione è talmente potente che mi ritrovo a cercare di sbirciare sotto il bordo della linea superiore per vedere la luce elettrica che dev’esserci per forza nascosta. Ma non c’è. È solo pittura. «Interessante, eh?», dice lui, deliziato dal mio evidente sconcerto. «Ho cominciato a dipingerli sei mesi fa. Non so come accada, ma accade». Nei suoi altri lavori gioca con le proporzioni. Sopra una scrivania c’è la scultura di una lampada da tavolo snodabile, prototipo di una scultura gigante alta venti metri che adornerà la cima di un palazzo di uffici. Di giorno sarà una spiritosa sagoma nera. Di notte si accenderà come un albero di natale, visibile a miglia di distanza.

Prende un foglio di carta per illustrare un esempio della particolare consapevolezza spaziale che gli olandesi mostrano in campo. «Se hai giocato a calcio, hai presente quella situazione in cui la palla ti arriva, tu la colpisci e in qualche modo tutto funziona al millimetro. Quando capita a te, è come un prodigio e rimani sbalordito dalla fortuna che hai avuto, dato che di solito quel colpo non ti riesce. Quando lo vedi succedere in campo, ti sembra un miracolo. Adoro guardare i difensori che si schierano per impedire all’attaccante di penetrare, costringendolo a tenersi di lato. E poi un giocatore fa un lancio a effetto che aggira la difesa. I difensori cominciano ad arretrare, ma la curva della palla atterra sui piedi dell’attaccante, che era dietro la linea difensiva. Quello è un miracolo. Cruijff faceva passaggi del genere, e Dennis Bergkamp ne fa addirittura di più belli». Comincia a disegnare. Su quella carta color crema, le linee precise, le curve eleganti che traccia sono le più pulite e definite che io abbia visto in un mese di diagrammi tattici. «Quando Bergkamp giocava con Nicolas Anelka, Anelka veniva marcato, in questo modo, da due uomini. Allora Bergkamp faceva un bellissimo passaggio a effetto in avanti che curvava leggermente su un lato. Appena il pallone partiva Anelka cominciava a correre e i difensori con lui. Ma essendo un passaggio a effetto, Anelka è più vicino al pallone. Prima del passaggio, Anelka era tagliato fuori dal gioco, marcato da due difensori. Ora è completamente libero e diretto verso la porta in cui andrà a segnare. È un miracolo. Prima il campo è piccolo e affollato. Dopo è enorme, spazioso, e Anelka può mettere a frutto la sua velocità e le sue abilità. Non può più essere toccato. Un passaggio come questo non si tira con troppa potenza, ma dev’essere molto preciso. In Olanda tutti vogliono giocare così, non necessariamente per fare gol.

È una cosa stupenda, una bellissima palla a effetto, ed è efficace. È garbata, modesta. Nessuno si leva la maglia e si mette a ballare dopo un passaggio di questi. Non è nemmeno faticoso fisicamente. Anche un giocatore minuto può riuscirci, sta tutto nel modo di colpire la palla. E bisogna correre un rischio. Un passaggio così può benissimo andare male.

«Cruijff, Bergkamp, van Basten, Mühren, van Hanegem, Jonk… a tutti loro piaceva fare questo tipo di passaggi. Al RKC Waalwijk ora[12] hanno due fratelli e uno dei due è in grado di farlo. Ti apre il campo con un cross a effetto: un semplice passaggio verso il lato opposto e all’improvviso la squadra ha tutto lo spazio del mondo. Credo che sia un’idea di calcio perlopiù olandese. Ci rimasi male quando andai in Brasile. Pensavo: finalmente vedrò il grande calcio brasiliano! Mi aspettavo di assistere a un gioco molto “spazioso”. Ma giocano in modo noiosissimo, tutta tecnica, solo per mettersi in mostra. La bellezza individuale ha naturalmente un suo valore. Ma i passaggi erano sempre molto corti e il gioco era lento. Non lento alla maniera olandese. Progrediva a tentoni, come nel football americano. Lentissimo! Vanno avanti, tornano indietro. Alcuni fanno rapidi giochi di palla, trucchetti graziosi, non c’è che dire, ma non è calcio».

Osservando il grande Ajax giocare, Henneman rimase ammaliato dalle straordinarie geometrie che si dispiegavano sul campo, trame di movimenti e passaggi che prima di allora nel calcio non si erano mai visti. «In molto del calcio giocato dall’Ajax nei tardi anni Sessanta e nei primi Settanta non esisteva una traiettoria diretta verso la porta. Normalmente quando giochi l’obiettivo è andare in gol, e qualunque cosa tu faccia è indirizzata a quello. Ma all’Ajax li vedevi semplicemente giocare a calcio, creare schemi. I movimenti esistevano per il mero gusto di giocare a calcio. Loro giocavano la palla, e d’un tratto potevano sentire il bisogno di fare gol. Ma a volte non accadeva. È una cosa molto artistica. Se c’era l’opportunità di fare gol ovviamente lo facevano, ma non prima. Quello fu anche il periodo in cui il gioco iniziò a muoversi non solo in avanti, ma anche indietro. Gli piaceva questa cosa di passare la palla al portiere. Pur di mantenere il possesso palla rinunciavano al terreno che avevano guadagnato e arretravano, per poi ricominciare ancora e ancora. Segnare era una possibilità, ma il vero fine era la bellezza del calcio in sé. Johan Cruijff concepiva il calcio come un movimento totale dell’intero campo, non come azioni individuali in una parte di esso. Tutti corrono a trovare spazio. È una cosa che c’entra con l’orizzonte; il campo è uno spazio finito. Ma credo che a Cruijff sarebbe piaciuto avere un campo di due chilometri con bellissime onde di movimento astratto che vanno su e giù».


[9] Tratto di terreno ricavato dal prosciugamento di paludi costiere attraverso l’utilizzo di dighe e sistemi di drenaggio. La maggior parte dei polder si trova nei Paesi Bassi. [n.d.t.]
[10] Dave Sexton è morto nel 2012. [n.d.t.]
[11] Periodo della storia olandese che si estende all’incirca per tutto il Diciassettesimo secolo, durante il quale il paese si distinse a livello mondiale in ambito scientifico, commerciale, artistico e militare. [n.d.t.]
[12] Nel 2000. [n.d.t.]

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