Hawkins ai Trotters (1963-1967) - Pagliaccio triste come me


di CHRISTIAN GIORDANO
CONNIE HAWKINS - Il volo spezzato del Falco




Quattro anni dopo l’unica stagione di Wilt Chamberlain, passato ai Philadelphia Warriors della NBA, agli Harlem Globetrotters arriva nel 1963 un’altra leggenda del playground. Una che però mai avrebbe ricordato col sorriso quel suo quadriennio passato a far da clown nero per un pubblico bianco.

Ai lustrini e paillettes dell’èra-Wilt, mai timido sotto i riflettori, a Connie toccò il lato oscuro della luna: la dura vita ai Trotters del padre-padrone Abe Saperstein.

A differenza di The Stilt, che aveva solo l’imbarazzo della scelta sulla squadra che lo avrebbe voluto e strapagato, The Hawk non sapeva dov’altro andare. Marchiato a fuoco dalle (false) accuse per uno scandalo scommesse mai commesso, era stato sedotto e abbandonato dalla University of Iowa, che dopo averlo pagato sottobanco, lo aveva scaricato ritirandogli la borsa di studio e compromettendogli così reputazione e carriera.

In campo però nessuno poteva spezzare il volo del Falco. E non c’erano dubbi che Hawkins fosse già pronto per giocare nei pro’. «Connie Hawkins giocava contro di noi d’estate – ha raccontato Willis Reed, centro e capitano dei New York Knicks campioni NBA nel 1970 e nel 1973 a Josh Wilker nella monografia The Harlem Globetrotters – Tutti noi sapevamo che sarebbe stato una superstar nella NBA». La NBA, però, Hawkins lo aveva già radiato, e senza neanche mai permettergli di difendersi.

Connie da pro’ ci era anche arrivato, per due anni, ai Pittsburgh Rens della raffazzonatissima American Basketball League dello stesso Saperstein. E quando la ABL fallì, Hawk non aveva scelta. Connie, una specie di genio tutto istinto in campo, non aveva fatto – né sapeva fare – altro. Il basket, appreso al playground, era tutta la sua vita. L’unica cosa al mondo che conosceva, e che non lo faceva sentire inferiore, inadatto, inadeguato. Saperstein gli offrì un lavoro, e lui accettò.



Timido e introverso, Connie soffriva ancora degli effetti postumi dell’infanzia trascorsa in estrema povertà nel ghetto brooklyniano di Bed-Stuy. Impossibile far cicatrizzare, tra le altre, le ferite per aver dovuto sopportare le sprezzanti risatine degli altri ragazzi del quartiere, che lo schernivano e lo dileggiavano per gli stracci che indossava, per di più sempre troppo corti e stretti per quella sua debordante fisicità. Patologie della psiche per cui non esisteva rimedio. Non allora, non per Connie. «Mi sono sentito stupido così tanto nella mia vita – ammetterà Hawk – che non volevo più vivere situazioni in cui la gente potesse ridere di me». Tradotto, Connie Hawkins voleva solo giocare a basket e non fare il clown. Non proprio la mission aziendale che Saperstein aveva in mente per i suoi Trotters.

Quella riluttanza a rendersi ridicolo per i tifosi, assieme allo sfruttamento sottopagato da parte di Saperstein e a un contesto ipo-competitivo che gli stava erodendo il talento non fecero che accrescere il risentimento di Connie verso quell’ambiente, e più in generale quell’esperienza. Un retrogusto amaro di cui Hawks maturerà piena consapevolezza soltanto qualche anno dopo. «In campo non facevano altro che recitare la parte dello Zio Tom. Gran sorrisi, moine, balletti – è così che ci chiedevano di comportarci, ed è così che tanti bianchi pensavano fossimo davvero».



E dire che i rapporti razziali si erano evoluti rispetto a quelli agli albori dei Trotters, tuttavia – e qui Hawk ha ragioni da vendere – erano ancora tanti i bianchi che, consapevolmente o no, perpetuavano l’immagine, comoda e rassicurante, del nero che agiva o si comportava da clown.

A Connie parve davvero un altro mondo l’Europa quando con gli Harlem vi volò per la prima volta. Per uno mai uscito da Harlem se non per andare, respinto con perdite, nell’Iowa, doveva essere una specie di sbarco sulla luna. «Appena sceso dall’aereo – racconterà a Wilker nella stessa monografia sui ’Trotters – Sentivo come se mi fossi liberato di ogni pressione. La gente ti trattava in modo diverso, lì. Ragazzi, ti sorrideva. Tornato a casa, sentivo che la gente mi dava addosso perché sono di colore». Sensazione confermatagli dal compagno di squadra Tex Harrison: «Vecchio, goditela quaggiù. Da questa sponda dell’oceano – forse perché siamo Trotters – siamo re. Tornati a casa, saremo ancora niente».



Non c’erano però solo le questioni razziali ad accrescere il risentimento di Hawk nei confronti dei Trotters. O meglio, verso chi ne staccava gli assegni: Abe Saperstein. E le basse cifre erano uno dei motivi, non il motivo. Dopo un paio di anni con la squadra, Hawkins prendeva ancora l’equivalente di 35 dollari a partita. E in quattro stagioni lì aveva guadagnato quanto Wilt Chamberlain ai Philadelphia Warriors della NBA tirava su in un mese. 

Forse ancora più della questione soldi però il suo crescente risentimento verso Saperstein derivava dagli atteggiamenti paternalistici, di sufficienza – per non dire di superiorità – con cui il patron si rapportava ai propri giocatori. «Finché recitavi la parte del bravo ragazzo riconoscente – spiegherà Connie – Abe era buono con te. Dovevi fargli sapere che per te lui era un grande, e aveva sempre ragione lui. E dovevi farti andare bene quei suoi complessi e stereotipi».

Mica facile, specie nei «mitici» Sixties, anche se non avevi un altro posto dove andare e, presto, altre due bocche da sfamare.




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